Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Laboratorio Australia: setting the benchmark for world’s worst practice

di Damian Spruce & Ilaria Vanni

Mentre il governo britannico annuncia un cambiamento nella regolamentazione dell’ammissione di lavoratori migranti basato sull’introduzione del sistema a punti australiano, in Australia si discute in questi giorni di possibili cambiamenti al sistema stesso. Questi cambiamenti sono inestricabilmente legati alla riforma del mercato del lavoro, che insieme all’immigrazione, la privatizzazione delle università, delle scuole e del sistema sanitario pubblico, costituisce il nuovo programma del governo di coalizione australiano, appena rieletto nell’autunno 2004.
Fanno parte della coalizione governativa solo due partiti della destra reazionaria, il Liberal Party e il National Party, che insieme, da luglio 2005 controllerano la maggioranza assoluta del Senato, oltre che della Camera.
L’immigrazione in Australia è divisa in tre settori principali, a cui si aggiunge il programma umanitario, tramite il quale viene regolato il flusso dei profughi, richiedenti asilo, e quanti altri rientrano nella categoria aiuti umanitari, di cui però non ci occuperemo in questo articolo.
La definizione di “migrante” è a sua volta regolata in una tassonomia precisa, articolata in tre tipologie principali: skilled migration stream– per migranti con competenze specialistiche; family reunion– in cui gli aspiranti immigranti possono essere sponsorizzati da un parente che è cittadino australiano e residente permanente; e special eligibility migrants– riservata a ex-cittadini australiani che vogliono riacquistare la cittadinanza e a certi cittadini neozelandesi. L’attuale governo privilegia il filone della skilled migration, pensata, si legge in una delle brochure informative pubblicate dal Department of Immigration and Multiculturalism and Indigenous Affairs (DIMIA), per attrarre persone “con eccezionali competenze che contribuiranno all’economia australiana”. (1)
Il ministro attuale per l’immigrazione, Senator Amanda Vanstone, ha spiegato proprio in questi giorni come il programma “skilled migration” è guidato dall’industria:
“Quello che dobbiamo fare con il programma di immigrazione, è di rispondere a bisogni, e questo significa importare persone con le competenze di cui l’industria ha bisogno e importarle là dove esiste l’industria”. (2)
Nell’anno 2003-2004 la skilled migration è ammontata a 71.240 persone, ossia il 62.3% di tutti i migranti arrivati in Australia, contro le 13.851 persone arrivate sotto il programma umanitario. (3)

All’interno di queste tre categorie principali ci sono altre categorie e sub-categorie, di cui alcune nel filone della skilled migration funzionano secondo il point system, o ad accumulazione di punteggio. La proliferazione di tipologie è riflettuta anche nella varietà di visti rilasciati nelle varie categorie, che normalmente funzionano per progressione, da visto di residenza temporanea, come i visti per studenti o certi visti di lavoro come quelli dei “guest workers” (i lavoratori a contratto), al visto di residenza permanente, fino alla cittadinanza. Solo pochi visti completano il ciclo fino alla cittadinanza.
Sia il sistema a punti che la varietà di visti possono essere interpretati come una versione smaterializzata di meccanismi di confine, che regolano non solo l’entrata o meno nel paese, ma una volta all’interno del paese operano come confini interni, producendo una gerarchia nel tipo di partecipazione e accesso ai diritti di cittadinanza. Per esempio, se una persona riesce a passare il sistema a punti, una volta in Australia deve attendere due anni prima di poter accedere alle forme di sussidio prevista dal welfare per i cittadini e i residenti permanenti. Altri tipi di visto, come quelli per i coniugi di cittadini australiani, vengono incrementati a passaggi di due anni, tramite revisioni che comprendo la presentazione di una minuziosa documentazione della vita di coppia.

