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Commento alla legge n. 228 dell’11 agosto 2003, sulle “Misure contro la tratta di persone”

Questa legge ha modificato radicalmente la definizione di riduzione in schiavitù, specificando anche un comportamento ad essa analogo ovvero la riduzione in servitù.

Si tratta di una norma destinata ad avere un campo di applicazione molto ampio soprattutto per sanzionare in generale comportamenti di sfruttamento, ovvero in particolare l’induzione e lo sfruttamento della prostituzione, dell’accattonaggio, le prestazioni lavorative in condizione di sfruttamento e completa soggezione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro. Vengono inoltre previste misure specifiche per la repressione di questi comportamenti che vanno a modificare alcune disposizioni del codice penale.
Si vogliono di seguito analizzarne gli elementi essenziali.

La legge in oggetto ha modificato l’art. 600 del codice penale intitolato “Riduzione in schiavitù” che recitava: Chiunque riduce una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. Di tenore completamente diverso e più specifica – al fine di far rientrare nella fattispecie normativa una serie di condotte precedentemente non comprese – la nuova formulazione del testo.

“ART. 600. – (Riduzione o mantenimento in schiavitu’ o in servitù)
Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprieta’ ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, e’ punito con la reclusione da otto a venti anni. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta e’ attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorita’ o approfittamento di una situazione di inferiorita’ fisica o psichica o di una situazione di necessita’, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorita’ sulla persona. La pena e’ aumentata da un terzo alla meta’ se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi“.

Già dal titolo si comprende che si è voluto operare una distinzione tra la condizione di riduzione o mantenimento in schiavitù in senso stretto, rispetto ad una condotta che è analoga, ma ha caratteristiche differenti ovvero “la riduzione o mantenimento in servitù”.

Al concetto originario di riduzione in schiavitù, si aggiunge quello di riduzione in servitù che comprende una condotta che non necessariamente deve limitare 24 ore su 24 la vita di un soggetto, ma che di fatto da luogo ad una situazione di sfruttamento, sia al fine di ottenere prestazioni sessuali, per se o per altri, sia per l’impiego di un soggetto in attività di accattonaggio, e nello svolgimento di specifiche prestazioni lavorative.

Dalla formulazione della norma si evince che la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata non solo mediante violenza, minaccia e inganno, ma anche abuso di autorità, o approfittamento di una situazione di necessità.

Esempio pratico – Possono ravvisarsi tali situazioni nell’atteggiamento del datore di lavoro nei confronti del dipendente, qualora di approfitti della situazione di necessità in cui si può trovare una persona che non può rivolgersi a nessuno per avere aiuto (un cosiddetto clandestino) e che di fatto è costretta ad accettare qualsiasi condizione di lavoro per sopravvivere, ottenendo in cambio di prestazioni di lavoro massacranti e precarie solo la promessa di un inesistente possibilità di regolarizzazione, un modesto peculio per l’acquisto di cibo e la “generosa” possibilità di dormire nel cantiere, magari con l’ordine di non farsi vedere e di uscire solo se autorizzato e comunque “alla chetichella”.

La nuova legge prende anche in considerazione la condotta di chi si approfitta di una persona che si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica, comprendendo quindi non solo i disabili e gli handicappati psichici ma anche i minori.

Si considera infine la condotta attuata mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.

Esempio pratico – Si pensi al consenso dei genitori che esercitano la potestà sul minore, ottenuto con la promessa di denaro o altri vantaggi.
Non deve, quindi, trattarsi necessariamente dell’ipotesi di vendita del minore (peraltro ben raramente dimostrabile), ma semplicemente di un vantaggio economico attribuito alla famiglia affinché induca il minore stesso a mettersi a disposizione di uno sfruttatore.

Sono inoltre stati modificati gli articoli 601 (Tratta e commercio di schiavi) e 602 (Alienazione e acquisto di schiavi) del codice penale.

L’articolo 601 definisce ora la tratta di persone, mentre l’articolo 602 l’acquisto e alienazione di schiavi. Vediamoli di seguito.

ART. 601. – Tratta di persone
Chiunque commette tratta di persona che si trova nelle condizioni di cui all’articolo 600 ovvero,
al fine di commettere i delitti di cui al primo comma del medesimo articolo, la induce mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorita’ o approfittamento di una situazione di inferiorita’ fisica o psichica o di una situazione di necessita’, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorita’, a fare
ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno, e’ punito con la reclusione da otto a venti anni. La pena e’ aumentata da un terzo alla meta’ se i delitti di cui al presente articolo sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al
fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi”.

In tutti questi casi si condanna la condotta di chi, al fine di commettere i delitti di cui al primo comma dell’art. 600, induce l’ingresso, il soggiorno o l’uscita o il trasferimento all’interno del territorio dello Stato, nei confronti di una persona che si trovi nelle condizioni di cui all’articolo medesimo.

