Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

tratto da Il Manifesto.it

Nello specchio del carcere

di Patrizio Gonnella & Vincenzo Scalia*

Il dibattito sulle prospettive della sinistra radicale promosso dal Manifesto non ha finora toccato le tematiche relative alla giustizia e al garantismo penale, che nel recente ventennio hanno giocato un ruolo non secondario ai fini del riposizionamento degli equilibri sociali e politici italiani. Attorno al carcere, alla sicurezza, alle prerogative della magistratura e delle forze dell’ordine, non soltanto si sono costruite e distrutte carriere politiche a destra e a sinistra, ma soprattutto, ha preso piede, è cresciuto e si è radicato il modello italiano del neoliberismo-penale. Una sinistra che vuole rimettersi in marcia deve dipanare i nodi della sfera giudiziaria e penale, che avviluppano in maniera quasi soffocante l’attuale assetto sociale del paese. Questo passaggio, lungo e doloroso ma necessario, deve compiersi in tre tappe. Nella prima si deve evidenziare la coincidenza tra stato penale e stato sociale. Nella seconda bisogna sottolineare l’intreccio tra riforma dell’ordinamento giudiziario e della legislazione penale da un lato, e restrizione degli spazi di agibilità democratica dall’altro. La terza e ultima tappa deve consistere nella realizzazione di una genealogia storica, che faccia affiorare le contaminazioni subite dalla sinistra con il giustizialismo.

Nel 1990 le carceri italiane ospitavano poco più di 25.000 detenuti. Quattordici anni dopo, la cifra ammonta a 56.000, una cifra di quasi due volte e mezzo superiore. Se aggiungiamo i 40.000 che si trovano sottoposti al regime di esecuzione penale esterna, le proporzioni dell’espansione ipertrofica della sfera penale diventano ancora più allarmanti. Chi sono gli ospiti delle patrie galere? Per oltre un terzo sono migranti, spesso clandestini. Tra gli italiani prevalgono ancora oggi i detenuti di origine meridionale. Persone che nell’85% dei casi hanno commesso reati di criminalità di strada, spesso afflitti da problemi di tossicodipendenza, provenienti da contesti sociali marginali e deprivati, in possesso di titoli di istruzione e di qualifiche professionali medio-basse. Non si tratta forse di un esercito di riserva, di manodopera che eccede il fabbisogno della new economy? Il risultato di vent’anni di liberismo, della restrizione delle politiche di sviluppo e di welfare si trova all’interno degli istituti di pena italiani.

Se pensiamo alla costante riduzione delle risorse destinate al reinserimento sociale dei detenuti, alla loro assistenza sanitaria, alla manutenzione delle carceri (da qui le recenti proteste), il carcere negli anni a venire sembra destinato a diventare sempre più quella discarica sociale attraverso il quale il neoliberismo governa l’acuirsi delle differenze di ceto e di classe. I centri di permanenza temporanea (vero e proprio scheletro nell’armadio della sinistra), la privatizzazione delle carceri e la costruzione di nuovi istituti programmata dall’attuale governo, sembrano portare all’espansione di questo processo.

Il governo delle disuguaglianze attraverso la penalità non sarebbe sufficientemente efficace senza le modifiche dell’ordinamento giudiziario e della legislazione penale. Da un lato, il presidente del consiglio lavora indefesso al varo di provvedimenti legislativi che proteggono lui e chi si trova nelle sue condizioni dal rischio di dovere rendere conto pubblicamente di eventuali violazioni delle leggi. Dall’altro lato, si aumentano i minimi di pena per i reati minori, si sanzionano penalmente il consumo di stupefacenti e le fecondazioni assistite che violano la morale neoclericale, si stringe la morsa sull’immigrazione clandestina. Il principio di uguaglianza davanti alla legge vacilla, e la riforma della magistratura, che si prefigge di consegnare l’obbligatorietà dell’azione penale nelle mani del ministro di turno, lo mette ulteriormente a repentaglio.

Last but not least, la mancata riforma del codice penale, la vigenza della legislazione speciale antiterrorismo, il 41 bis, hanno permesso di reprimere senza troppa difficoltà alcuni episodi di dissenso. Il clima creatosi in seguito all’11 settembre rischia di chiudere il cerchio tra terrorismo, immigrazione e dissenso. Non serve a molto chiedersi se bisogna essere partito, moltitudine, movimento dei movimenti o altro, se poi basta poco per finire nelle maglie di una giustizia per alcuni inesorabile. Se non ci si pronuncia nettamente per un diritto penale minimo, se non si affronta la questione carceraria dal punto di vista della riduzione della detenzione a extrema ratio e del reinserimento sociale, non si possono progettare nuove politiche di intervento sociale, ancora meno sperare che un altro mondo sia possibile.

Questione sociale e questione penale si richiamano continuamente. Un rilancio della sinistra radicale deve riprendere a collegare le due dimensioni, anche ripercorrendo un pezzo di strada all’indietro e interrogandosi sui propri errori del passato. Il pacchetto sicurezza, il braccialetto elettronico, il mandato di cattura europeo sono frutto di una cieca rincorsa a sinistra di questioni e temi cari alla destra.

Le carceri scoppiano, torturare non è proibito, non sappiamo cosa succede nei cpt e non ci si indigna mai troppo. Dalla fine degli anni settanta, si è passati dalla giustizia sociale alla giustizia penale, dalla sicurezza sociale alla sicurezza tout court. Una sinistra che vuole essere tale, deve percorrere il cammino inverso.