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da Il Manifesto del 19 febbraio 2004

Biografie fuoriluogo

di Enrico Pugliese

Un aspetto trascurato nello studio dei fenomeni migratori, soprattutto per quel che riguarda l’Italia, è quello delle migrazioni interne: «La mobilità interna alla società italiana nel `900 diventa visibile nelle scienze sociali soltanto con le grandi migrazioni interne degli anni `50 e `60. Ma l’idea che la mobilità interna superi solo in quel periodo la soglia che ne fa un fenomeno denso di significati nella società italiana nel secolo scorso (si potrebbe aggiungere anche in epoche precedenti, ndr) risulta del tutto errata alla prova dei dati empirici», scrivono Angiolina Arru e Franco Ramella, curatori del volume “L’Italia delle migrazioni interne” (Donzelli). Un libro che affronta la mobilità degli italiani dall’epoca in cui per muoversi tra la Rieti, allora in parte rientrante nel regno di Napoli, e Roma, era necessario il passaporto.
L’attenzione alla storia dell’emigrazione italiana – sia quella interna all’Italia ancora «espressione geografica», sia quella all’estero, peraltro cominciata e nota ben da prima della Grande Emigrazione a cavallo tra `800 e `900 – è di importanza cruciale per comprendere caratteristiche e problematiche anche della attuale immigrazione in Italia. Il lavoro degli storici, per questo, è essenziale perché riesce a fare emergere continuità e rotture, innovazioni ed elementi che si riproducono. Ad esempio la significativa presenza femminile all’interno dell’attuale immigrazione in Italia, che all’inizio determinò sorpresa tra gli studiosi perché sembrava contrastare con caratteristiche demografiche e ruoli di genere tanto della Grande Emigrazione che delle migrazioni intraeuropee del periodo dello sviluppo industriale del dopoguerra. Diversi contributi del libro – dall’eloquente sottotitolo, Donne, uomini e mobilità in età moderna e contemporanea – rivolgono infatti grande attenzione alle condizioni delle immigrate e al rapporto tra i sessi nell’esperienza della migrazione e analizzano le strategie matrimoniali endogamiche (all’interno della comunità di immigrati) o esogamiche quali strumenti differenziali di integrazione o comunque di collocazione nelle società di arrivo.

Il libro presenta anche un interessante aspetto metodologico – l’attenzione alle reti sociali come fattore decisivo per l’integrazione e il successo dell’esperienza migratoria, le città che crescono, e si modificano, perché sono il principale punto di approdo per i migranti per la capacità di assorbire e offrire occasione di lavoro -, ribadito tanto nell’introduzione che nei contributi dei due curatori: Franco Ramella sull’emigrazione meridionale a Torino e Angiolina Arru sull’immigrazione abruzzese di fine Settecento a Roma. Arru fonda la sua indagine e le sue generalizzazioni sulla storia di un immigrato proveniente dal circondario di Amatrice (allora parte del Regno di Napoli).
Un immigrato di successo che, nonostante la bassa condizione professionale, porta avanti traffici finanziari utilizzando reti sia locali – Roma, la città di arrivo – sia esterne, relative soprattutto al paese di provenienza. A creano e consolidare le reti sociali sono i matrimoni. Su questo punto la ricerca di Arru conferma aspetti emersi già in altre indagini storiche sulle complessità delle strategie matrimoniali e sulle diverse opzioni praticate. Ci si può sposare tra immigrati provenienti dalla stessa zona o tra immigrati di paesi diversi o tra immigrati e locali. Un aspetto piuttosto importante della vita delle città se si considera che «circa un terzo delle coppie che si sposano ad Amsterdam, a Ginevra o a Barmen tra `700 e `800 è infatti caratterizzato dalla presenza di un immigrato o di un’immigrata. E in età contemporanea il fenomeno appare ancora più evidente». Partendo da queste molteplicità di modelli, Arru mette in guardia da interpretazioni semplicistiche nello studio dei processi di integrazione degli immigrati. Ad esempio il matrimonio con un/a locale non è necessariamente la più efficace strategia per l’integrazione: «pensare ai matrimoni incrociati come a indicatori privilegiati (assieme a quelli del lavoro) delle capacità di inserimento significa infatti mettere al centro del processo di integrazione in una comunità urbana il valore delle reti cittadine e non indagare invece sul significato di altri legami». Vale a dire reti sociali e relazioni col paese di origine.

L’analisi di Ramella su Torino parte da alcune acquisizioni di fondo relative alla condizione attuale degli immigrati e analizza gli esiti di una serie di esperienze migratorie specifiche di maggiore o minore successo, concludendo con una proposta metodologica relativa a ciò che determina la collocazione degli immigrati e la loro mobilità (o immobilità) nella gerarchia occupazionale urbana. Scrive Ramella alla fine del suo saggio, e a conclusione del libro, che «un’idea molto diffusa negli studi è che gli immigrati devono adattarsi alla società che li accoglie, che è quindi pensata come qualcosa di strutturato indipendentemente dagli individui che la compongono. L’ottica qui adottata rovescia questa impostazione: il problema che nasce è come gli immigrati rimodellano la società in cui arrivano». Certamente l’analisi non spiega da sola alcuni risultati aggregati quali quelli emersi dalla ricerca sul Progetto Torino e riassunti brillantemente in un antico articolo di «Inchiesta» (n.62, 1983) di Delia Frigessi (Immigrati in una «città difficile»). Cioè non spiega il dato duro e generale della bassissima mobilità sociale e professionale degli immigrati meridionali a confronto dei torinesi/piemontesi.
Il 73,6% dei figli di operai meridionali, infatti, continua la professione paterna contro il 32 dei figli degli operai piemontesi, che invece salgono verso posizioni impiegatizie di lavoro autonomo. Ma certo aiuta a comprendere i meccanismi specifici attraverso i quali si riesce ad affrontare situazioni sfavorevoli nel mercato del lavoro. Ramella descrive le difficoltà dei lavoratori meridionali Fiat durante la cassa integrazione e i conseguenti licenziamenti di massa collegandoli al tipo e ai limiti delle reti sociali nelle quali essi sono inseriti. E questo è coerente ad esempio con studi sociologici che avevano utilizzato il modello interpretativo di Mark Granovetter su La forza dei legami deboli (e per converso la debolezza dei legami forti) rispetto alla capacità di trovare collegamenti fruttuosi nel mercato del lavoro. Essere inseriti in legami deboli (reti multiple di conoscenze, anche superficiali) aiuta molto. Al contrario legami forti, ad esempio le reti solidaristiche tra parenti e compaesani, che pure avevano funzionato all’epoca dello sviluppo del modello industriale torinese del dopoguerra, non vanno più bene in un contesto mutato e più complesso.

Insomma un libro ricco e stimolante dove l’approccio biografico, l’analisi di genere e delle reti sociali aiutano a gettar luce sulle migrazioni e sulla ripresa delle migrazioni interne al nostro paese, in un contesto nuovo ma con le speranze e le sofferenze di una volta.