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Un lavoratore può cambiare lavoro subito dopo aver ottenuto il pds?

Presumiamo che il quesito riguardi una persona che si è regolarizzata, ma in realtà la questione non assumerebbe termini diversi se si trattasse di un soggetto che già da anni ha un regolare pds rinnovato regolarmente. Il problema è sostanzialmente quello della perdita del posto di lavoro.

Precisiamo innanzitutto che non vi sono conseguenze diverse nei casi in cui è il lavoratore che decide di andarsene dando le dimissioni oppure quando è il datore di lavoro, che per ragioni più o meno discutibili, adotta il provvedimento di licenziamento (che può essere individuale, per giusta causa o giustificato motivo, un licenziamento collettivo, ecc.).
La legge (art 22, comma 11, T.U. sull’Immigrazione) infatti non opera differenza alcuna tra le dimissioni ed il licenziamento e in ogni caso la possibilità di risolvere il rapporto di lavoro è un diritto riconosciuto a tutte le parti nel medesimo coinvolte. La norma stabilisce infatti che: La perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario ed ai suoi familiari legalmente soggiornanti, quindi, non comporta mai automaticamente la perdita del pds. E ciò non solo perché così prevede espressamente la normativa appena riportata, ma anche e soprattutto perché si tratta di un principio stabilito dalla (Organizzazione Internazionale del Lavoro) che come tale vincola il legislatore in base all’art. 10, comma 2 della nostra Costituzione.
Ed è proprio grazie a questa tutela garantita a livello internazionale, che nemmeno la legge Bossi – Fini ha potuto abolire questo principio, ma, come vedremo meglio di seguito, ha solamente potuto intervenire riducendo da un anno a sei mesi il termine relativo alla durata minima garantita del periodo di disoccupazione. Quindi, nonostante gli slogan usati durante la campagna elettorale che hanno preceduto l’approvazione della legge stessa per cui il lavoratore immigrato non avrebbe potuto soggiornare in Italia un minuto di più rispetto alla durata effettiva del suo contratto di lavoro, nella pratica si è operata solo una riduzione del periodo minimo garantito di disoccupazione.

Tentiamo di seguito di analizzare, anche con esempi pratici, quali conseguenze discendano dal dettato normativo appena enucleato.

La legge, giova ripeterlo, dice che la perdita del posto di lavoro non può mai comportare la perdita del pds. Sempre l’art. 22, comma 11, del T.U. sull’Immigrazione stabilisce inoltre che: Il lavoratore straniero in possesso del permesso di soggiorno per lavoro subordinato che perde il posto di lavoro, anche per dimissioni, può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno, e comunque, salvo che si tratti di permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore a sei mesi.

Da ciò discende che il lavoratore ha il diritto di conservare il pds in suo possesso fino alla scadenza dello stesso o, comunque, per un periodo non inferiore a sei mesi.

Si evidenzia che nel caso in cui il periodo di validità residua del pds a partire dalla disoccupazione sia di durata inferiore a sei mesi, il lavoratore avrà anche il diritto di ottenere il rilascio di un pds rinnovato di durata tale da garantire la disponibilità minima complessiva di almeno sei mesi per la ricerca di una nuova occupazione e si tratterà ovviamente di un permesso per “attesa occupazione”.

Esempio pratico – Potrebbe verificarsi il caso di un lavoratore che rinnova il pds per due anni, avendo un contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma che, già nel mese successivo al rinnovo, perde il posto di lavoro, per sua iniziativa o per iniziativa del datore di lavoro. Il lavoratore avrebbe, secondo la formulazione dell’art 22 comma 11 sopra riportata , il diritto di conservare il proprio pds “per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno” ovvero fino alla data di scadenza del medesimo. Pertanto, considerando l’ipotesi che nel caso appena esposto si tratta di un permesso rinnovato per due anni e di una disoccupazione sopravvenuta dopo appena un mese, dovremmo immaginare che l’interessato abbia 23 mesi ancora disponibili per trovare una nuova occupazione.
Attenzione però che in ogni caso esiste una regola generale (art. 6, comma 5, T.U. sull’Immigrazione) per cui in qualsiasi momento l’autorità di pubblica sicurezza può chiedere allo straniero di giustificare l’esistenza e la natura delle proprie fonti di sostentamento, imponendogli di dimostrare che sono fonti lecite e sufficienti al sostentamento proprio e dei familiari conviventi nel territorio dello Stato, laddove il limite o soglia minima di sussistenza viene unanimemente identificata nell’importo annuo dell’assegno sociale.
Poiché garantita a chi non ha redditi e non è in condizione di lavorare – e poiché la soglia dell’assegno corrisponde alla soglia di povertà per definizione – ecco che teoricamente in qualsiasi momento l’autorità di polizia potrebbe chiedere all’interessato di dimostrare, anche se non sta più lavorando, che possiede un reddito almeno corrispondente all’importo annuo dell’assegno sociale.
Per raggiungere questo reddito – trattandosi di un importo che si aggira attorno ai 5.000 euro – non necessariamente vi deve essere una situazione lavorativa continua e, quindi, anche la persona che è appena entrata in stato di disoccupazione potrebbe comunque giustificare il possesso di fonti lecite e sufficienti al proprio sostentamento in base ai redditi conseguiti mentre lavorava, ed, eventualmente, in base ai risparmi che quest’attività potrebbe avere consentito permettendogli quindi di “tirare avanti” per un po’ di tempo senza svolgere un’altra attività lavorativa durante il periodo di disoccupazione.
Per altro, a comporre questo reddito, sicuramente dovrà essere considerato anche l’assegno di disoccupazione che eventualmente l’interessato potrà avere richiesto e ottenuto avendone il pieno diritto.