Un sommario della regolamentazione del sistema a punti è illuminante sia per capire come questo funzioni in termini di meccanismo di confine, sia per comprenderne meglio l’aspetto biopolitico. (4)
I punti vengono dati in base a specifiche quali: competenze, età, conoscenza della lingua inglese, esperienza nel campo di lavoro indicato, richiesta in Australia della professione specificata e dell’offerta di lavoro, qualifiche di studio o professionali ottenute in Australia, richiesta di emigrazione in aree rurali o metropolitane a scarso tasso di crescita, competenze del coniuge, bonus per coloro che hanno investimenti di un minimo di 100.000 dollari (circa 60.000 euro) in Australia, o conoscenza di una lingua parlata nel paese, o esperienza di lavoro in Australia e per coloro che vengono sponsorizzati da un cittadino o residente australiano, il rapporto con questo cittadino. Il test, è disponibile sul sito del DIMIA (http://www.immi.gov.au/allforms/booklets/1119.pdf) e funziona come un gioco dell’oca. Per ogni specifica vengono attribuiti dei punti: per esempio nel caso della casella “competenze” i punti saranno 60 se la professione indicata richiede particolari conoscenze, una laurea e esperienza di lavoro, 50 punti se chi fa domanda è in possesso dell’equivalente di una laurea australiana anche se non direttamente connessa alla professione indicata, eccetera.
Il sistema si complica con l’introduzione delle “occupations on demand”, cioè di quelle professioni per cui esiste una richiesta maggiore, quali per esempio medici, infermieri, ma anche cuochi, saldatori, meccanici, parrucchieri, carrozzieri, tappezzieri. Se la professione indicata è tra quelle richieste si guadagnano 20 punti con un’offerta di lavoro precisa, 15 senza. Inoltre se si ha un’esperienza nel determinato campo di lavoro di 3 o 4 anni vengono attribuiti altri 10 punti, solo 5 se l’applicante ha lavorato in un altro campo. In maniera analoga i punti decrescono a seconda dell’età, con un massimo di 30 per il gruppo dai 18 ai 29 anni, al minimo di 15 per il gruppo dai 40 ai 44. Non si può emigrare (nel filone della skilled migration) in Australia dopo i 45 anni. La conoscenza dell’inglese può portare altri 20 punti, per coloro che parlano a livello madrelingua (stabilito da un altro test, quello di competenza linguistica, l’International English Language Testing System).

La lista dei punti per qualifica potrebbe continuare, ma è importante notare che ai punti accumulati con questo sistema si aggiungono lo stato di salute e certificati di buona condotta che dimostrino che chi fa domanda per emigrare in Australia è incensurato. Ogni migrante deve sottoporsi e superare una lunga serie di esami medici per determinare lo stato di salute. Alcune malattie, quali la TBC, l’epatite e l’HIV/AIDS squalificano in partenza, mentre altre malattie o particolari condizioni che possono richiedere cure e quindi gravare sui bilanci dello stato, sono soggette a scrutinio, e qualora il medico ritenga che i costi associati alla malattia possano essere troppo alti, la richiesta di emigrazione viene rifiutata.

Si può quindi dire che il sistema a punti è una delle più importanti “funzioni di filtro del controllo dei confini” (5) nel regime dell’immigrazione australiana, e che il suo funzionamento dipende dall’applicazione di categorie biopolitiche alla vita delle popolazioni immigranti, sia prima che dopo il loro arrivo in Australia. Queste categorie comprendono la medicalizzazione e il controllo meticoloso dello stato di salute, le lingue parlate, la scelta della sede di immigrazione nelle metropoli o nelle aree definite periferiche o rurali, la conoscenza della lingua di uno dei gruppi etnici di maggioranza e così via.

L’infittirsi di questi filtri di controllo rientra nelle dinamiche descritte dallo studioso canadese William Walters, secondo il quale la gestione biopolitica delle società occidentali si sposta e accade sempre di più lungo i suoi confini e attraverso l’apparato di controllo che viene svillupato con i confini stessi tramite le autorità mediche, ufficiali tributari e doganali, come per esempio il sistema di regolamentazione dei passaporti e dei visti.
E’ importante notare come questi spazi biopolitici non siano meccanismi puramente restrittivi o repressivi, ma luoghi dove il potere stesso viene prodotto:
il confine può essere inteso come un sito istituzionale privilegiato in cui le autorità politiche possono acquisire conoscenza biopolitiche sulle popolazione– i loro movimenti, la loro salute, la loro ricchezza. In un certo senso, quindi, il confine contribuisce alla produzione della popolazione come entità conoscibile e governabile. (6)

