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Tratto dal sito deriveapprodi.org

Il cliché della migrante: colf o prostituta

di Salvatore Palidda

Quasi tutte le descrizioni giornalistiche e anche sociologiche dell’immigrazione in Italia hanno accreditato l’idea che una parte rilevante di questo “fenomeno”, per la prima volta nella storia, sarebbe costituita da donne. Filippine, innanzi tutto, ma ora anche nigeriane, albanesi e donne dei paesi dell’Est, che sarebbero venute qui con la “vocazione” di fare le colf o con quella di fare… le prostitute (per queste si arriva anche a concedere che siano state costrette). In altri termini, ancor di più che per gli uomini, l’idea dominante consiste nel descrivere la migrante di oggi come la “povera disgraziata” che non può far altro che uno di questi due “mestieri”, quasi una sorta di subumani provenienti da mondi barbari e quindi incapaci di capire la modernità e tanto meno la “post-modernità”. La variante umanitaria di questo cliché della migrante dice invece che possono anche essere umane, generose, molto affidabili, che riescono a imparare tante cose, che a volte sanno persino cucinare buone pietanze e che, malgrado le stranezze tipiche dei popoli, “diciamolo tra noi”, un po’ primitivi, sono anche cattoliche praticanti, insomma delle “buon selvagge” che si civilizzano. Non a caso, alcuni cattolici cercano di accreditarsi, e a volte ci sono ben riusciti, come i migliori selezionatori e governatori dell’immigrazione, pratica che una parte della chiesa ha sempre svolto nella storia delle migrazioni.

Non è la prima volta che le migranti siano descritte e classificate secondo queste categorie negative e “positive”. In realtà, le migrazioni di donne “sole” sono sempre esistite e in certi periodi del XIX e del XX sec. hanno avuto anche dimensioni “di massa”. Il fabbisogno di manodopera femminile per lo sviluppo di alcuni settori industriali e delle città impose anche il reclutamento di massa di ragazze delle zone rurali “povere”. Ancora negli anni Cinquanta e Sessanta interi treni di ragazze di varie province italiane partirono da Milano per le industrie tessili francesi e per altre fabbriche svizzere, belghe e poi tedesche. Come racconta Danilo Montaldi, nello stesso periodo, a Milano arrivarono migliaia di donne della “bassa”, di venete, emiliane, toscane, friulane e di altre zone. Dopo fu la volta delle terrone del sud. Secondo l’opinione dominante di allora, queste donne se non facevano le serve, le balie o più raramente le operaie, non potevano che fare le prostitute. A scuola i figli di queste migranti si vergognavano di far conoscere le origini della madre. Dal punto di vista della “scienza dell’immigrazione”, intesa come insieme di saperi finalizzati a selezionare, disciplinare e sfruttare i migranti, oltre a essere trattate come lavoratrici indispensabili per alcune attività produttive e per i servizi di ogni genere e tipo, pubblici e privati, le migranti sono sempre state preziose per la riproduzione sia di forza lavoro, sia di “carne da cannoni” in quei paesi (come quelli americani o la stessa Francia) nei quali la demografia nazionale è stata alimentata dall’immigrazione. La migrante è stata quindi operaia, mamma, “angelo del focolare” che stabilizza e contribuisce al disciplinamento dei migranti o che può anche restare al paese di origine per lavorare e fare economia per la posterità di tutti. La riuscita migratoria dipende infatti non solo o non tanto dalle qualità, dalle capacità fisiche e dall’etica del migrante maschio, ma quasi sempre dal ruolo che vi assume la donna, moglie, madre, sorella. E sono anche frequenti i casi di grandi riuscite imprenditoriali delle quali il merito principale è proprio delle donne anche se spesso non figurano in primo piano.

Comunque, in tutta la storia delle migrazioni, che è la storia di tutte le società, alla migrante non è mai stato riconosciuto il motivo più importante della sua migrazione: l’aspirazione all’emancipazione non solo economica e sociale, ma politica nell’accezione più completa, ossia l’emancipazione da ogni subalternità, compresa, ovviamente, quella rispetto all’uomo. In effetti, la migrante mostra, ancor più del migrante, che le migrazioni sono un “fatto sociale totale”. Maturando, consapevolmente o no, l’insoddisfazione, l’insofferenza o la rivolta rispetto a tutto ciò che costituisce la condizione sociale e umana (anche privata) nella società di origine, la migrante inizia un processo di emancipazione che investe tutte le sfere della sua esistenza. Al di là delle apparenze superficiali, al di là di quanto racconta essa stessa usando spesso le categorie e le tematizzazioni offerte o imposte dal dominante, la migrante si configura come un soggetto sociale “sovversivo” che nessuno vuole riconoscere, né la società di origine, né quella di arrivo. Non a caso viene spesso descritta solo come un’emigrata o un’immigrata, cioè come un soggetto di fatto mutilato delle caratteristiche più complesse e profonde proprie della migrante, soggetto che invece è “ostico” e sfugge al disciplinamento. La migrante è infatti un essere umano che non fa parte né della società di origine, né di quella di arrivo e che nessun dominante accetta di riconoscere come persona titolare di pari diritti dei cittadini di ogni Stato. Come osservano Bourdieu e Wacquant, l’analista tanto capace quale è stato A. Sayad, restituisce al migrante la funzione di analizzatore vivente, in carne ed ossa, delle regioni più recondite dell’inconscio sociale.

