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da Liberazione del 9 ottobre 2003

«Senza famiglia, non punibili, ma incarcerati a Torino»

Gianluca Vitale è avvocato a Torino, si occupa da anni di immigrazione ed è associato all’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione); ha seguito con costanza la realizzazione di quello che è stato definito il primo Cpt per minori realizzato proprio a Torino e riservato a ragazzi stranieri al di sotto dei 14 anni, privi di nucleo familiare e resisi responsabili di piccoli reati o di accattonaggio. Una struttura di contenzione nata, in collaborazione con il Tribunale dei minori, con una delibera agghiacciante nei contenuti, proposta da una giunta di centrosinistra. «Non sono certo che ne siano state realizzate altre, forse a Firenze, ma questa è particolare. L’idea base era quella di creare una comunità protetta per minori vittime di sfruttamento, in particolare provenienti dal Marocco e dalla Romania ma le premesse sono a dir poco assurde. Si dice esplicitamente nella delibera che le ragioni della sua realizzazione risiedono nell’allarme sociale procurato dai reati commessi da tali soggetti, li si definisce come condannati ad un futuro di devianza sociale e di criminalità, di fatto irrecuperabili».

Quindi nessun percorso di reinserimento?

Esattamente. Chi ci finisce dentro resta 60 giorni in attesa di essere identificato e rimpatriato. Se si riesce a entrare in contatto con il nucleo familiare di provenienza si restituisce il minore alla famiglia altrimenti è lo stato, tramite le ambasciate, a farsene carico. Questa è la ragione per cui il centro è riservato a Marocchini e Rumeni, con la Romania addirittura c’è la prassi consolidata per cui il minore viene preso e rimpatriato prima ancora di una sua identificazione individuale. E’ rumeno e finirà in qualche orfanotrofio di Bucarest, in attesa di fuggire e riprovarci.

Ma esiste qualche giustificazione a una simile procedura?

Che ci siano minori stranieri costretti da finti zii a commettere piccoli reati è certo. Come è certo che esistano reti criminali che spostano i bambini da Torino, a Roma, a Parigi per renderne più difficile l’identificazione ma queste non sono soluzioni. Intanto, nonostante i muri di cinta e i rimpatri il sistema non si estingue e poi non sarebbe molto più propositivo costruire percorsi di reinserimento sul modello dell’articolo 18 della legge 40 ( quello che assicura protezione alle prostitute che vogliono sfuggire alla tratta). Posso pure accettare l’idea che all’inizio debbano rendersi necessarie condizioni coattive anche per impedire che il bambino ricada in mano ai suoi sfruttatori ma poi debbo offrirgli delle opportunità, deve poter vedere le autorità come uno strumento di cui avvalersi.

Cosa si potrebbe fare?

Potenziare le unità di strada a cui invece il Comune ha tagliato i fondi, aiutare chi si preoccupa di agganciare il bambino e acquisire con lui un rapporto di fiducia, stimolare chi si vuole fare personalmente carico dei singoli. In fondo si enfatizza un fenomeno che coinvolge a Torino poche decine di minori. Invece si preferisce costruire questa piccola galera in un quartiere ad alta densità di migranti come Porta Palazzo. Il messaggio che si propaga è chiaro: questa è l’autorità a cui bisogna sottostare, guai a fidarsi di chi dice di volerti aiutare e poi di sbatte in una stanza e poi su un aeroplano. L’assurdo è che poi nei casi specifici gli operatori della struttura cercano anche di comportarsi diversamente e di costruire percorsi di “recupero” ma tutto ciò avviene in maniera sotterranea e nella più totale discrezionalità. Alla cittadinanza deve giungere un messaggio sicuritario: basta con questi piccoli mendicanti, spacciatori o scippatori, poi in segreto ci si lava la coscienza aiutandone qualcuno.