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tratto da Migra news

L’Italia e i somali dimenticati, un posto in ospedale

di Ubax Cristina Ali Farah

Siamo sempre seduti sui tavolini di alluminio di McDonald e M.F. non riesce a finire la sua storia. Ha ancora carte da esibire, certificati che dimostra di conoscere a memoria, ma che vuole farmi leggere e tradurre nuovamente. Zahra, però, non può aspettare, è più di un’ora che andiamo avanti e tra poco vuole andare al call center a chiamare sua madre, in Somalia. L’ha detto subito che deve togliersi questo pensiero, che vuole raccontare tutto velocemente per non lasciare che il dolore prenda il sopravvento. Le dita piccole e affusolate spuntano da un velo fiorato verde foglia: mani tanto delicate, polsi sottili. Racconta le vicende in modo asciutto e privo di enfasi, da cima a fondo senza smarrirsi nei ricordi. Non oso interrompere la narrazione con interventi e precisazioni, tanto forte è il timore di essere inopportuna, di sviare il libero fluire della memoria.

«Sono partita da Mogadiscio, il 16 giugno 2001, dal quartiere di Hodan per sottrarmi agli scontri armati. All’epoca ero incinta di tre mesi. Sono fuggita a piedi ed ero sola e così, sola e a piedi, ho attraversato la Somalia e l’Etiopia. Lungo il cammino, ad un certo punto, mi sono fermata in un posto disabitato che non so dirti dove fosse, in quale stato, in quale territorio, mi sono fermata perché mi sono cominciate le doglie. Ho partorito senza aiuto, la mia bambina è nata da sola. Mentre ero lì con la piccola è passato un uomo che vedendomi in quello stato mi ha raccolta portandomi a casa sua. Mi ha detto che potevo restare quanto volevo con la bambina e mi sono fermata n quel villaggio per sei mesi. Si parlava l’arabo e un’altra lingua, penso che fossimo al confine tra l’Etiopia e il Sudan».

«Ad un certo punto, siccome la mia bambina era tanto malata, ho detto all’uomo che non potevo più tenerla nel villaggio, che la dovevo portare via per curarla e lui mi ha accompagnato in una città vicina, dove c’era un medico. Il medico ha detto che la bambina era molto malata e che dovevo andare nella città più grande, così io sono partita per la città più grande, ma lì mi hanno detto che la bambina era troppo grave e che se io non avevo tanti soldi per curarla, loro non potevano fare niente. Mentre ero in quella città ho incontrato dei somali in cammino che mi hanno detto: “Vieni con noi, andiamo in un posto in cui ci si può curare!” e io ho deciso di andare con loro».

«Ci siamo messi in viaggio per attraversare il Sahara; eravamo 74 persone, la mattina viaggiavamo e la sera ci fermavamo. Dopo circa un mese, gli autisti ci hanno scaricato in una località chiamata Jazahir. Di noi, sette persone sono morte di stenti. Quando la gente ha cominciato a morire ho pensato che presto sarei morta anch’io. La mia bambina ignara di tutto sopravviveva, le davo piano, piano dell’acqua, nient’altro. All’epoca aveva un anno e mezzo».

«Non potrò mai dimenticare il deserto: qualche volta la sera non riesco a prendere sonno e mi ricordo del deserto e mi duole fortissimo la testa, non riesco a pensarci. Tutto intorno uguale e senza vita, non distingui un punto dall’altro e pensi che morirai lì. Durante il viaggio abbiamo trovato un convoglio di 40 persone morte nella sabbia: nessun morto mi ha fatto più impressione di quelli, di tutti i corpi senza vita che ho visto in Somalia, mai nessuno mi ha spaventata tanto. Dopo 14 giorni di cammino abbiamo trovato un’oasi. Le persone si sono precipitate sull’acqua e alcuni sono morti. Quando il tuo corpo e così disidratato devi procedere con pazienza, coricarti sulla sabbia bagnata, cominciarti ad inumidire la pelle, altrimenti rischi di morire. Hai mai visto un uomo implorare dell’urina? Così ci si riduce nel deserto».

«Dopo un mese e venticinque giorni, siamo arrivati in Libia: quelli di noi che eravamo rimasti vivi. Hanno portato subito me e la bambina in un ospedale, poi, per pietà, ci hanno fatto salire su un’imbarcazione, diretti verso l’Italia. La sera del primo giorno è finita la benzina. A bordo eravamo 180 etiopi e 30 somali. Fortunatamente non c’era un gran vento, così gli uomini ci hanno trainato con la forza delle loro braccia. Il tredicesimo giorno, quando ormai stavamo perdendo le speranze, ci hanno trovato gli italiani».

«In Sicilia hanno portato me e la bambina in ospedale senza dirci nulla. Non sapevo se ci avrebbero tenute o meno, cosa avesse la bambina, se mi avrebbero riconosciuto l’asilo politico né altro. Sono rimasta sei mesi a Palermo, dormendo sulla soglia della stanza in cui mia figlia era ricoverata. È paralizzata poverina, non so quanto sia consapevole, dicono che è per effetto di tutte le difficoltà che ho passato. Nessun bambino nasce sano a Mogadiscio ormai. Dormivo in quell’ospedale e avevo i vestiti di carta che si mettono per gli interventi. Sono rimasta così per giorni. Ad un certo punto non ce la facevo più, sono andata in uno spogliatoio, ho indossato degli abiti che ho trovato e con una lametta mi sono tagliata tutti i capelli che nella traversata mi si erano tutti appiccicati».

«Oggi è passato un anno da quando sono arrivata e non mi è stato ancora riconosciuto nulla, ho un permesso che mi viene rinnovato di tre mesi in tre mesi, dormo su una sedia accanto alla bambina all’Ospedale Bambin Gesù, non ho un soldo e non posso lavorare. Qualche tempo fa mi avevano assegnato un alloggio del Comune, ma siccome non ci andavo a dormire tutte le sere per stare vicino a mia figlia, me l’hanno revocato. Un medico gentile dell’ospedale mi ha scritto un certificato per spiegare la mia situazione, ma non mi hanno dato ascolto e hanno cambiato la chiave della porta. Ma io quando posso vado lì a fare rumore, perché questa è una grande ingiustizia, non è umano far dormire una persona per un anno sulla sedia di un ospedale. Mi dicono che posso lasciare la bambina, ma io, che ho fatto tutto questo viaggio con lei, non voglio separarmene».

«Io so che questo è un paese difficile e che anche qui c’è gente che soffre. Nel reparto coma, dov’è mia figlia, hanno ricoverato da poco una bambina di tre mesi che è sempre sola. Ha sempre il pannolino inzuppato e tutta la pelle arrossata per l’irritazione. A me fa tanta compassione e allora quando posso la cambio per darle un po’ di sollievo. Sono giovane e ho attraversato il deserto e il mare, ma tutto quello non era nulla rispetto alle umiliazioni e alle difficoltà che sto passando qui. Speravo che avrei tratto giovamento dalla durezza delle esperienze che ho vissuto ed ora eccomi qui immobile ed impotente. Voglio lasciare questo paese a costo di farmela a piedi come ho fatto le altre volte».