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tratto dal sito http://www.cortecostituzionale.it/

Sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 13 gennaio 2004

Valutazioni sull'arresto previsto per chi non ottempera all’intimazione a lasciare l’Italia entro cinque giorni

Repubblica italiana
In nome del popolo italiano

La Corte Costituzionale

composta dai signori:
– Riccardo Chieppa presidente
– Gustavo Zagrebelsky giudice
– Valerio Onida“
– Carlo Mezzanotte“
– Fernanda Contri“
– Guido Neppi Modona“
– Piero Alberto Capotosti“
– Annibale Marini“
– Franco Bile“
– Giovanni Maria Flick“
– Francesco Amirante“
– Ugo De Siervo“
– Romano Vaccarella“
– Paolo Maddalena“
– Alfio Finocchiaro“

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 13, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifiche alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), promossi con ordinanze del 29 novembre 2002 dal Tribunale di Ferrara e del 14 gennaio 2003 (n. 5 ordd.) dal Tribunale di Torino rispettivamente iscritte ai nn. 99, 184, 185, 186, 187 e 248 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 11, 15 e 19, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 ottobre 2003 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto in fatto

1.1. — Con ordinanza emessa il 29 novembre 2002 il Tribunale di Ferrara ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 13, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifiche alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), nella parte in cui punisce con l’arresto da sei mesi ad un anno lo straniero che, «senza giustificato motivo», si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis del medesimo articolo.

Il giudice a quo premette, in punto di fatto, di essere investito del processo penale nei confronti di quattro stranieri extracomunitari, imputati del reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 per essersi trattenuti, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine, ad essi impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis dello stesso articolo, di lasciare detto territorio entro il termine di cinque giorni.

Ad avviso del rimettente, la norma impugnata violerebbe il principio di tassatività della fattispecie penale sancito dall’art. 25 Cost., in quanto la formula «senza giustificato motivo», che descrive uno degli elementi costitutivi dell’ipotesi criminosa contestata, risulterebbe talmente indeterminata da rimettere, in sostanza, all’arbitrio dell’interprete l’identificazione del comportamento incriminato.

Il legislatore penale, in effetti, potrebbe far ricorso «ad espressioni indicative di comuni esperienze o a termini presi dal linguaggio comunemente usato», giacché il principio di legalità stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost. non imporrebbe «in ogni caso una rigorosa descrizione del fatto», ma con il limite che il contenuto precettivo della norma penale resti comunque comprensibile sulla base dell’interpretazione della disciplina specifica ed in relazione ai fini che la legge si propone. Nella specie, per contro, il significato della locuzione «senza giustificato motivo» non sarebbe in alcun modo desumibile né dall’articolo denunciato e dalla disciplina in cui esso si iscrive, né dalle finalità che la disciplina stessa si prefigge. Se, infatti, l’obiettivo perseguito è la tutela dell’ordine pubblico ed il rafforzamento dell’ordine di espulsione, da ciò solo non si potrebbe dedurre quando ricorra un giustificato motivo di permanenza dello straniero espulso, posto che il raffronto con beni costituzionali che riguardano anche lo straniero — quali il diritto alla vita, alla salute, alla famiglia o al lavoro — offrirebbe ipotesi interpretative talmente ampie da non potersi porre come «argine ermeneutico».

Sotto tale aspetto, sarebbe significativo il raffronto della norma incriminatrice denunciata con quella di cui all’art. 4, secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), nella quale l’espressione «senza giustificato motivo» parimenti compare, relativamente all’ipotesi del porto fuori della propria abitazione di strumenti da punta o da taglio, o comunque atti ad offendere. In quest’ultimo caso, difatti, dal contesto stesso della disposizione incriminatrice sarebbe desumibile che il «giustificato motivo» deve essere tale da escludere la finalità di offesa alla persona, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo in cui il porto dello strumento avviene.

