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da Il Manifesto del 19 settembre 2004

Slimane, rapito e rimpatriato di Cinzia Gubbini

Operaio da 10 anni a Treviso. La polizia lo dona ai suoi aguzzini tunisini

Slimane, rapito e rimpatriato

Operaio da 10 anni a Treviso. La polizia lo dona ai suoi aguzzini tunisini

Sono le quattro di notte dell’11 giugno a Castelcucco, in provincia di Treviso. A casa del signor Slimane Ali Ben Salah, tunisino, operaio di 41 anni, padre di tre figli più uno in arrivo, bussano alla porta. Forte. Lui scende dal letto, apre e trova la polizia. Gli agenti tentano di tranquillizzare la moglie, incinta di sette mesi, «si tratta solo di un interrogatorio». Slimane però capisce che non è uno scherzo, cerca di resistere, sbatte ripetutamente la testa contro il muro fino a ferirsi. La moglie corre a prendere alcol e ovatta per tamponare il sangue, ma quando torna l’ingresso è vuoto: Slimane è stato ammanettato e portato via di fronte agli occhi della figlia, che ha solo due anni. La ricostruzione di ciò che è accaduto a Slimane fuori da quella casa è complicata, le versioni raccolte a volte non collimano: i punti fermi sono che Slimane passa ad un certo punto da un ospedale, poi dal consolato tunisino di Milano dove gli viene consegnato un passaporto che cercava di ottenere inutilmente da tre anni, infine arriva all’aeroporto di Malpensa da dove – intorno alle 17 – viene rispedito a Tunisi. Il giorno dopo il fratello, che abita a Gabes, riceve una telefonata, gli dicono di recarsi il lunedì al ministero dell’interno tunisino. Ma né il fratello, né nessun altro, riuscirà ad avere notizie di Slimane. «Non lo vedrai per parecchio tempo», gli comunicano.

Slimane ricompare dopo una ventina di giorni: è in stato di arresto, è sospettato di tentativo di sovvertimento eversivo dell’ordine costituzionale tunisino. Martedì si svolgerà il primo interrogatorio davanti al pm. Tra le cose che Slimane dovrà spiegare alle autorità tunisine c’è anche la richiesta di asilo politico presentata all’Italia. Difficilissimo avere informazioni precise, l’avvocato che lavora sul caso dall’Italia, Domenico Tambasco, ancora non è riuscito a ricevere uno straccio di procura: «Il mio collega tunisino ha fatto tutto quello che c’era da fare. Per quanto sono riuscito a capire, è il ministero dell’interno che sta rallentando la pratica. Ma anche la questura di Treviso si rifiuta di far vedere le carte. Addirittura, sostengono che la moglie non abbia diritto a prenderne visione».

Chi è Alì Ben Salah?

Circospezione, prudenza. Tutto quello che serve, quando si ha a che fare con un terrorista. Ma Alì Slimane è un terrorista? Un bel mistero avvolge il motivo della sua espulsione, su cui a breve verrà presentata un’interrogazione parlamentare. La questura di Treviso, per vie traverse, tende ad accreditare la tesi secondo cui Slimane sarebbe stato espulso direttamente dal ministero dell’interno, perché considerato un soggetto pericoloso per lo stato italiano. Ma una nota firmata dalla stessa questura e presentata al tribunale dei minori di Venezia, dove Tambasco ha presentato ricorso per conto dei figli di Slimane, sostiene invece che l’espulsione è firmata dal prefetto in seguito al rigetto della domanda di asilo: «Si tratta quindi di un’espulsione illegale – sostiene l’avvocato – visto che non si può espellere il congiunto di una donna incinta». E’ singolare che una persona da anni residente in Italia che ottiene un rigetto della domanda di asilo venga prelevata di notte a casa ed espulsa in un batter d’occhio. Comportamento più idoneo a una procedura d’urgenza, per esempio un’espulsione firmata dal Viminale.

D’altronde, è altrettanto singolare che un operaio con una famiglia numerosa, che vive in Italia da più di dieci anni, descritto da tutti come «serissimo, semmai un po’ ingenuo», finisca per diventare un soggetto pericoloso per lo stato. Cos’è accaduto? Per cercare di capirlo occorre ricostruire la figura di quest’uomo, che tra poco tempo verrà giudicato dallo stato tunisino. Alì Ben Salah è un fervente musulmano e non ha una buona opinione del governo di Ben Alì, soprattutto dopo la svolta repressiva attuata contro i movimenti islamici. Per questo è maldisposto contro il suo paese, ma non ha mai fatto politica in senso stretto e non si considerava un oppositore politico. In Italia arriva nel `92, è irregolare, prova a chiedere asilo ma non verrà mai convocato dalla Commissione. Nel `96 riesce a ottenere un permesso di soggiorno con la sanatoria e inizia la sua vita alla luce del sole in Italia. Nel 2001, arrivano i problemi: il consolato tunisino gli nega il rinnovo del passaporto. E senza passaporto valido, è impossibile rinnovare il permesso. Consigliato dal suo avvocato, chiede di nuovo asilo politico così da poter restare tranquillamente in Italia. L’11 giugno, poco prima di imbarcarlo, gli comunicheranno che la Commissione ha rigettato la sua domanda.