ART. 602. – Acquisto e alienazione di schiavi

“Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo 601, acquista o aliena o cede una persona che si trova in una delle condizioni di cui all’articolo 600 e’ punito con la reclusione da otto a venti anni. La pena e’ aumentata da un terzo alla meta’ se la persona offesa e’ minore degli anni diciotto ovvero se i fatti di cui al primo comma sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di
sottoporre la persona offesa al prelievo di organi”.

Da questo breve esame della legge in oggetto, risulta con evidenza che la precedente formulazione dell’articolo 600 c.p. prevedeva una fattispecie di reato indubbiamente più generica, in base alla quale veniva punita la condotta di chiunque, in qualsiasi modo (a prescindere dall’uso di violenza psichica o fisica) avesse ridotto una persona in schiavitù, o in una condizione ad essa analoga.
Peraltro tale disposizione poneva problemi interpretativi notevoli, soprattutto perché non era sempre di facile individuazione l’ipotesi della condizione analoga alla schiavitù. In effetti il concetto di schiavitù, nel senso storico del termine, è sostanzialmente sparito e oggi sarà più difficile assistere (almeno per la realtà italiana) a una tradizionale riduzione in schiavitù e cioè al comportamento di qualcuno che tratta e detiene una persona come fosse un bene materiale, facendone ciò che vuole.

Diciamo che oggi normalmente tutta una serie di pressioni, forme di assoggettamento, di sottoposizione al dominio mediante inganno, minaccia, violenza, abuso, sono normalmente finalizzate all’ottenimento di risultati per lo più di carattere economico. Ecco che la riduzione in uno stato di servitù si individua di più attraverso questi comportamenti.

La giurisprudenza, precedentemente all’emanazione della legge in oggetto, si era già occupata di definire le condotte analoghe alla riduzione in schiavitù (Si vedano in particolare: C.Cass., Sez. V, 24 gennaio 1996, n. 2390; C. Cass., sez. V, 20 marzo 1990, n. 3909), riferendosi alla definizione di condotte analoghe contenuta nella Convenzione supplementare relativa all’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù, firmata a Ginevra il 7 settembre 1956, poi ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 1304 del 20 dicembre 1957 (G.U. 18/01/1958, n. 14).
Nella Convenzione venivano prese in considerazione tutta una serie di pratiche rientranti nella definizione di comportamenti analoghi alla schiavitù come, per esempio, la riduzione in servitù per debiti (art. 1, lett. a) o per lavorazione della terra (art.1, lett. B). E ancora ogni istituzione e pratica secondo la quale una donna è promessa o data in matrimonio mediante compenso in denaro o natura senza che la stessa abbia la facoltà di rifiutare (art. 1, lett. C), o secondo la quale un minore poteva essere ceduto ad altri dietro pagamento o meno in vista del suo sfruttamento (art. 1, lett. D).

Tale elencazione non riusciva però a comprendere tutta una serie di comportamenti che di fatto venivano identificati come nuove forme di schiavitù e che, come tali, potevano sottrarsi all’applicazione della legge, proprio perché non espressamente previsti dalla norma stessa.

Il nuovo articolo 600 ha l’indiscutibile pregio di soddisfare appieno le esigenze di “tipicità” della fattispecie incriminatrice e ciò perché il principio cardine del diritto penale è che la norma è tassativa, ovvero si può condannare una persona solo in base a fatti che siano espressamente previsti dalla norma penale sanzionatrice e non per condotte simili non comprese nella stessa.

Si rileva che il succitato articolo mantiene una distinzione tra le nozioni di schiavitù e di servitù, ma che ciò, dal punto di vista pratico, non ha grande rilievo perché entrambi i comportamenti sono puniti in modo identico.

Mentre per quanto riguarda la definizione di schiavitù in senso stretto, si prevede che sia punito chi – avvalendosi di una qualsiasi condotta – esercita poteri corrispondenti al diritto di proprietà, per la definizione di riduzione in servitù vengono prese in considerazione tutta una serie di attività – ora previste dalla norma – volte a ridurre o a mantenere una persona in uno stato di soggezione continuativa costringendola a tutta una serie di prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (prestazioni lavorative o sessuali, accattonaggio). Tale assoggettamento assume rilievo ai fini penali solo quando si è realizzato mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità, approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità o mediante la promessa di somme di denaro o altri vantaggi a chi ha autorità o potestà genitoriale sulla persona. Una qualsiasi di queste condotte permette di identificare il reato di riduzione in servitù e, quindi, di applicare le norma sanzionatrice.

