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Tratto dal sito deriveapprodi.org

Libri – Un cimitero chiamato Mediterraneo

Per una storia del diritto d’asilo nell’Unione Europea

Il libro

Questo libro fornisce un quadro essenziale ed esaustivo dell’evoluzione della legislazione europea in tema di diritto d’asilo, analizzando i principali Trattati e Convenzioni internazionali che regolano la materia e mettendone in luce i limiti e le inadeguatezze di fronte alla realtà dei richiedenti asilo e all’emergere di nuove figure di rifugiati.
Si tratta di un’analisi critica della politica dell’asilo seguita dall’Unione Europea dalla sua nascita a oggi.
Nella seconda parte il libro analizza le conseguenze della politica dell’Unione e offre uno spaccato documentario, attraverso materiali di informazione giornalistica e testimonianze di chi per raggiungere l’Europa tenta la via della fuga nel Mediterraneo.
La ricostruzione degli avvenimenti porta alla luce la storia degli eventi, i dolorosi percorsi delle persone coinvolte, le loro sofferenze, la tragica fine delle speranze di un popolo senza nome, senza spessore, senza identità, formato per la maggior parte da profughi e richiedenti asilo.
Il volume si presenta come un documento originale della storia dell’asilo nell’Unione Europea e una testimonianza di grande valore umano su avvenimenti di portata storica, che altrimenti cadrebbero nell’oblio.
Chi è il rifugiato?
A differenza del migrante, il rifugiato non ha preparato la partenza, non ha deciso il paese di accoglienza, non ha possibilità di rientro se non in caso di cambiamenti politici sostanziali. A chi si allontana dal proprio paese perché la sua vita è in pericolo, la fuga si impone come unica possibilità di salvezza.
Il rifugiato è un soggetto “indebolito” dalle persecuzioni subite, dalle preoccupazioni che porta con sé per i familiari rimasti in patria. Più ancora del migrante, che in genere può contare su punti e luoghi di riferimento, reti amicali e familiari, su una certa “socializzazione anticipatoria”, il più delle volte non conosce il paese di approdo ed è più solo nel confronto con la società.
“Ho lasciato tutte le mie cose, la mia famiglia è dispersa e anche i miei amici non so più dove siano. Mi sono trovato solo e smarrito…”.
“Quasi di colpo mi sono ritrovata in Sicilia, a vivere nella stanza in casa di una famiglia italiana, senza più amici, in un paese dove la religione è diversa dalla mia, dove si mangiano cibi diversi, dove si parla un’altra lingua… Sono confusa, senza identità, senza progetti…”.
“È stato un tuffo in mare, calando sempre più giù, in profondità, senza saper nuotare, nel totale silenzio, nell’assenza di tutto, fuori da tutto. Non ero solo caduta, ma completamente perduta! Tocchi il fondo e rimani lì”.

Marcella Delle Donne insegna Sociologia delle Relazioni Etniche presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Roma “La Sapienza”. Già membro dell’Executive Committee dell’European Association for Refugees Research, collabora con il Berlin Institute for Comparative Social Research.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: La strada dell’oblio. Rifugiati e richiedenti asilo in Italia (Roma, 1995); Avenue to Integration. Refugees and Asylum Seekers in Europe (Los Angeles, 1996, a sua cura); Convivenza civile e xenofobia (Milano, 2000); con Umberto Melotti, Immigrazione in Europa. Strategie di inclusione/esclusione (Roma, 2004).

