Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 18 dicembre 2003

Little Africa, Roma Tiburtina di Cinzia Gubbini

Roma – Ci si arriva seguendo una lunga strada a senso unico, via dei Cereali, che si snoda tra un pezzo di campagna risparmiata al cemento e l’avanzare dei cantieri che consegneranno ai posteri la nuova stazione ferroviaria Tiburtina di Roma. Con un po’ di fantasia e la necessaria poesia che uno ci mette quando va in visita in un luogo di confine – perdipiù alla vigilia della giornata internazionale del migrante – quell’accenno ai cereali sembra fatto apposta, così carico di simbolismi relativi alla vita, alla nascita e alla speranza. E poi c’è anche la scenografia che prepara perfettamente al salto in un mondo altro nel cuore di Roma: perché per entrare in quello che ormai tutti chiamano l’hotel Africa ci si infila in un buco da assalto al caveau, e ci si ritrova in uno spiazzo su cui il cielo incombe e la terra alza polvere. Da un lato, protette da inferriate, lavorano le scavatrici, dall’altra l’hotel Africa, appunto: due lunghi edifici, ex magazzini delle ex statalissime ferrovie di cui ci si è dimeniticati per anni e che nel frattempo sono stati scoperti dalle centinaia di richiedenti asilo africani – la vera cifra distintiva dei nuovi flussi di profughi – che si riversano su Roma risalendo dal sud. Letteralmente autorganizzandosi, gli africani hanno trasformato i magazzini in quello che nella capitale (e nel resto d’Italia) non c’è: un centro di accoglienza in cui poter vivere e attendere il colpo di fortuna che tutti, qui, si augurano.

Fino a qualche settimana fa, nello spiazzo esistevano altri due grandi magazzini, in cui i richiedenti asilo si erano disposti. In alcuni stabilimenti prevalentemente eritrei, etiopi, somali, congolesi; in altri i sudanesi. Non si sa con esattezza quanti siano, si dice 500, tra di loro c’è anche qualche bambino. Poi, è arrivata Trenitalia per far presente che nella nuova mappa della futuristica stazione Tiburtina quei magazzini non esistono. Due degli edifici sono già stati abbattuti, e gli africani hanno fatto i bagagli organizzandosi per vivere nella metà dello spazio. La fase del trasloco è stata supervisionata da un tavolo a cui hanno preso parte diverse organizzazioni umanitarie – da Medici senza frontiere alla Caritas – e dal Comune di Roma. Per ora la mediazione operata dal Comune ha portato al permesso di rimanere nei magazzini il più possibile e qualche bagno chimico, mentre non si è ancora riusciti a risolvere una questione minimale: lo smaltimento dei rifuti, che intanto si accumulano all’ingresso. La deadline per l’hotel Africa è stata fissata a marzo, allora gli africani dovranno sgomberare l’area e non si sa bene che fine faranno.

Nell’hotel Africa si incontra un mondo: parecchie persone sono l’espressione della classe media dei loro paesi, come ingegneri o insegnanti, alcuni hanno combattutto negli eserciti ed è una cosa di cui non amano parlare. Altri sono ragazzi e ragazze giovanissimi, che hanno attraversato il deserto e si sono imbarcati su fragili barche di vetroresina, il viaggio di iniziazione del mondo globalizzato per quella parte del mondo che rivendica il diritto ad avere una chance. Impossibile non cogliere il senso di delusione, che in molti si traduce in un’aria di sfida, come Beniamin, eritreo, che porta sempre in tasca il vocabolario su cui sta tentando di imparare l’italiano: «Se l’immigrazione è un’emergenza per l’Italia, allora dovrebbero espellerci tutti quanti, con poche storie. Mi sembra che si giochi sulla pelle di noi immigrati. L’Italia vuole apparire un paese civile, poi ecco come tratta le persone». La delusione si deve anche al fatto che molti di loro hanno parenti già emigrati in altri paesi europei: «Io ho i fratelli in Germania – ci dice un altro eritreo – li sento per telefono e quando racconto quello che succede qui non ci credono. Quando sono arrivati in Germania, per loro c’era una casa a disposizione e la possibilità di avere un reddito».

Per i richiedenti asilo italiani, invece, dopo un passaggio in qualche centro c’è il rilascio di un permesso di soggiorno da rinnovare ogni tre mesi in attesa di poter incontrare l’inflessibile Commissione, in genere dopo almeno dieci mesi. La maggior parte di loro è passata per Crotone, come Babin ex operaio agricolo eritreo: «Siamo stati alla questura, ci hanno dato il foglio, e poi ci hanno detto di andare a Roma», racconta. Qui inizia la passione del cambio di residenza «così la Commissione ci può chiamare, sennò perdiamo il diritto ad essere ascoltati», spiega Adam, sudanese. Lui ci ha messo cinque mesi: «Andavo in questura alle tre di notte e dormivo lì. Poi la mattina il poliziotto mi diceva `torna domani’». Lui ha insitito finché non l’ha spuntata, mentre il giovane Hassan, eritreo di ventitrè anni, ha lasciato perdere.

E’ lui il gestore del «bar Helena», dal nome di sua sorella, all’entrata del quale campeggia la scritta «Welcome» e sulla cui porta è affisso il seguente cartello, scritto in inglese e arabo: «Chi deve cambiare la residenza, si registri al bar». Sì, perché una delle caratteristiche del centro autogestito e che ha catturato la curiosità di molti giornali, nazionali e internazionali, è che nell’hotel Africa tutto è perfettamente organizzato.

Se non fosse per la mancanza di servizi essenziali, soprattutto di inverno, tipo l’acqua calda, il riscaldamento e persino la luce (per cui di notte si usano le candele) alle spalle della Tiburtina è nato un vero e proprio villaggio. Ci sono i bar, dove il tè costa 50 centesimi, ed è possibile sedersi ai tavolini di plastica pescati chissà dove. A ornare le pareti i cartelloni pubblicitari dismessi da qualche edicola, preferiti in assoluto quelli con le modelle in vista.
Ma c’è anche il ristorante, dove si preparano piatti africani, e lo spaccio, dove si può comprare frutta, bevande, cioccolata e candele. Insomma, l’hotel Africa è un esperimento vero, qui la gente ci viene non solo per trovare un tetto, ma anche per stare in un posto che assomigli a una casa e non ad un centro di accoglienza in cui gli orari sono rigidissimi, è difficile avere privacy e non ci sono troppe possibilità di sentirsi a casa. Qui si sentono protetti e padroni di un territorio: fuori dal buco è sempre una lotta.