La «sospensione» improvvisa del passaporto è un problema che riguarda diversi cittadini tunisini: «se uno non torna in Tunisia per parecchio tempo, allora gli viene tolto il passaporto perché immediatamente viene sospettato di essere un oppositore», riferisce un tunisino che, ovviamente, preferisce rimanere nell’anonimato. L’anonimo racconta anche di lunghi interrogatori a cui vengono sottoposti i lavoratori che si recano al consolato: ultimamente, si narra, durante queste «chiacchierate» veniva chiesto spesso di Slimane. Tutte avvisaglie che, secondo molti, avrebbero dovuto metterlo in allerta. Ma lui niente, continuava a fare il suo lavoro, a dedicarsi alla famiglia e a pregare nella moschea di Bassano del Grappa, convinto che il problema con il consolato fosse legato a una manifestazione cui aveva partecipato tanti anni prima, nel `94, davanti all’ambasciata tunisina. Quella manifestazione era organizzata da «Al Nahda», il movimento islamista di opposizione a Ben Alì, con cui Slimane aveva qualche rapporto ma non abbastanza «interno» da assicurargli un documento che attestasse la sua militanza. Eppure, recentemente aveva cercato di ottenerlo, sperando di convincere la Commissione a concedergli quel benedetto permesso.

Non si mosse da Castelcucco neanche dopo essere stato perquisito il 4 aprile scorso. L’operazione fu definita dal ministero dell’interno una «vasta operazione preventiva contro l’integralismo islamico». Ma a suo carico non fu trovato nulla. Nessuna delle inchieste sul terrorismo condotte in Veneto lo hanno mai coinvolto, nonostante da queste parti la questura lavori alacremente di intercettazioni.

Espulsione o estradizione?

«Qualunque sia l’accusa, non possiamo accettare che in un paese democratico un cittadino straniero, lavoratore, sia espulso in un batter d’occhio e sparisca per settimane, rinchiuso chissà dove. Se Slimane è accusato di terrorismo, perché non è stato arrestato e processato in Italia, invece di metterlo nelle mani della Tunisia, che certo non brilla per il rispetto dei diritti umani?». A parlare è Fabiola Carletto, combattiva sindacalista della Cgil che ha preso a cuore la storia di Slimane. E’ lei che ci accompagna dal datore di lavoro, il primo a denunciare la «scomparsa» di Slimane al sindacato: «Alì Ben Salah era un tipo a posto, lo posso assicurare. E non mi vergogno a dirlo, quando è stato espulso mi sono scese le lacrime». Aldo Bargagnolo è a capo di una piccola fabbrica a Mussolente, tra Treviso e Vicenza, Slimane lavorava per lui da sei anni. «Un puro, un ingenuo», dice di Slimane mentre ci mostra il tornio su cui lavorava e su cui adesso si dà da fare lui, perché non vuole assumere nessun altro finché c’è una speranza che torni.

Un figlio del deserto

Ma chi conosce meglio Slimane è forse don Giuliano Vallotto, incaricato dalla chiesa di Treviso per i rapporti tra cristiani e musulmani. «Slimane era un musulmano fervente – dice – per ogni occasione aveva la preghiera pronta, tuttavia partecipava ai gruppi di accompagnamento per gli immigrati alcolisti. E un beghino di certo non lo farebbe». Vallotto parla di una religiosità popolare, elementare: «Era nato nel deserto, al sud, aveva una concezione fantastica dell’islam. Con il Corano pensava di poter scacciare gli spiritelli, cioè le forme di depressione o isteria». Don Vallotto nella sua vita ha girato diverse volte in missione all’estero, l’ultima proprio in Tunisia dal `94 al ’99: «Per cinque anni ho respirato i ricatti alle famiglie degli oppositori politici, il pensiero unico, so bene cosa significa». Della stessa figura, pacata, ritrosa, di una religiosità molto popolare parla anche Kamel Chaouki, presidente del Consiglio islamico di Vicenza, che coordina sei centri. Chaouki è promotore di un rapporto paritario tra la comunità islamica e gli italiani, è fautore di diverse iniziative di conoscenza reciproca, il suo slogan è «convivenza, integrazione, legalità». Non nega che, dopo l’11 settembre, la vita per i musulmani si sia fatta più difficile e sospira: «Storie come quella di Slimane non aiutano il dialogo reciproco, qui ti senti accusato finché non dimostri il contrario». In effetti entrare in contatto con la comunità islamica per cercare informazioni su uno di loro, accusato di terrorismo, significa scalare un muro. Girano storie – non si sa quanto vere – di spie inserite dai servizi segreti stranieri nei centri islamici. Quindi bisogna sempre parlare piano, per metafore, guardarsi intorno e dissimulare gli atteggiamenti. La comunità musulmana è piena di resistenze nel raccontarsi, si fidano poco, tocca agli italiani raccolti nei sindacati o nelle associazioni come il Bassano social forum fare da ponte, spiegare che è meglio denunciare che nascondersi. I tunisini sono convinti che la cacciata di Slimane sia legata alla visita di Ben Alì del maggio scorso e poi quella del ministro degli esteri Ben Yahia, a giugno – proprio nel periodo in cui Slimane fu espulso – e alle attestazioni di stima italiane per la via «equilibrata e costruttiva» che caratterizzerebbe il regime tunisino. Per non parlare dei floridi scambi commerciali tra Italia e Tunisia: le aziende italiane che operano in Tunisia nel `99 erano 350, oggi sono 800. La comunità tunisina teme che tutto questo abbia un prezzo, tanto più che – come sostiene anche l’avvocato Tambasco – ci sarebbero altri cittadini tunisini espulsi in questo modo nello stesso periodo.

E poi c’è da contare il «fronte italiano»: alle battaglie pubbliche della Lega contro l’apertura delle moschee si mischia un razzismo sotterraneo e diffuso. Facile imbattersi nella storia dell’oculista che attacca una filippica sul velo all’anziana signora marocchina che era andata a farsi visitare. Il risultato? «Tenere il più basso profilo possibile, stare tra di loro, evitare di parlare troppo», osserva Maurizio Fontana del Bassano social forum. «Sono in molti che ormai pensano di andarsene. Qualcuno lo ha già fatto, in Svizzera o Austria», racconta un tunisino. Anonimo, ovviamente.