Quarto giorno della Cap Anamur in acque extraterritoriali italiane, in attesa di una risposta del governo italiano e dell’Europa su una questione che con il passare del tempo si fa sempre più urgente. Ma nel frattempo c’è chi si è mosso per accogliere i naufraghi nel nostro Paese
04 luglio 2004– Trentasette comuni per trentasette profughi.
E’ la risposta dell’Associazione Nazionale dei Comuni (Anci) all’appello lanciato ieri da Filippo Miraglia, responsabile per l’immigrazione dell’Arci, che aveva chiesto assistenza per i naufraghi della Cap Anamur.
La soluzione prevede lo stanziamento di fondi per ricevere e accogliere ciascuno dei profughi in un comune italiano, sempre che il Governo – specifica il sindaco di Ancona, Fabio Sturani – sia disposto a fare il primo passo e a permettere loro di entrare nel nostro territorio. Una buona notizia, giunta a rompere un silenzio burocratico che, con il passar delle ore e dei giorni, stava diventando sempre più imbarazzante. “E’ incredibile, sapevamo che la società civile italiana avrebbe risposto in questo modo”, hanno commentato entusiasti dalla Cap Anamur.
Dopo quattro giorni le contrattazioni tra il governo italiano e quello tedesco sono ancora in alto mare.
Così come lo è la Cap Anamur, immobile al largo delle coste italiane con il suo equipaggio, i trentasette naufraghi e la nave della guardia costiera a vigilare giorno e notte. “Siamo spiacenti – riferiscono dall’ambasciata tedesca a Roma – le trattative sono rinviate a lunedì. Non ci sono ulteriori aggiornamenti”.
Diplomazia in vacanza, dunque, mentre una nave umanitaria tedesca al largo delle coste italiane attende di sapere cosa fare di un gruppo di profughi di origine africana partiti dalla Libia e ritrovati tredici giorni fa in Mediterraneo aperto.
“Siamo qui da quattro giorni e ancora nessuno ci sa dire perché ci sia stato negato l’accesso in Italia”, commenta con una scrollata spalle Elias Birdel, presidente dell’organizzazione Cap Anamur. “Eppure abbiamo invitato le stesse autorità italiane a salire sulla nave per controllare il diario di bordo e la nostra documentazione. Non si è presentato nessuno”.
Solo una piccola delegazione italiana di Médecins Sans Frontières si è recata a bordo nella serata di venerdì, per verificare la condizione dei profughi.
“Fisicamente stanno abbastanza – racconta Giuseppe de Mola, uno dei coordinatori dell’organizzazione – ma sono esausti e psicologicamente provati. Uno di loro ha dichiarato di venire dalla Sierra Leone e di essere figlio di un perseguitato politico. Gli altri dicono di essere del Darfur, in Sudan, e abbiamo motivo di credere che non abbiano mentito. Conoscono dettagliatamente villaggi, zone ed eventi che solo chi viene da laggiù può sapere. Parlano degli stessi luoghi, degli stessi orrori, delle stesse violenza. Qualcuno di loro si è persino sollevato la maglietta, mostrando segni di percosse con oggetti contundenti sulle spalle”. La delegazione di Msf si è trattenuta sulla nave per poco più di tre ore, prima di rientrare. “Non siamo riusciti ad effettuare controlli medici su ognuno di loro per motivi di tempo – continua de Mola – abbiamo visitato solo quelli che ci erano stati indicati come i più fragili. Ma possiamo confermare che la Cap Anamur è ben attrezzata e che i profughi hanno tutta l’assistenza necessaria”.
L’attesa resta comunque snervante e i naufraghi comincerebbero a dare segni di cedimento. La presenza degli uomini della guardia costiera a poche centinaia di metri e la sagoma della nave della Marina Militare li agita. Il fatto poi di trovarsi da quasi due settimane in un limbo – geografico e diplomatico – non facilita le cose. ”Se mai scenderanno a terra – commenta il delegato di Msf – avranno bisogno anche e soprattutto di assistenza psicologica. Se dovessero finire in un Centro di Permanenza Temporanea potrebbero non averne. E questo complicherebbe ulteriormente le cose”.
Dalla nave, Birdel sottolinea che il destino dei naufraghi deve essere considerato una priorità nelle trattative tra l’Italia e la Germania. “Siamo disposti a consegnarli a qualsiasi Paese europeo intenzionato ad accoglierli e a offrire loro assistenza – continua – ma non ci muoveremo da dove siamo. Non andremo a Malta, dove qualcuno vorrebbe che li portassimo, o da qualsiasi altra parte. Il governo italiano e l’Europa devono assumersi le proprie responsabilità e collaborare con noi, non chiuderci le porte in faccia. Noi ci siamo mossi già abbastanza. Ora tocca a loro”.
Ma mentre in mare tutto è rimandato, sulla terraferma c’è chi, oltre all’Anci e all’Arci, si sta dando da fare per superare l’impasse burocratico in cui galleggiano la Cap Anamur e i suoi naufraghi.
Insieme a Emergency e a Msf, si sono mossi altre associazioni e membri della società civile ed ecclesiastica regionale e nazionale.
Nella speranza che l’Europa apra le porte a chi fugge da guerre, fame e miseria ancora troppo ignorate dalla comunità internazionale.
Pablo Trincia