L’introduzione

Chi è il rifugiato? Chi è colui che, fuggendo dalla propria patria, dalla terra dove è nato, chiede asilo?
A queste domande, con le quali aprivo nel ’95 il volume La strada dell’oblio. Richiedenti asilo e rifugiati in Italia, non è stata data ancora oggi una risposta chiarificatrice. Anzi, la situazione si è aggravata. La sindrome da assedio e l’incubo della minaccia terrorismo, dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York, hanno influenzato le decisioni dei governanti dei paesi dell’Unione in materia di sicurezza e accelerato la concertazione di misure e strategie operative sempre più restrittive nei confronti di chi si mette in viaggio per raggiungere l’Europa senza i visti regolamentari. La sindrome si trasmette attraverso i media, dall’alto verso il basso, e si concretizza nello stereotipo del clandestino. Questa categoria accomuna insieme immigrati, profughi, richiedenti asilo e quant’altri cercano di varcare i confini dell’Unione privi dei documenti richiesti. Così, nell’opinione pubblica, l’identità dei rifugiati e dei richiedenti asilo resta vaga. Confusi con le altre categorie, i rifugiati e i richiedenti asilo hanno visto, nel tempo, aumentare l’intolleranza nei loro confronti, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, quando la categoria clandestini si è sovrapposta a quella di terroristi. Per questo motivo, allora come ora, torna utile ripercorrere le ragioni di una condizione e chiarire il significato di un’identità.
Come per gli immigrati, anche per i rifugiati le ragioni della fuga sono complesse. La causa immediata dell’esodo può consistere in una persecuzione individuale, un conflitto armato, una campagna di repressione, il crollo violento della società civile o, ancora, una dozzina di variazioni su questi temi. Dietro questi fenomeni si trovano schemi più profondi, spesso interconnessi, di pressioni d’indole politica, economica, etnica, ambientale o relative ai diritti umani, ulteriormente complicati dall’interazione tra fattori interni e internazionali (Goodwin G.S., 1996). Tuttavia, tra migranti e rifugiati esistono differenze specifiche.
Nella generalità dei casi, l’immigrato è colui che ha scelto di emigrare sulla base di un progetto di vita che non può realizzare nel proprio paese. Le ricerche condotte in questo settore mostrano come colui che emigra ha un’alta scolarità (almeno fino ai tempi recenti) e appartiene alle classi d’età al di sotto dei trent’anni. Egli conosce il paese verso cui è diretto e ha in loco una rete di relazioni che gli consente di inserirsi nella società d’accoglienza. Chi decide di emigrare ha in genere un progetto a termine. Nel paese dove è diretto pensa di restare per un periodo, il tempo di accumulare un capitale, acquisire esperienze di lavoro e professionalità. Il suo obiettivo è quello del rientro, per investire nel suo paese capitali ed esperienze acquisite. Spesso la permanenza da temporanea si trasforma in definitiva. In ogni caso la speranza non viene accantonata, ma assume una dimensione mitica: il mito del ritorno. Questo, forse, è l’unico aspetto che accomuna l’immigrato alla situazione del rifugiato (Delle Donne M., 1994).
Diverse sono le motivazioni, gli obiettivi, l’identità dei richiedenti asilo. Per essi la partenza non è frutto di una scelta, ma condizione necessaria alla sopravvivenza. A differenza del migrante, il rifugiato non ha preparato la partenza, non ha deciso, più di tanto, il paese di accoglimento, non ha possibilità di rientro tranne in caso di cambiamenti politici sostanziali (Kuntz E.F., 1973; Jacques A., 1988). A chi si allontana dal proprio paese perché la sua vita è in pericolo, la fuga si impone come unica possibilità di salvezza: “A chi fugge per salvare la propria vita non è permesso voltarsi indietro, né pensare a ciò che perde… Più drammatica è stata la separazione e più cose si sono lasciate (soprattutto gli affetti), più difficile diventa essere consapevoli della nuova situazione” (Hain Allocco E.M., 1996).
Significativa in tal senso la testimonianza di Fathia Ali, una somala di 22 anni, incinta di otto mesi, sbarcata da una “carretta di clandestini” a Lampedusa il 20 giugno 2003. Fathia è fuggita dalla guerra civile che imperversa a Mogadiscio, città in preda alla violenza di bande rivali. “Una sera hanno fatto irruzione a casa i predoni e hanno devastato tutto. Mio marito ha preso i bambini ed è fuggito per metterli in salvo. Non l’ho più visto. Ho aspettato, ma la sera successiva quelli sono tornati, mi hanno picchiata. A quel punto, terrorizzata, ho deciso di aggregarmi al gruppo che aveva organizzato la fuga in Europa. Il mio obiettivo era l’Inghilterra, dove vive mio fratello, ma in quel momento la cosa più importante era lasciarsi alle spalle orrori e miseria della Somalia”. Poi, rivolta ai giornalisti che la stavano intervistando, chiede aiuto per il marito e per i figli: “Vi prego, ditemi dove sono”. (Intervista raccolta da Enzo Mignosi e riportata sul Corriere della Sera.)
Il richiedente asilo è un soggetto “indebolito” dalle persecuzioni subite, dalle preoccupazioni che porta con sé per i familiari rimasti in patria. Più ancora del migrante, che può contare in genere su punti e luoghi di riferimento, reti amicali e familiari, su una certa “socializzazione anticipatoria”, il più delle volte non conosce il paese di approdo ed è più solo nel confronto con la società. A questo proposito va messa in evidenza la particolare fragilità in cui può trovarsi il rifugiato, rispetto all’immigrato. Riportiamo alcuni brani significativi delle testimonianze raccolte tramite intervista ai cosiddetti “clandestini”, che hanno chiesto di mantenere l’anonimato:
Ho lasciato tutte le mie cose, la mia famiglia è dispersa e anche i miei amici non so più dove siano. Mi sono trovato solo e smarrito.
