Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 7 aprile 2004

Il collocamento è razzista di Beppe Marchetti

Roma – Ci sono due ragazzi, un italiano e un marocchino. Hanno suppergiù la stessa età, studi ed esperienze simili. Cercano lavoro. Di buon’ora si svegliano e comprano un giornale di annunci. Alcuni sono interessanti, li evidenziano con cura. Poi si attaccano al telefono: «Buongiorno, ho letto la vostra inserzione, sono molto interessato». Entrambi hanno un tono di voce allegro ma professionale. Entrambi sicuri di sé, senza spocchia però. Entrambi sanno di avere i requisiti per quel lavoro. Solo che uno, l’italiano, è invitato al colloquio. Mentre all’altro, il marocchino, una voce impersonale dice: «No, grazie». A volte senza nemmeno il grazie. Non è un racconto di fantasia, ma una pratica quotidiana. Che si chiama discriminazione e in Europa è molto diffusa: in una normale ricerca di lavoro arriva a circa il 30% dei casi. L’Italia poi fa scuola: il tasso è al 41%. A calcolarlo è stata l’Organizzazione internazionale per il lavoro (Oil), che ieri ha presentato a Roma il testo definitivo del rapporto La discriminazione dei lavoratori immigrati nel mercato del lavoro in Italia. «Certamente sono documentabili episodi di discriminazione verso i giovani marocchini semi-qualificati e non si tratta di casi estremi o sporadici», si legge nelle conclusioni.

L’indagine è stata condotta sul campo – in Italia in tre città: Napoli, Roma e Torino – con due attori che hanno cercato lavoro. Perché avesse valore statistico, l’operazione è stata ripetuta più di 600 volte. Prima i candidati telefonavano, poi – se chiamati – si presentavano di persona per un colloquio. Ma non in molti sono arrivati a questa seconda fase: spesso «il rifiuto è avvenuto sulla base del nome e dell’accento». In un caso a essere rifiutato è stato l’italiano («gli stranieri hanno molta più voglia di lavorare»). Ma il marocchino è stato scartato 150 volte.

Nelle due fasi successive, il colloquio de visu e l’eventuale offerta di lavoro, il tasso di discriminazione è calato. Ma ci sono da segnalare differenze più sottili, non traducibili in cifre. Nei colloqui, dice il rapporto, il marocchino ha avuto «spiegazioni meno precise, tono meno amichevole». L’intervista al ragazzo straniero è spesso «stata più lunga e ha rivelato diffidenza». Uno dei colloqui citati, per una ditta di trasporti, si trasforma presto in una cantilena: «Ce l’hai la patente C? Ma sei sicuro? Guarda che cerchiamo gente con la patente C. La C, hai capito?».

L’analisi delle singole città italiane rivela che le discriminazioni sono più abbondanti a Roma (indice di 45,7), molto meno a Napoli (33,7). Di più: solo a Roma c’erano annunci di lavoro che escludevano, fin dal testo, gli stranieri. Infine, tra i settori presi in esame, l’edilizia è il meno discriminante. Ma il dato è da analizzare con spirito critico: come spiega il rapporto, l’edilizia fa ampiamente ricorso al lavoro nero e al caporalato. E che lo sfruttamento dei lavoratori sia indiscriminato non è proprio una buona notizia.

La presentazione del rapporto ieri s’è presto animata d’un dibattito vivace. Il sottosegretario al welfare Sacconi ha criticato il mercato del lavoro italiano, a suo dire «opaco». Ma non per l’abbondanza di lavoro nero; a Sacconi – trevigiano, ex sindacalista, poi transumato in Forza Italia – non va proprio giù il sistema di conoscenze personali che a suo dire alimenta il processo di selezione e assunzione. Fortuna che il governo l’ha reso più trasparente, grazie alla legge 30 che riforma il lavoro e alla Bossi-Fini che sistema gli immigrati. Ciò detto il sottosegretario lascia la sala.

E non può quindi ascoltare ciò che della Bossi-Fini pensa Piero Soldini responsabile dell’immigrazione Cgil. Soldini commenta il rapporto avvertendo che il problema del razzismo, nella discriminazione dei lavoratori stranieri, non è fondamentale. «La questione è piuttosto legislativa». Il perché è presto detto: se ottenere il permesso di soggiorno è difficile, rinnovarlo è quasi impossibile. «La burocrazia – avverte – non è in grado di sostenere le richieste di rinnovo. Ci vogliono anche 9 mesi per ottenerlo: un tempo inaccettabile, in cui chi ha un lavoro lo perde».