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L’accesso agli alloggi pubblici e le discriminazioni nei confronti dei cittadini extracomunitari

La legge Bossi – Fini (art. 27, comma 1, lett. d) – L. 30 luglio 2002, n. 189) ha modificato l’art. 40 del T.U. sull’Immigrazione (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286), il cui comma 6 stabiliva che i cittadini extracomunitari titolari di carta di soggiorno e in regola con il pds che fossero iscritti nelle liste di collocamento o che esercitassero una regolare attività di lavoro subordinato o autonomo, avevano il diritto di accedere, in condizione di parità con i cittadini italiani, a tutte le opportunità di assegnazione di alloggi popolari o acquisto, a condizioni agevolate (come prevede la legislazione in materia di edilizia popolare). Nella versione modificata dell’articolo sopra citato, al comma 6 si dispone che “Gli stranieri titolari di carta di soggiorno e gli stranieri regolarmente soggiornanti in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo hanno diritto di accedere, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e ai servizi di intermediazione delle agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni regione o dagli enti locali per agevolare l’accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato in materia di edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione.”
In altre parole l’ equiparazione ai cittadini italiani operata dalla “nuova” norma sembra solo leggermente ristretta, ma in realtà nella pratica la situazione si presenta di gran lunga peggiore.

Nell’articolo si fa riferimento agli stranieri titolari della o in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale
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Si ritiene opportuno aprire una piccola parentesi sulla carta di soggiorno perché vale la pena ricordare che alcune questure ancora si rifiutano di considerare la domanda di rilascio della stessa che venga presentata da una persona in possesso del pds ancora valido, richiedendo all’interessato di tornare una volta che il pds stesso sia scaduto.

Si tratta di una pretesa illegittima poiché la carta di soggiorno garantisce maggiori vantaggi rispetto ad un normale pds, e si può chiederne il rilascio anche prima della scadenza del pds medesimo (in teoria anche subito dopo che si è rinnovato il pds). Ciò perché si ha tutto l’interesse ad avere il prima possibile tale documento anche perché, per esempio, nel caso della nascita di un figlio, consente di beneficiare dell’assegno di maternità (che invece non è riconosciuto a chi è in possesso del normale pds).

Si vuole ora analizzare la questione della casa. Abbiamo già precisato che il principio della parità di trattamento stabilito dall’art. 40 T.U., è stato ristretto molto di più nella pratica che nella teoria. L’art. 5, comma 3 bis, lett. c) del T.U. sull’Immigrazione come modificato dalla legge Bossi – Fini (art. 5), prevede che il pds per lavoro non può superare la durata di due anni, in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Sappiamo, invece, che per tutte le persone che hanno normali contratti di lavoro a tempo determinato, interinale o contratti co.co.co. a durata limitata, non viene rilasciato per prassi il pds della durata di due anni, bensì della durata di un anno.

Ne consegue che, in base alla modifica apportata dalla Bossi – Fini all’art. 40 T.U., intere categorie di lavoratori che vivono in Italia magari da tanti anni, in possesso di tali tipologie contrattuali continuamente reiterate, non possono ottenere il riconoscimento di una parità di trattamento per quel che riguarda l’accesso agli alloggi, perché appartenenti al settore più precario del mercato del lavoro. D’altra parte si è prima precisato che condizioni previste dall’art. 40, comma 6 T.U., per poter godere di una parità di trattamento in tal senso, sono che si possieda un pds almeno biennale e che sia in corso di svolgimento un attività di lavoro subordinato.

Si evidenzia peraltro, che il problema ancora più serio è quello che molte questure – poiché la norma è formulata in maniera ambigua – ritengono che, anche in situazioni di contratto di lavoro a tempo indeterminato, reddito sufficiente, mancanza di precedenti penali, ecc., il pds può e non deve essere rilasciato per una durata di due anni. Si mantiene, quindi, ovvero si pretende di mantenere, quello spazio di discrezionalità che non lascia intendere quali possano essere i criteri per dare a qualcuno il pds valido per due anni e ad altri per uno o un anno e mezzo.

Per quanto riguarda poi la prassi interpretativa di questa norma operata dalle questure, si evidenzia che iniziano ad essere segnalate interpretazioni molto discutibili.