“Sayad dimostra che il migrante è atopos, un curioso ibrido privo di posto, uno spostato [“spaesato”] nel duplice senso di incongruente e inopportuno, intrappolato in quel settore ibrido dello spazio sociale in posizione intermedia tra essere sociale e non essere [aspetto studiato da A Dal Lago, 1999]. Né cittadino né straniero, né dalla parte dello Stesso, né dalla parte dell’Altro, l’immigrato esiste solo per difetto nella comunità d’origine e per eccesso nella società ricevente generando periodicamente in entrambe recriminazione e risentimento. Fuori posto nei due sistemi sociali che definiscono la sua (non)esistenza, il migrante, attraverso l’inesorabile vessazione sociale e l’imbarazzo mentale che provoca, ci costringe a riconsiderare da cima a fondo la questione delle fondamenta legittime della cittadinanza e del rapporto tra cittadino, stato e nazione. La sofferenza fisica e morale sopportata dall’e-migrante rivela all’etnografo che segue la sua lenta e dolorosa metamorfosi in im-migrante, che l’incastro innato (cioè natale) in una nazione e in uno Stato specifici risiede nei recessi più intimi dell’organismo, in una condizione di quasi-natura, fuori dalla portata della consapevolezza e del raziocinio, a cominciare dall’equazione viscerale che la maggior parte delle società stabilisce tra nazionalità e l’insieme dei membri nella cittadinanza.

Tentare di ricostruire il significato profondo delle migrazioni, e ancor di più di quelle delle donne, è forse una delle sfide più difficili perché vuol dire innanzi tutto decostruire tutto ciò che è falsato nelle stesse narrazioni della migrante per far sbocciare la potenzialità sovversiva dell’essere umano che oggi più che mai, spesso solo inconsapevolmente, aspira ad un’emancipazione politica che può trovare spazio solo in una visione del mondo libera dall’obbligo a subordinarsi alle appartenenze specifiche. In effetti, oggi più che mai, le migrazioni delle donne incarnano questa aspirazione e non a caso suscitano le reazioni più velenose e violente da parte del patriarcalismo. La criminalizzazione che oggi colpisce vigliaccamente le migrazioni, colpisce ancora di più le donne perché di fatto si manifesta in molteplici sfaccettature. Il cliché secondo cui la migrazione femminile oggi non può che essere ad alto rischio di assoggettamento alle mafie che ne organizzano la tratta e lo sfruttamento, vale quanto quello che descrive le donne originarie dei paesi islamici come succubi del “velo”, mentre le africane sarebbero schiave dell’infibulazione o delle credenze magiche “selvagge”. Ma tutte le belle anime “femministe” che stanno nei governi dei paesi dominanti e nei loro dintorni e che si strappano le vesti per le povere disgraziate immigrate si sono ben guardate dal riconoscere che la principale causa del rischio di neo-schiavizzazione delle migranti sta proprio nel proibizionismo che prevale nelle loro stesse politiche migratorie e che è proprio questo che nega ogni possibilità di emancipazione. E’ proprio la politica proibizionista e di criminalizzazione delle migrazioni che costringe le filippine o le peruviane a non poter far altro che stare rinchiuse nelle cerchie legate alle parrocchie e costringe anche le ragazze marocchine, algerine, tunisine, albanesi o nigeriane a sfidare l’”inferno” della clandestinità e della subordinazione a chi offre favori (l’uomo delle proprie origini che rischia di diventare protettore o anche il “protettore” italiano, compreso a volte il poliziotto). Cercando nelle storie di vita delle migranti le loro vere aspirazioni ci si può accorgere che il lato oscuro della globalizzazione del liberismo è proprio quel controllo sociale più o meno violento che nega in particolare alle migranti le possibilità di emancipazione effettiva come reale possibilità di migrare liberamente. Proprio come mostra rudemente Ken Loach nel suo fil Bread and Roses (Pane e Rose), i sogni di riuscita della migrante si infrangono contro la brutalità del liberismo o devono passare attraverso la cruna delle molteplici violenze particolarmente riservate alle donne migranti.