La norma impugnata si porrebbe in contrasto anche con il diritto di difesa, sancito dall’art. 24, secondo comma, Cost.: essa riverserebbe, difatti, sullo straniero destinatario dell’ordine di allontanamento — arrestato obbligatoriamente (ex art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998) in quanto si trovi nel territorio nazionale — l’onere di dare giustificazione della propria permanenza, senza peraltro che egli sia in grado di conoscere cosa possa giustificarla e quindi di addurre prove, proprio per l’indeterminatezza della fattispecie.

La questione sarebbe rilevante, infine, nel giudizio a quo, in quanto, per poter fare applicazione della norma incriminatrice in parola, il giudice dovrebbe, in ogni caso, preventivamente stabilirne la portata precettiva: e ciò indipendentemente dal fatto che gli imputati abbiano o meno addotto un motivo di permanenza (nel caso di specie, non aver trovato lavoro nei tempi ristretti concessi dalla legge).

1.2. — Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.

Ad avviso della difesa erariale, l’argomento di fondo che sostiene l’ordinanza di rimessione non sarebbe convincente, avendo il legislatore stabilito, anche se con distinti provvedimenti, in quali ipotesi il diritto al lavoro ed alla famiglia giustifichi la presenza dello straniero extracomunitario nel territorio dello Stato.

Non sarebbe dunque corretto affermare che la norma in esame, anche alla luce del generale contesto normativo, non consenta al giudice l’ordinaria funzione interpretativa e all’imputato la propria difesa: e ciò senza considerare che — come lo stesso rimettente ricorda — l’utilizzazione nel precetto penale di espressioni indicative di comuni esperienze, o di termini presi dal linguaggio comune, è stata ritenuta più volte compatibile con i precetti costituzionali.

2.1. — Con ordinanza emessa il 14 gennaio 2003, nel corso di un processo penale nei confronti di uno straniero extracomunitario parimenti imputato del reato di trattenimento senza giustificato motivo nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine del questore, il Tribunale di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 in riferimento agli artt. 2, 3, 27 e 97 della Costituzione.

Il rimettente osserva come, alla stregua dell’iter amministrativo prefigurato per le ipotesi considerate, l’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato, penalmente sanzionato dalla norma impugnata, venga impartito quando siano decorsi sessanta giorni senza che sia stato possibile eseguire il provvedimento di espulsione dello straniero: in sostanza, ove non si possa trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea e non si sia riusciti – per i più diversi motivi (quali l’impossibilità di munire l’interessato di valido documento, o la mancanza di disponibilità economiche per dotare tutti i destinatari della norma di biglietto di viaggio) – ad eseguire l’espulsione, ci si affiderebbe alla «buona volontà dell’extracomunitario», punendolo peraltro con sanzione penale qualora disattenda l’ordine di allontanamento. Nella pratica operativa, d’altra parte — prosegue il giudice a quo — quella che dovrebbe costituire l’eccezione sarebbe divenuta la regola, non tentandosi neppure, nella generalità di casi, di procedere preliminarmente all’espulsione con mezzi dello Stato.

In tale prospettiva, la norma impugnata violerebbe, quindi, gli artt. 2, 3, 27 e 97 Cost., sotto i profili, rispettivamente, della «mancanza di solidarietà sociale ed economica», della disparità di trattamento, dell’introduzione di casi di responsabilità oggettiva e del contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

La condotta imposta allo straniero, infatti, risulterebbe in concreto «inesigibile», richiedendosi in pratica ad un soggetto che normalmente versa in condizioni di indigenza di munirsi di biglietto di viaggio e di documenti nel termine di soli cinque giorni, quando nemmeno lo Stato, in un termine assai più ampio e con la possibilità, almeno teorica, «di superare tutta una serie di barriere burocratiche», è riuscito a dare esecuzione al «precetto». Risulterebbe introdotta, in tal modo, in violazione dell’art. 27, primo comma, Cost., una ipotesi di responsabilità oggettiva: lo straniero che, nonostante tutto, volesse eseguire l’ordine per non incorrere nella sanzione penale, non avrebbe altro mezzo che quello di commettere ulteriori illeciti, quali l’attraversare Stati confinanti regolati dal trattato di Schengen senza documenti o approfittare clandestinamente di un vettore.

