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da Il Manifesto del 31 luglio 2004

«Dovevano restare in Italia» di Cinzia Gubbini

Dovevano restare in Italia, perché le loro richieste di asilo fossero sottoposte all’esame di un giudice. Invece ci si è messa di mezzo la politica di governo, e per gli africani salvati da un naufragio dalla nave tedesca Cap Anamur il viaggio verso l’Europa si è concluso presto, con un’espulsione verso il Ghana e la Nigeria. Ma quell’espulsione non avrebbe dovuto esserci: a dirlo è il tribunale di Roma, che ieri si è espresso sul ricorso presentato dai legali dei 14 africani – Simona Sinopoli e Fabio Baglioni – dopo il diniego alla domanda di asilo da parte della Commissione speciale inviata nel centro di permanenza di Caltanissetta, dove i 37 africani erano stati rinchiusi per alcuni giorni una volta sbarcati sulle coste siciliane. Secondo il giudice esiste sia il «fumus boni iuris» per la domanda di asilo – considerando che gli africani si dichiaravano sudanesi della regione del Darfur – che il «periculum in mora», poiché esiste un decreto di respingimento con accompagnamento alla frontiera firmato il 12 luglio dal questore di Agrigento, appena ai naufraghi fu concesso di scendere dalla nave. Per questo il giudice ha accolto il ricorso, che chiedeva di sospendere l’espulsione e di concedere un permesso di soggiorno temporaneo ai 14 naufraghi in attesa che un tribunale si esprimesse sulla loro domanda di asilo. Purtroppo per 13 di loro la sentenza del giudice Sergio Pannunzio arriva troppo tardi: sono già stati espulsi, cinque verso la Nigeria e il resto verso il Ghana, come detta la legge sull’immigrazione Bossi-Fini, secondo cui il ricorso contro il diniego della Commissione non sospende il rimpatrio. Pochi giorni dopo furono espulsi pure gli altri 22, per cui la Commissione aveva invece chiesto la concessione di un permesso umanitario, rifiutato dal Viminale. Sul loro ricorso si esprimerà il 5 agosto il tribunale di Caltanissetta.

La decisione del giudice, quindi, vale solo per l’ultimo africano rimasto in Italia. Si chiama Fatawu Lasisi e di lui, fino al tardo pomeriggio di ieri, si erano perse le tracce. Nell’ultima «infornata» di espulsioni a carico dei naufraghi – avvenuta in tre tappe – Lasisi infatti fu lasciato a terra. I motivi non sono mai stati chiariti dal governo – che su questa vicenda ha utilizzato la strategia del blackout informativo – ma secondo l’ipotesi più accreditata è stato salvato perché faceva parte del gruppo su cui la Corte di Strasburgo, in seguito a un esposto presentato da Sinopoli e Baglioni, aveva chiesto maggiori informazioni sulle procedure seguite. Lasisi era finito in un primo momento nel centro di permanenza milanese di via Corelli, ma da due giorni era sparito. Ieri è ricomparso nel cpt romano di Ponte Galeria. Della sua presenza a Roma si è venuto a sapere solo grazie all’interessamento di Rifondazione comunista, perché gli avvocati non sono stati avvertiti da nessuno. Dopo un tira e molla durato tutto il pomeriggio e una diffida presentata da Sinopoli e Baglioni contro Viminale e questura di Roma, ieri sera è arrivata la notizia che Lasisi oggi verrà liberato, e gli sarà concesso il permesso di soggiorno temporaneo di cui parla esplicitamente la sentenza del giudice.

«Il provvedimento stabilisce un principio importantissimo, e dimostra che le espulsioni a carico dei 37 sono state illegittime», commentano Sinopoli e Baglioni. Soddisfazione per la decisione del giudice è stata espressa anche dall’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati dell’Onu: «Dimostra quello che abbiamo sempre sostenuto: non si può espellere un richiedente asilo che ha ottenuto un diniego e presenta un ricorso», ha detto la portavoce Laura Boldrini. Il deputato dei Verdi Paolo Cento chiede le dimissioni del ministro Pisanu, il deputato della Margherita Giuseppe Fioroni l’abrogazione della legge Bossi-Fini. Il senatore Antonello Falomi dei riformatori per l’Ulivo auspica invece «un gesto riparatore», e cioè la richiesta ufficiale del rientro in Italia dei 13 naufraghi. Il diessino Antonio Soda ricorda che nella vicenda di Lasisi c’è un’assurdità in più: il ragazzo parla soltanto uno stentato inglese, la sua lingua sembra essere il dialetto sudanese Ausa: «Nessuno è riuscito a porgli domande – conclude Soda – perché, secondo il ministero, non si riusciva a trovare un interprete che conoscesse la sua lingua».