In base ad alcune interpretazioni, per esempio, nel momento in cui si richiede l’accesso all’alloggio, sarebbe necessario un pds non solo biennale, ma appena rinnovato e cioè che abbia davanti a se due anni interi di validità.

Ciò ha già costituito una scusa per gli Uffici casa dei Comuni, per escludere soggetti che erano nel loro pieno diritto dalla partecipazione al bando per l’assegnazione di alloggi popolari

Diciamo subito che questa è un’interpretazione assurda e che si tratta dell’invenzione di una regola che non è scritta da nessuna parte e ricordiamo che è sufficiente che il rinnovo del pds non garantisca due anni, ma ,ad esempio, 23 mesi.

La scelta discriminatoria di Treviglio (Bergamo)

Si tratta di una scelta esotica operata dall’Aler (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale), che ha limitato la possibilità di acquisto degli alloggi popolari ai soli cittadini italiani ed europei. La scelta è stata giudicata esplicitamente discriminatoria da piu’ parti, in quanto esclude tutti i cittadini non comunitari, e, quindi, anche coloro che hanno un lavoro regolare e risiedono da almeno cinque anni in Italia e coloro che hanno la carta di soggiorno. Un’agenzia di stampa dei giorni scorsi scriveva “ Inevitabili le polemiche e gli attacchi all’Aler, con i sindacati in prima linea. Cgil, Cisl e Uil, con i propri uffici immigrazione e i sindacati inquilini Sunia, Sicet e Uniat, giudicano «estremamente grave» la decisione e annunciano iniziative a tutto campo per contrastarla. «Siamo al paradosso – si legge in un comunicato sindacale – di negare perfino il libero mercato, che si basa sul principio di domanda e offerta. Il segnale, che emerge dalla presa di posizione dell’Aler bergamasca e’ fortemente preoccupante poiché in esso si intravede un atteggiamento basato su pregiudizi e non su scelte che attengono al ruolo pubblico dell’azienda.
L’incomprensibilita’ di tale decisione e’ piu’ evidente in un momento in cui si moltiplicano le iniziative e gli sforzi finalizzati a favorire una integrazione tra le varie culture e per valorizzare le diversita’». Dura anche la reazione della segreteria provinciale dei ds, che ha definito la scelta dell’Aler «miserevole e demagogica».

Si evidenzia peraltro la posizione del Presidente dell’azienda stessa (Alleanza Nazionale), per cui la scelta di discriminare tutti i cittadini immigrati è stata motivata con la volontà di evitare spiacevoli situazioni «come a Milano, dove l’Aler ha ceduto immobili che oggi sono in mano interamente ad extracomunitari, per esempio i cinesi».

Al di là delle valutazioni politiche e dei commenti su osservazioni più o meno vergognose fatte da taluni, quello che si deve rilevare dal punto di vista giuridico è che questo provvedimento che discrimina tutti i cittadini extracomunitari, ovvero anche quelli che la legge pacificamente definisce come aventi pari diritti per quanto riguarda anche la possibilità di acquistare a condizioni agevolate degli alloggi, è illecito e può costituire oggetto di una azione civile contro la discriminazione come espressamente disciplinata dall’art. 44 del T.U. sull’immigrazione. Tale domanda può essere proposta di fronte al Giudice ordinario, non solo da chi è stato personalmente escluso dal bando, ma anche da parte di associazioni che si preoccupano di tutelare gli interessi diffusi della categoria degli inquilini o da persone che hanno bisogno di un alloggio, come i sindacati degli inquilini, ecc.

Mi auguro che anche le organizzazioni sindacali che hanno così duramente attaccato questo provvedimento si stiano già dando da fare in questo senso. Confidiamo sul fatto che l’iniziativa giudiziaria non si faccia attendere e che l’esito – visto che si tratta di un caso elementare di discriminazione – sia favorevole ai lavoratori interessati con conseguente accertamento della discriminazione da parte della magistratura competente ed adozione di tutti i provvedimenti, anche a carattere urgente, che si rendano in tal senso indispensabili.

Quello appena esposto è un valido esempio di come vi siano organi e poteri istituzionali che – nonostante la chiara formulazione della legge – hanno l’ambizione più o meno evidente di creare o immaginare delle regole diverse da quelle stabilite dalla legge. Si tratta di una tentazione cui è difficile resistere specialmente se si pensa che la legge non serve in quanto tale, ma che quello che conta è l’esercizio del potere.