D’altro canto, se la norma dovesse essere intesa nel senso che lo straniero, una volta arrestato, può utilmente dimostrare al giudice di essersi trovato nell’impossibilità di eseguire l’ordine, per un verso il precetto «si svuoterebbe di contenuto», risultando detta situazione di impossibilità assolutamente comune; e, per un altro verso, si verrebbe a sancire un’irragionevole inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato.

L’attuazione della norma in esame, da ultimo, sarebbe fonte — in contrasto con il principio di cui all’art. 97, primo comma, Cost. — di un rilevante aggravio per gli uffici giudiziari, con i connessi costi attinenti all’assistenza giudiziaria, al traduttore ed alle scorte.

2.2. — Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata, riportandosi alle difese già spiegate in rapporto ad analoghe questioni.

3.1. — La disposizione di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 è stata ulteriormente sottoposta a scrutinio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino con quattro ordinanze di identico tenore, emesse il 14 gennaio 2003 nell’ambito di altrettanti processi penali nei confronti di persone imputate del reato previsto dalla norma impugnata.

Il giudice a quo premette che – alla stregua della vigente disciplina legislativa dell’espulsione dello straniero, a seguito delle modifiche apportate al d.lgs. n. 286 del 1998 dalla legge n. 189 del 2002; e prescindendo da prassi operative con essa contrastanti, che pure il rimettente assume diffuse — l’espulsione amministrativa disposta dal prefetto deve essere sempre eseguita dal questore tramite accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, ad eccezione del caso in cui il provvedimento consegua alla scadenza da più di sessanta giorni del permesso di soggiorno dello straniero, senza che ne sia stato chiesto il rinnovo (art. 13, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 286 del 1998).

Il comma 1 del successivo art. 14 prevede, peraltro, in via di eccezione a tale regola, che quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione — perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari sulla sua identità o nazionalità, o all’acquisizione di documenti di viaggio; ovvero per l’indisponibilità di un vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo — il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con apposito decreto ministeriale.

Il comma 5-bis del medesimo art. 14 introduce, a sua volta, un’«eccezione all’eccezione», stabilendo che quando non sia stato possibile trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea, ovvero siano trascorsi i termini massimi di permanenza — suscettibili di arrivare sino a sessanta giorni — senza che l’espulsione sia stata eseguita, il questore ordina con provvedimento scritto allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni.

A tale disposizione si correla la norma sanzionatoria di cui al comma 5-ter dell’art. 14, oggetto di censura, in forza della quale lo straniero che, senza giustificato motivo, si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine del questore è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno.

Ad avviso del rimettente, la fattispecie penale così delineata — fattispecie che, quantunque la condotta incriminata venga descritta in forma apparentemente commissiva («si trattiene»), ha in realtà carattere omissivo, concretandosi propriamente nella mancata ottemperanza all’ordine di allontanamento — risulterebbe carente di determinatezza. Se, infatti, alla stregua delle previsioni di legge, l’ordine di allontanamento viene impartito solo in quanto vi siano difficoltà tali da impedire l’accompagnamento alla frontiera — difficoltà a fronte delle quali o non si interviene affatto, per l’impossibilità di trattenere lo straniero in un centro di permanenza; o non si procede all’espulsione, pur dopo averlo trattenuto per il tempo consentito (il che implica che le difficoltà permangano) — non si comprenderebbe quale condotta dovrebbe tenere nei cinque giorni successivi il destinatario dell’ordine, il quale versa nella stessa situazione di grave difficoltà presupposta dalla norma (per mancanza di documenti di riconoscimento o di viaggio, di denaro, o per analoghe ragioni), onde evitare di incorrere nella sanzione penale.