L’assoggettamento deve essere continuativo ovvero deve trattarsi di una condotta abituale e non di un singolo episodio. Si tratta inoltre di un reato che è necessariamente “permanente” e ciò comporta delle conseguenze molto importanti dal punto di vista della giurisdizione, infatti, quando la consumazione della condotta – prevista dalla legge come reato – è iniziata all’estero per poi proseguire in Italia, è sicuramente punibile secondo la legge italiana ai sensi dell’art. 6 del codice penale (Reati commessi nel territorio dello Stato).

E’ importante precisare che con la modifica dell’art. 600 c.p. operata dalla legge 228/03, si è introdotta una novità importante, ovvero la punibilità della condotta di mantenimento in uno stato di soggezione continuativa. Nella sua formulazione originaria l’art. 600 presupponeva infatti l’iniziale libertà della persona, ridotta successivamente in schiavitù, mentre il testo novellato prende ora in considerazione anche la condizione della persona che sia già in condizione di schiavitù e venga poi trattata e assoggettata da altri con identica responsabilità.

Ora, sulla base di queste definizioni normative, non vi sono più dubbi sulla più grave rilevanza penale di varie fattispecie quali, ad esempio, l’ipotesi del minore costretto dai genitori all’accattonaggio oppure ceduto (per denaro o altri vantaggi) dagli stessi ad altri soggetti a scopo di sfruttamento. Si precisa che anche se questa attività viene esercitata dai genitori si rientra nella definizione di riduzione in schiavitù o in servitù.

Rientrano nell’ipotesi sanzionata dalla norma penale anche i casi tipici dell’acquisto di minori, della loro costrizione a mendicare o a delinquere a vantaggio di sfruttatori, ovvero la situazione in cui uno dei componenti della famiglia ceda verso corrispettivo una donna ad un terzo dopo averla portata all’ esaurimento. Si tratta di situazioni che avevano già impegnato la magistratura e che ora trovano una puntuale definizione nella nuova formulazione della norma.

Rientrano nella fattispecie normativa anche quei comportamenti di datori di lavoro – che spesso troviamo riportati nelle cronache dei giornali -, che mantengono in condizioni di assoggettamento dipendenti clandestini, tenendoli rinchiusi nel luogo di lavoro e costringendoli a pagare con il loro lavoro una sorta di debito per l’ingresso in Italia ed un alloggio (tipici gli esempi dei laboratori clandestini).

Per queste tipologie di reato la nuova legge prevede la possibilità di ricorrere alle azioni sotto
copertura, utilizzando la figura dell’agente provocatore. Ne discende che queste forme di intervento nel corso delle indagini che erano prima previste per la criminalità organizzata o la mafia, possono ora essere utilizzate anche per questo tipo di reati.

È stata estesa infine una particolare tutela della riservatezza delle vittime di questi reati, che possono usufruire di particolari forme di protezione, specialmente quando si tratta di testimoni. Ecco che nell’ambito del processo penale, il dibattimento può svolgersi con particolari modalità atte a garantire la riservatezza e, quindi, la tutela dalle eventuali intimidazioni provenienti dagli ambienti criminali.

La legge prevede inoltre l’istituzione del Fondo per le vittime anti tratta (art. 13) destinato a programmi di assistenza e integrazione sociale in favore delle vittime dei reati previsti dalla stessa, oltre che per le finalità già contemplate dall’art. 18 del T.U. sull’immigrazione (Soggiorno per motivi di protezione sociale). Infatti il fondo istituito e previsto da questo articolo (si veda l’art. 25, dpr 394/99) – largamente utilizzato per le vittime di prostituzione che collaborano con la giustizia e temono vendette – viene ora esteso alle vittime della tratta e dovrebbe essere costituito anche attraverso i proventi dei beni confiscati a seguito della sentenza di condanna.

Sembra che il legislatore non abbia approntato dei mezzi sufficienti per far fronte concretamente alle politiche di solidarietà previste dalla normativa in oggetto, ciò perché il finanziamento del fondo avviene attraverso i canali previsti dall’art. 18 del T.U. (solo 10 miliardi delle vecchie lire), oppure, come si è detto, in modo “virtuale” attraverso la confisca dei beni (i tempi per realizzare la confisca sono lunghissimi e molto spesso i beni sono intestati a persone di comodo).

In buona sostanza mentre le finalità che si intendono perseguire aumentano, i soldi rimangono sempre gli stessi.
C’è da augurarsi che in seguito ci si renda conto che, se si vorranno veramente sostenere questi progetti di reinserimento (quindi facilitare la denuncia di tali comportamenti) e offrire un’alternativa valida alle persone sfruttate, saranno necessari più soldi, che è corretto considerare come una forma di investimento proprio per facilitare la repressione di questi reati.

Si precisa infine che le modifiche apportate all’art. 600 e seguenti dal codice penale, avranno una ricaduta rilevante nel trattamento e nella tutela dei cosiddetti minori non accompagnati, spesso vittime di svariate forme di sfruttamento.