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tratto da La Voce info

Europa – In cerca di identità

a cura di Mario Draghi

Anche a un osservatore superficiale appare chiaro come le politiche europee dell’immigrazione siano state mal gestite.
In primo luogo, sono state inefficaci nel contenere l’incremento dei flussi migratori.
In secondo luogo, hanno per tanto tempo chiuso l’accesso principale ai lavoratori legali, trascurando “l’ingresso laterale” del ricongiungimento familiare e non vigilando sulla “porta posteriore” dell’immigrazione illegale.

Una politica autolesionista

Tutto ciò è straordinariamente autolesionistico: ricongiungimento familiare e immigrazione illegale producono come risultato l’arrivo di immigrati non qualificati, inasprendo l’impatto negativo del fenomeno sul mercato del lavoro e sul sistema di previdenza sociale.
L’Europa deve riconoscere il fatto di essere divenuta una meta privilegiata dei flussi internazionali di lavoratori e favorire in maniera decisa l’immigrazione di quelli qualificati.
“Se aspetterete dieci anni ad aprirvi, riceverete solo flussi di lavoratori incolti, senza alcuna qualifica. Perché gli altri, quelli in possesso di qualifiche professionali, che oggi vorrebbero venire in Europa, di fronte al suo rifiuto, saranno andati negli Usa” osservava il ministro delle Finanze rumeno.

Quale modello?

Con le parole del sociologo, diremmo che è il modello dell’assimilazione.
Sulla questione, invece, l’Europa ha finora dimostrato grande flessibilità, adottando un modello che tende all’assimilazione nei paesi con tradizioni centralistiche e imperiali (Francia e Regno Unito), e un approccio multiculturale, che lascia più spazio alle autonomie dei singoli gruppi di immigrati, negli altri casi (Germania, Italia, Olanda specialmente).
A giudicare dai risultati, viene spontaneo chiedersi se sia possibile fare di meglio. Se sia possibile, cioè, offrire agli immigrati un modello comune nel quale possano riconoscersi.

Un modello da costruire

Ma noi lo abbiamo questo modello comune, per noi stessi prima di tutto, poi per proporlo ad altri? La risposta è “non ancora”. Anche se ve ne sarebbe la necessità.
Dopotutto, gli Stati-Nazione europei vanno perdendo di significato: lo stesso progredire dell’integrazione europea, la globalizzazione, la regionalizzazione ne stanno progressivamente svuotando il concetto.
Allo stesso tempo, un’identità comune europea è ancora lontana.
Le nostre diversità, che sono significative e che sembrano accentuarsi a ogni nuovo progredire dell’integrazione, devono restare perché esse stesse sono parte di questa identità. Occorre però ritrovare il modo di trascenderle, di superarle, senza cancellarle, in uno sforzo comune.
Ci vorranno molti anni, ma quanto più lenta sarà l’integrazione, tanto più sarà un processo molto diverso dal passato, quando il modello dello Stato-Nazione veniva presentato come un piatto preconfezionato ai nostri ospiti appena arrivati. Potevano prendere o lasciare: il giudizio spettava agli altri, alla gente del posto, a noi.

Adesso e sempre più in futuro, saremo tutti, noi e loro, impegnati nella stessa ricerca comune.
L’aumento del tasso di partecipazione e la gestione costruttiva dell’immigrazione sono infatti fondamentali per una crescita di periodo lungo a livelli più elevati dell’attuale.