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da Il Corriere della Sera del 19 agosto

«Pattuglie di soccorso Ue per i clandestini del mare»

Il ministro tedesco Schily propone uffici europei in Africa

Montauto (Siena) – E’ stata calda, l’estate di Otto Schily. Ma non solo a causa della temperatura atmosferica nel suo ritiro senese. Il ministro degli Interni tedesco ha fatto salire il termometro politico in Germania e in Europa, con la sua idea di creare, nei Paesi nordafricani di provenienza, centri di raccolta europei per gli immigrati clandestini ripescati nel Mediterraneo, dai quali poi organizzare i rimpatri. Attaccato dagli alleati Verdi, che gli rimproverano di voler creare nuovi lager; criticato dall’ex leader della Cdu Wolfgang Schäuble, che lo accusa di violare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, Schily ha difeso lo spirito e la lettera della proposta, trovando per strada consensi importanti, a cominciare da quello del collega italiano Giuseppe Pisanu. «Io non ho mai parlato di lager – dice Schily nell’intervista al Corriere -, la mia proposta nasce da una precisa emergenza: il fatto che nel Canale di Sicilia assistiamo continuamente a incidenti di barche piene di profughi, nei quali muoiono esseri umani. Questo non è accettabile, né dal punto di vista umanitario, né da quello politico.

In giugno avevo proposto di creare un servizio comune di salvataggio marino nel Mediterraneo, in cooperazione con i Paesi nordafricani. Per coloro che vengono recuperati, la regola dovrebbe essere il rinvio nei Paesi di transito o il rimpatrio in quelli d’origine, d’intesa naturalmente con questi ultimi».

Ma la polemica è esplosa con l’idea dei centri di accoglienza esterni…

«Che non è nuova. In uno studio di fattibilità del dicembre 2002, infatti, la Commissione europea aveva già proposto l’istituzione di strutture del genere. Quel documento aveva, tuttavia, un limite: escludeva dai centri coloro che chiedono il diritto d’asilo. Inoltre, non indicava una procedura per distinguere chi è un rifugiato da chi non lo è. Ecco perché ho proposto di creare una struttura dell’Unione Europea esterna, sulla base di intese molto chiare con il Paese ospite, in grado di verificare se l’eventuale rinvio di certe persone comporti violazioni della Convenzione di Ginevra».

Ma lei ha parlato di base volontaria. Com’è possibile, in pratica, nel caso di clandestini ripescati in mare?

«Poniamo il caso di una barca intercettata nel Mediterraneo dal Servizio europeo di salvataggio e riportata nel Paese di transito, diciamo la Libia, in un centro di raccolta. Affinché da qui nessuno venga rispedito in un Paese nel quale rischia di essere perseguitato occorre la possibilità di rivolgersi a un ufficio esterno dell’Ue, cui spetta di trovare un altro Paese nel quale il rinvio possa avvenire in condizioni di sicurezza e senza pericoli per la persona. Può essere un Paese terzo, vicino al suo Paese d’origine dove magari è in corso una guerra civile, ovvero potrebbe in teoria essere anche un Paese europeo che si dica disponibile».

E’ veramente così semplice?

«No. La mia era una proposta tutta da verificare. Per questo avevo suggerito di incaricare la Commissione europea di studiarne la realizzabilità. I problemi sono molti, sul piano organizzativo e giuridico. Mi rendo perfettamente conto che occorrono negoziati con i Paesi nordafricani, fra l’altro già avviati su base bilaterale, come quelli tra Italia e Libia. Mi chiedo perché non lo si possa fare come Unione Europea, con uno “sportello”, come dice il mio collega italiano Giuseppe Pisanu, cui la gente si possa indirizzare. Se non ci sono le condizioni per accordare lo status di rifugiato, allora si passa alla ricerca del Paese. Se no, scatta il rimpatrio. Ben inteso, questa non dovrebbe essere una procedura esclusiva, ma complementare. Chi arriva in Germania, e ha buone ragioni per farlo, può sempre invocare il diritto d’asilo. Voglio dire che qui si tratta in primo luogo di salvare vite umane».

Come verrebbero gestiti i centri di raccolta, chi ne dovrebbe garantire la sicurezza?

«La cooperazione con il governo locale è indispensabile. Noi non abbiamo alcun potere di polizia fuori dai nostri confini. Prendiamo la Libia, già alle prese con un grave problema di immigrazione clandestina. Avrebbe bisogno di ogni tipo di assistenza tecnica, organizzativa e naturalmente finanziaria. Ma sarebbe comunque meno costoso dell’andazzo attuale. Fra l’altro, chi mi critica dimentica che a Lampedusa ci sono già centinaia di rifugiati nei centri di accoglienza. Ma lì nessuno parla di lager. Dov’è il problema, se ne creiamo alcuni fuori dal territorio europeo, per dare a questi disperati un tetto e una protezione provvisoria?».

Detto cinicamente, è anche un modo per evitare che queste persone si illudano di aver già un piede in Europa?

«Non è questo. Dovremmo studiare la possibilità che questi sportelli europei assolvano anche un’altra funzione: quella di raccogliere le domande di chi vorrebbe lavorare in Europa ed eventualmente accettarne una parte, sulla base di decisioni ed esigenze dei singoli Stati membri, che potrebbero fissare contingenti stagionali o altri criteri. L’Italia lo ha fatto su base bilaterale con la Tunisia, per esempio, o la Spagna con il Marocco. La pratica potrebbe poi insegnarci altre soluzioni. L’unica cosa che non possiamo comunque permetterci è di lasciare che questa situazione tragica nel Mediterraneo continui. Ma la soluzione al problema dei clandestini non può essere quella di aprire le frontiere a tutti coloro che, dall’Africa, vogliono venire in Europa».

L’accusano di voler creare la «fortezza Europa»…

«Rendere sicuri i confini non significa rinunciare a essere flessibili. Noi vogliamo un’immigrazione regolata, non il caos o nessuna immigrazione. In ogni caso, si tratta di proposte dall’impatto limitato, per il breve periodo. Nel medio e nel lungo, l’Europa ha bisogno di una coerente politica dello sviluppo nei confronti dell’Africa, che oggi le manca. I problemi drammatici di quel Continente non vanno risolti in Europa, ma in Africa con il contributo dell’Europa».

Lei ha idee in proposito?

«Una potrebbe essere che ogni Paese europeo adotti alcuni Paesi africani, anche sulla base dei loro rapporti storici, con i quali creare legami di cooperazione sistematici e privilegiati, all’interno delle intese generali dell’Unione Europea. Ma chi evoca l’immagine della fortezza si dovrebbe preoccupare piuttosto dell’apertura dei mercati ai prodotti di quei Paesi».

Rimane sempre contrario a ulteriori passi in avanti verso il diritto d’asilo europeo?

«Sono contrario a ulteriori armonizzazioni. Ma dovremmo prendere in considerazione procedure d’ingresso complementari ai sistemi esistenti nei singoli Paesi membri. La Commissione lo ha suggerito nello studio di fattibilità, che ho già citato. Un esempio lo abbiamo dalla crisi del Kosovo, quando l’Europa si offrì di accogliere una quota supplementare di rifugiati, in rapporto alla gravità della situazione. Anche i centri di raccolta che verrebbero creati in Nordafrica potrebbero muoversi in questa direzione».