Tuttavia, tornando all’esempio iniziale, è chiaro che – nell’ipotesi di una persona che ha appena
rinnovato il pds – , non si può pensare che automaticamente si abbia diritto (alla scadenza dei 23 mesi) di rinnovare il soggiorno o che il semplice reperimento di una nuova occupazione nel corso dell’ultimo mese dia automaticamente una legittima aspettativa di ottenere il rinnovo, perché potrebbe sempre capitare che gli si chieda di spiegare come ha fatto a vivere nel frattempo, ovvero in tutti i mesi precedenti.

In altre parole la disponibilità del pds durante lo stato di disoccupazione – in modo tale di garantire un periodo, minimo di sei mesi di effettiva ricerca di una nuova occupazione – è un diritto garantito dalla norma. Tuttavia bisogna considerare il rapporto esistente tra questa norma, di carattere generale, e l’evidenziata facoltà dell’autorità di polizia di chiedere sempre al soggetto la dimostrazione del reperimento delle fonti di sostentamento. Per quanto appena precisato non mi sento di assicurare totalmente che 23 mesi consecutivi di disoccupazione possono avere svolgimento senza che mai, nemmeno al momento del rinnovo del pds e pur essendo stata trovata all’ultimo minuto una nuova occupazione, non vengano fatti rilievi da parte dell’autorità di polizia.
Per quanto fin qui evidenziato credo di poter consigliare a chiunque sia interessato che il periodo di disoccupazione non deve mai essere troppo lungo, ossia così lungo da poter far supporre che per un intero anno non è stato percepito nessun reddito, nemmeno in misura corrispondente all’importo annuo dell’assegno sociale. E ciò perché in tal caso la questura potrebbe legittimamente rifiutare il rinnovo del permesso di soggiorno.

Perciò, per avere un equilibrio tra queste due regole – quella che garantisce il mantenimento del pds e quella che prevede la dimostrazione di lecite e sufficienti fonti di sostentamento – dovremmo ritenere che comunque, indipendentemente da stati di disoccupazione sopravvenuti e fatto salvo il diritto di conservare il pds fino alla scadenza e di ottenerne anche il rinnovo di sei mesi complessivi per la ricerca di lavoro, resta l’altra regola che di fatto impone di dimostrare, sia pure a richiesta da parte della polizia, che per ogni anno di soggiorno vi è come minimo un reddito complessivo non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale.

Sappiamo purtroppo che spesso gli interessati si pongono il problema quando è troppo tardi, ovvero quando ormai la questura ha già rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno o comunque quando il permesso di soggiorno è scaduto ed è quindi molto difficile riuscire a trovare una nuova occupazione regolare.
Certo che il Testo Unico sull’Immigrazione all’art. 22 comma 12, precisa che è possibile essere assunti regolarmente, anche durante la fase di rinnovo del permesso di soggiorno. Quindi non commette reato il datore di lavoro che assume un lavoratore immigrato con permesso di soggiorno scaduto e in possesso di una ricevuta attestante che egli si è attivato per rinnovare il permesso di soggiorno stesso.
Questo avviene perché nella fase di rinnovo del permesso di soggiorno è possibile proseguire il rapporto di lavoro in corso già costituito prima, come pure è possibile costituire un nuovo rapporto di lavoro.
D’altra parte sappiamo che dal punto di vista pratico è piuttosto difficile trovare un datore di lavoro disposto ad assumere una persona che possiede un permesso di soggiorno in fase di rinnovo perché quest’ultimo avrà il timore (e qualche volta con ragioni comprensibili) di investire tempo ed organizzazione per avviare una persona in azienda che però, sul più bello, ovvero quando la stessa inizia ad essere produttiva, magari viene ad avere notizia del rifiuto del permesso di soggiorno e non può più proseguire il rapporto di lavoro se non a costo di commettere un reato, che peraltro oggi è sanzionato in termini più pesanti rispetto alla versione originaria del Testo Unico – Pubblica Sicurezza. L’art. 22, comma 12 prevede in tali casi infatti l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda di euro 5.000 per ogni lavoratore impiegato. Si tratta appunto di un reato che non può più essere depenalizzato con il meccanismo dell’oblazione in via amministrativa e che porta il datore di lavoro a scegliere tra il patteggiamento o il dibattimento e dunque ad affrontare una condanna oltre all’ammenda di cinque mila euro per ogni lavoratore impiegato. Ecco che quindi, se anche in linea teorica, all’ultimo momento sarebbe possibile trovare un nuovo datore di lavoro e quindi soddisfare le condizioni per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, tuttavia, dal punto di vista pratico, ciò risulta piuttosto difficile anche se non è vietato. Raccomandiamo quindi agli interessati di porsi il problema del reperimento di una nuova e regolare occupazione prima della scadenza del permesso di soggiorno.