Hanno dovuto nascondere l’ultima vergogna. Per caricarli sull’aereo Alitalia che li avrebbe riportati in Libia hanno usato le camionette anche se pochi metri separano il lager di Lampedusa dalla pista dell’aeroporto. Nessuno doveva vedere gli immigrati ammanettati, nessuno doveva vedere la brutalità dell’accompagnamento forzato, nessuno doveva testimoniare, quasi come se il vedere gli abusi, il soffrire per le vittime, il reclamare giustizia fosse un atto eversivo, un impedimento intollerabile. Le prove degli abusi e delle menzogne sono numerose e ben documentate.
Il responsabile del centro di permanenza temporanea (almeno così lo ha definito la questura di Agrigento nel 2002) di Lampedusa, cogestito dalla Misericordia, ha dichiarato alle parlamentari De Zulueta ed Acciarini, accompagnate da rappresentanti della Rete antirazzista siciliana, che all’interno di quella struttura una vera identificazione non è stata possibile, vista l’emergenza in cui versa quasi sempre quello che la stampa si ostina a definire «centro di accoglienza». Si è così accertato che le identificazioni complete avvengono solo una volta che i migranti raggiungono un altro centro.
Su un foglio di carta affisso sui muri del centro, si leggeva «Cari ospiti, ora vi trovate nel centro di prima accoglienza dell’isola di Lampedusa (Italia). Dovrete restare qui finché non verrete trasferiti in un altro centro per l’identificazione certa e dove potrete spiegare il motivo del vostro arrivo in Italia».
A Lampedusa, dunque, sono state rilevate solo le generalità sulla base delle dichiarazioni fornite dagli immigrati, tramite i pochi interpreti presenti.
Intere categorie di persone sono state respinte in Libia dopo essere state «selezionate» sulla base della presunta appartenenza nazionale. Decine di immigrati sono stati identificati con gli stessi nomi, e questa circostanza costituirà una ulteriore conferma della sommarietà dei riconoscimenti e della natura collettiva dei respingimenti, in contrasto con quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra e dalla Convenzione Europea sui diritti umani, oltre che dalla Costituzione italiana.
La necessità di soccorso in mare non può giustificare una procedura di respingimento che eluda le garanzie fissate dalla legge per tutte le ipotesi di allontanamento forzato dell’immigrato entrato irregolarmente in Italia. Molti dei migranti respinti in Libia erano giunti direttamente con i loro mezzi sulle coste di Lampedusa, e quindi per loro non si poteva profilare in alcun modo un vero e proprio «soccorso». Il soccorso avrebbero dovuto riceverlo invece di fronte al comportamento tenuto dalle autorità italiane nei loro confronti, ma questo – nei fatti – è stato impedito persino alle rappresentanti parlamentari che hanno dovuto assistere impotenti alle ultime fasi della deportazione.
Con i rimpatri effettuati da Lampedusa in Libia si è violata ancora una volta la riserva di giurisdizione. Uno schiaffo alla Corte costituzionale che ancora pochi mesi fa aveva affermato la incostituzionalità delle norme sulle espulsioni con accompagnamento immediato eseguite in assenza di un provvedimento del giudice. E sotto questo profilo la distinzione, spesso puramente discrezionale, tra espulsione e respingimento appare irrilevante, una volta che l’immigrato sia accompagnato in frontiera dopo essere entrato irregolarmente nel territorio italiano.
Ma quello che è successo dopo i rimpatri è ancora più grave.
I mezzi di informazione hanno diffuso immagini agghiaccianti sulla sorte degli immigrati respinti dall’Italia in Libia, e poi ammassati su mezzi diretti nel deserto, verso la frontiera egiziana o quella meridionale, con un viaggio senza soste, anche a costo di abbandonare per strada qualcuno che non riusciva a restare aggrappato alla piattaforma del camion.
Il governo italiano, e l’intera catena di comando che ha predisposto ed eseguito le operazioni di rimpatrio hanno violato l’art. 3 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo che vieta il respingimento dei migranti, anche se giunti irregolarmente, quando questo respingimento possa comportare «trattamenti inumani o degradanti». Adesso soltanto una forte pressione sulla Libia, una denuncia alla Corte Europea di Strasburgo e una serie di visite che saranno effettuate da rappresentanti del Parlamento europeo e delle organizzazioni umanitarie potranno forse salvare qualche vita, ed impedire altri scempi per il futuro, ma occorre fare presto.
*(Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione; Ics, Consorzio italiano di solidarietà)