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Commento all’ordinanza della Corte di appello di Firenze sui concorsi pubblici

In data 2 luglio 2002, la Corte d’Appello di Firenze ha emanato una ordinanza che non ha avuto la divulgazione che avrebbe meritato, avente ad oggetto il diritto del lavoratore immigrato legalmente soggiornate in Italia, di partecipare ai concorsi pubblici e, quindi, di poter lavorare nella Pubblica Amministrazione a tutti i livelli, con esclusione dei posti pubblici che comportano l’esercizio dei poteri di autorità (ad es: forze dell’ordine, magistratura, ecc.). Si precisa per completezza d’esposizione, che ai sensi dell’art 39, comma 4, del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), anche i cittadini dell’Unione europea non possono accedere agli “impieghi nella pubblica amministrazione”, ponendo quindi una limitazione all’applicazione delle norme comunitarie relative alla libera circolazione delle persone. La Corte di Giustizia ha però fornito una interpretazione restrittiva della nozione stessa dichiarando che l’esclusione operata dall’articolo sopramenzionato riguarda solamente “un complesso di posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche” (si veda la Sentenza del 17 dicembre 1980, C149/79).

Si evidenzia che è pacifico il principio per cui i lavoratori immigrati legalmente soggiornanti, hanno il diritto alla parità di trattamento e di opportunità rispetto ai lavoratori italiani (Art. 2 del T.U. sull’Immigrazione) e che dallo stesso deriva anche il diritto di partecipare ad un concorso per entrare nella Pubblica Amministrazione. Ci eravamo già occupati di questo argomento commentando una sentenza del T.A.R. della Liguria che riconosceva ed applicava questo principio nei confronti di una persona che aveva chiesto l’assunzione presso il Comune di Genova. In quel caso il T.A.R. aveva affermato la piena applicabilità dell’art. 2 T.U., con conseguente abrogazione delle norme preesistenti che sancivano il requisito della cittadinanza italiana o dell’Unione europea per poter partecipare a pubblici concorsi o, comunque, per poter lavorare nella Pubblica Amministrazione. A questo riguardo dobbiamo precisare che si può accedere alla stessa, solo in base ad un concorso pubblico, anche se vi sono posti di lavoro (le cosiddette qualifiche basse) che non richiedono determinati livelli di istruzione, ove cioè non è necessario un vero e proprio concorso, ma si provvede alla copertura dei posti attraverso la cosiddetta selezione. In altre parole gli Uffici di collocamento trasmettono i nominativi delle persone in possesso dei requisiti professionali richiesti e, quindi, si procede ad una selezione pubblica in base alla semplice graduatoria degli iscritti al collocamento stesso.

Si evidenzia che la regola della parità di trattamento nell’accesso alla Pubblica Amministrazione sembra pacificamente ribadita (confermando, quindi, l’orientamento espresso dal T.A.R. della Liguria) dalla Corte di Appello di Firenze, sia nel caso della selezione mediante il collocamento, che in quello del pubblico concorso.
La Corte di Appello di Firenze ha avuto occasione di occuparsi della questione proprio in occasione di un reclamo proposto da un cittadino albanese avverso un ordinanza emessa dal Tribunale di Firenze che aveva dato ragione alla Pubblica Amministrazione, ritenendo ancora valida la norma che limita ai soli possessori della cittadinanza italiana la possibilità di accesso al pubblico impiego.

La Corte di Appello di Firenze stravolgendo l’esito del procedimento di primo grado, ha, invece, ritenuto di poter pacificamente affermare la piena validità del principio stabilito dall’art. 2 del T.U. e soprattutto che l’esclusione dalla partecipazione al concorso presso una Pubblica Amministrazione costituisce un atto di discriminazione che, come tale, può essere sanzionato in base agli art. 43 e 44 del T.U. sull’Immigrazione che riguardano rispettivamente la “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” e l’ “Azione civile contro la discriminazione”.

In particolare l’art. 43, comma 2, lett. c) del T.U. prevede che sia un atto di discriminazione anche quello posta in essere dalla p.a., ovvero che discrimina “chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione…allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”. Nel caso specifico la Corte di Appello di Firenze ha ritenuto che l’azienda ospedaliera di Pisa abbia commesso un atto di discriminazione imponendo al cittadino albanese condizioni più svantaggiose per partecipare al concorso rispetto a quelle imposte ai cittadini italiani. Si evidenzia che in questo caso il cittadino albanese non si è rivolto al Tribunale Amministrativo Regionale (T.A.R.) per chiedere che fosse accertata l’illegittimità del provvedimento amministrativo di esclusione e, quindi, per chiederne l’annullamento, ma ha ritenuto che, trattandosi di una vera e propria discriminazione operata nei suoi riguardi, fosse possibile rivolgersi direttamente al Giudice ordinario ovvero al Tribunale del luogo del suo domicilio (art. 44, T.U. sull’Immigrazione) e, successivamente, (visto che gli aveva dato torto) alla Corte di Appello di Firenze.

La sentenza di cui sopra è importante non solo perché riafferma il principio di parità di trattamento, ma anche perché precisa che in questi casi non occorre rivolgersi al T.A.R per annullare il provvedimento amministrativo di esclusione, ma direttamente al Tribunale Civile ordinario perché si tratta di un comportamento discriminatorio come espressamente previsto dal T.U. sull’Immigrazione.

Speriamo che tale pronuncia possa favorire la divulgazione di queste esperienze e soprattutto far crescere il livello di civiltà negli Uffici pubblici, anche perché continuano a giungerci notizie di molti cittadini immigrati che chiedono di poter partecipare alle selezioni per accedere ad un impiego presso la P.A. e, nella maggior parte dei casi, accade che (e solo verbalmente) i funzionari competenti rispondano che non è possibile presentare la domanda perché gli stessi non hanno la cittadinanza italiana.

Cosa fare: Non è possibile fare un ricorso legale contro una risposta verbale e, quindi, è di fondamentale importanza pretendere (e ne hanno tutto il diritto) che la domanda venga formalmente recepita, che gli venga rilasciata una ricevuta attestante la presentazione della stessa e di richiedere una risposta scritta, adeguatamente motivata, con la precisazione dei termini entro i quali è possibile fare ricorso e l’indicazione dell’autorità competente a riceverlo.