In tal ottica, il precetto penale censurato risulterebbe persino più generico di quello dell’art. 7-bis, comma 1, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1990, n. 39 — aggiunto dall’art. 8 del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187 (Nuove misure in materia di trattamento penitenziario, nonché sull’espulsione dei cittadini stranieri), convertito, con modificazioni, in legge 12 agosto 1993, n. 296 — il quale puniva lo straniero che non si adoperasse per ottenere dalla competente autorità diplomatica o consolare il rilascio del documento di viaggio occorrente per l’esecuzione del provvedimento di espulsione: norma dichiarata incostituzionale da questa Corte con sentenza n. 34 del 1995 per violazione del principio di legalità di cui al secondo comma dell’art. 25 Cost., sul rilievo che neppure la valorizzazione dell’elemento finalistico («… per ottenere il rilascio del documento») risultava nella specie idonea a delimitare e specificare la condotta dell’«adoperarsi», dato che la natura omissiva del reato non consentiva di prestabilire una relazione causale tra condotta e finalità.

La diversa tecnica descrittiva seguita dal legislatore nell’ipotesi oggi in esame — consistente nell’individuare la condotta repressa non più nell’omissione di un comportamento finalizzato ad uno scopo, ma direttamente nel risultato finale che si intende evitare («si trattiene»), con indicazione di un preciso termine di adempimento (cinque giorni) — non avrebbe peraltro superato il problema, ma lo avrebbe anzi aggravato: giacché nella vecchia disposizione, ancorché in modo indeterminato, era comunque stabilito che ci si dovesse adoperare per ottenere il documento occorrente per l’espulsione; nell’attuale situazione, invece, non si riuscirebbe neppure a capire che cosa si richieda allo straniero, per uscire dalla descritta situazione di «grave difficoltà» ed evitare di trattenersi nel territorio dello Stato oltre il termine stabilito.

A rendere l’odierna fattispecie diversa da quella cancellata dalla sentenza n. 34 del 1995 non varrebbe, d’altro canto, neanche la previsione della non punibilità del fatto commesso in presenza di un «giustificato motivo»: e ciò per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, dovrebbe escludersi che il giustificato motivo possa coincidere con quelle stesse difficoltà che hanno indotto il legislatore a prevedere una modalità di esecuzione dell’espulsione diversa dall’accompagnamento alla frontiera e, quindi, l’intimazione stessa del questore, posto che, in una simile prospettiva, la norma finirebbe per perdere ogni significato. Ma se il giustificato motivo deve essere cercato in ragioni diverse da quelle poste a base dell’ordine del questore, diventerebbe difficile individuare situazioni idonee ad evitare la sanzione e, in ogni caso, esse avrebbero un’incidenza concreta del tutto marginale. In secondo luogo, poi, il giustificato motivo, non essendo un requisito attinente alla condotta incriminata, non potrebbe comunque valere a renderla meno indeterminata: tanto più che non risulterebbe neppure ben chiaro a quali situazioni esso faccia riferimento.

Anche qualora, peraltro, si volesse adottare una interpretazione diversa ed «allargata» del concetto di «giustificato motivo», tale da ricomprendere in esso le difficoltà esecutive che stanno alla base dell’ordine del questore, la norma impugnata resterebbe ugualmente lesiva dei principi costituzionali. Infatti, da un lato, la polizia operante non sarebbe tenuta, né «qualificata» per verificare al momento dell’arresto l’esistenza del giustificato motivo, con evidenti riflessi negativi sulla libertà personale dell’interessato; e, dall’altro lato, si verificherebbe una «pericolosa inversione dell’onere della prova», in violazione del diritto di difesa consacrato nell’art. 24, secondo comma, Cost.: violazione che questa Corte aveva pure ravvisato nella citata sentenza n. 34 del 1995, in rapporto all’art. 7-bis del decreto-legge n. 416 del 1989. Nella specie, difatti, pur a fronte del mutamento del tipo di prova che dovrebbe essere offerta dallo straniero — dovendo egli dimostrare, non più di «essersi adoperato», bensì di «essersi trattenuto» nel territorio dello Stato per un «giustificato motivo» — si determinerebbe ugualmente la situazione che questa Corte aveva in precedenza censurato, con analoghe incertezze nel prevedere in anticipo quale possa essere la prova sufficiente a far ritenere soddisfatto il precetto.

3.2. — È intervenuto, in tutti i giudizi costituzionalità introdotti dalle ordinanze da ultimo indicate, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata, riportandosi alle difese svolte in rapporto ad analoghe questioni.