Quasi di colpo mi sono ritrovata in Sicilia, a vivere nella stanza in casa di una famiglia italiana, senza più amici, in un paese dove la religione è diversa dalla mia, dove si mangiano cibi diversi, dove si parla un’altra lingua… Sono confusa, senza identità, senza progetti.
Quando sono arrivato non ho trovato nessuno del mio paese, sono solo, non ho notizie della mia famiglia, e dopo un po’ ti viene la depressione, qui non conosco nessun musulmano, non so dove andare a pregare, e poi devo risolvere il problema della mia sopravvivenza in Italia.
A differenza del migrante, preparato ad affrontare l’impatto con la società d’arrivo e le difficoltà di inserimento, devastanti sono le conseguenze di un inserimento di routine burocratica ai minimi livelli di accoglienza, privo di solidarietà umana, per chi arriva in condizioni di shock per le violenze subite.
Ecco la testimonianza sull’accoglienza al suo arrivo in Italia, di una giornalista algerina richiedente asilo, riuscita a fuggire dalle persecuzioni:
Arrivata in Italia ho cercato un’amica. Sono stata da lei una settimana, ma la casa era piccola. Mi ha detto di andare subito in Questura e di chiedere l’asilo politico. Così ho fatto. Mi sono spiegata a gesti perché nessuno conosceva il francese. Mi hanno detto che mi spettava un letto e del cibo in un Centro di accoglienza del Comune di Roma. Così sono finita a Vitinia. Vitinia era un mondo totalmente nuovo, non sapevo che esistessero realtà simili. Ero in mezzo a persone con cui non potevo comunicare a causa della diversità delle lingue e delle culture. Ti restano solo i gesti, prendi questo, posi quello, ma sei completamente incosciente. Ero tagliata fuori dal mondo, senza radio né tv: avevo il cibo e il letto e basta. Ero una mummia, comunicavo solo con gli occhi. È stato come un tuffo in mare, calando sempre più giù, in profondità, senza saper nuotare, nel totale silenzio, nell’assenza di tutto, fuori da tutto. Non ero solo caduta, ma completamente perduta! Tocchi il fondo e rimani lì (AA.VV., 2002).
Se l’elemento dominante nel rapporto tra immigrati appartenenti alla stessa comunità è la solidarietà di gruppo, per i rifugiati può determinarsi una situazione di chiusura e ostilità da parte dei membri provenienti dallo stesso paese, ma appartenenti a etnie diverse o sostenitori di opposte fazioni politiche. Il più delle volte, i due aspetti sono facce di una stessa medaglia. Tra le persone di etnie diverse, appartenenti allo stesso paese, fuggite in periodi successivi, in seguito all’alternarsi delle fazioni al potere, può verificarsi una situazione molto difficile nel paese di accoglienza. Quando alcuni appartenenti a un’etnia chiedono asilo rischiano l’espulsione, per un motivo non facile da individuare. Ciò accade quando la burocrazia del paese d’accoglienza, addetta ad accogliere le domande, non ha sufficiente esperienza nell’interpretare le situazioni. In tal senso è significativo quanto accaduto in Italia ai richiedenti asilo dello Sri Lanka, interrogati dalla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato, da poco nominata.
La Commissione si avvale di un interprete, per l’audizione dei richiedenti asilo che non parlino una delle lingue ufficiali, sia per la traduzione della documentazione presentata dal richiedente, sia per l’intervista allo stesso. L’interprete dovrebbe operare al di sopra delle parti, ma può accadere che assuma una posizione non neutrale. Talvolta il traduttore è garantito dall’ambasciata che rilascia l’attestato di traduttore e alla quale deve rispondere del suo operato. L’ambasciata rappresenta e tutela gli interessi del regime dal quale il richiedente fugge via, quindi esiste sempre il rischio di una traduzione non contestuale. Ma c’è di più. All’interno dei paesi di provenienza possono esserci discriminazioni e conflitti tra etnie. Questi possono riflettersi nell’atteggiamento dell’interprete quando è chiamato a operare per i membri di un’etnia avversa. È accaduto agli srilankesi, divisi tra l’etnia tamil e l’etnia cingalese. Poiché i primi arrivati in Italia appartenevano all’etnia tamil, veniva chiamato un traduttore di origine tamil. Ma quando sono cominciati ad arrivare i cingalesi accadeva che le domande venivano bocciate, fino a che la situazione non è apparsa anomala e si è nominato un interprete di etnia cingalese.
I conflitti tra fazioni politiche o etniche di volta in volta al potere generano flussi di rifugiati che, a loro volta, possono riprodurre nel paese d’accoglienza le rivalità per le quali sono stati costretti a fuggire. Ciò genera aggregazioni per gruppi di appartenenza che non comunicano tra loro. Pur non generando conflitti aperti, questo comportamento provoca un’ostilità latente che si ripercuote negativamente sull’inserimento dei rifugiati nella società di accoglienza.
Qui si riproducono le stesse divisioni, le rivalità tribali che voi europei avete creato con il saccheggio coloniale – ci dice una somala – così i gruppi etnici dei Darood, degli Issak e degli Hawiye, che si fanno la guerra, là in Somalia, qui sono ostili l’un l’altro. La conseguenza è che, ad esempio, ogni gruppo etnico ha luoghi diversi dove incontrarsi e organizzarsi. Non c’è conflitto aperto ma un’ostilità latente. Io speravo, dopo trent’anni di tortura, che i somali anziché mantenere le rivalità tribali avessero capito, almeno da rifugiati, che era importante fare un lavoro comune per il nostro paese, e per migliorare la nostra situazione qui. Invece i Darood accusano gli Hawiye, gli Hawiye accusano i Darood, gli Issak dicono: “Voi siete sudisti”. Così, non c’è possibilità di dialogo. La conseguenza è che là, in Somalia, il conflitto diventa insanabile, mentre qua siamo più fragili nei confronti delle istituzioni della società di accoglienza.