Il sistema a punti australiano di fatto va oltre questo senso della produzione di potere, e non soltanto serve come un mezzo di informazione sulla costituzione biopolitica nazionale ma permette al governo di intervenire direttamente nella costituzione e produzione della popolazione stessa tramite la gestione e la messa a punto dei filtri di regolamentazione, quali i cambiamenti alle occupazioni “on demand” (cioè quelle molto richieste), o alle categorie degli esami e al voto richiesto.

In modo analogo, una volta ammessi in Australia, il tessuto biopolitico delle popolazioni immigrate viene scrutinato e ordinato tramite un sistema di statistiche che per esempio interseca le competenze linguistiche con il paese di origine, il tasso di occupazione e il reddito. (7)
Considerare i confini solo come sistemi di controllo rivolti all’ esterno, e orientati verso sfera internazionale, l’immigrazione e i flussi globali, significa correre il rischio di non compredere la loro importanza nel governare la composizione biopolitica interna al paese.

Il sistema a punti, si legge nel sito del DIMIA, è stato creato per attrarre una forza lavoro “giovane, altamente specializzata e in grado di contribuire velocemente alla crescita economica dell’Australia” (8), ma come viene dimostrato da quanto abbiamo descritto, il governo usa una quantità di criteri ben più vasta per regolamentare i flussi di immigrazione.
Questi strumenti del biopotere sono legati, fin dal loro inizio, allo sviluppo dell’ideologia del multiculturalismo ufficiale del governo australiano. Il sistema a punti comincia nel 1973, tra gli ultimi anni del “White Australia Policy” (9) e l’inizio della politica del multiculturalismo sotto il governo laburista di Gough Whitlam (1972-75) e quello liberale di Malcom Fraser (1975-1983). Questo sistema può essere visto come una progressione da una politica dell’immigrazione basata esplicitamente sulla razza a una basata sull’economia.
La Asia Pacific Migration Research Network ne ha detto:
“Non discrimina sui criteri razziali, etnici, religiosi o politici, però discrimina in favore di persone giovani, con una buona formazione e economicamente produttive. Tende quindi a privilegiare o persone provenienti da paesi sviluppati oppure un’elite proveniente da paesi sottosviluppati, incoraggiando quindi la fuga di cervelli”. (10)

Secondo questo sistema l’immigrazione è un modo di importare risorse economiche in Australia a seconda della necessità del momento, attraverso persone altamente qualificate e di culture diverse, un vero e proprio multiculturalismo basato sulla concorrenza economica. Ne è riprova la notizia diffusa in questi giorni dell’innalzamento delle quote di “skilled migrants” in seguito alla mancata crescita dell’economia australiana.
Contrariamente a quanto si possa pensare leggendo la storia recente dell’Australia, il multiculturalismo rimane ancora uno dei miti fondanti della nazione, un multiculturalismo spesso articolato in termini non di differenza, ma di diversità culturale. Lo scarto semantico tra differenza e diversità indica una serie di spostamenti e riconfigurazioni che segnano un passaggio da un sistema sociale dove il significato si produce attraverso la differenza, a uno dove questa differenza non è più dinamica, ma data e divenuta come neutra.

Il tipo di diversità al centro del fare nazione australiano è ben preciso, come viene spiegato in uno degli obiettivi principali della Productive Diversity, la policy multiculturale: “benefici per tutti”. Questo obiettivo viene implementato attraverso un preciso programma, chiamato Productive Diversity Program, il cui fine è “incoraggiare e sostenere il business al fine di imbrigliare e capitalizzare sui talenti della differenza linguistica e culturale sul luogo di lavoro e nella comunità”. (11)

La diversità culturale viene analizzata secondo la sua produttività in termini puramente economici in base a statistiche che indicano che il 29% delle piccole imprese è di proprietà di persone nate all’estero, e che il 25% della forza lavoro australiana è nata fuori dall’Australia. La diversità culturale della forza lavoro diviene quindi una ricchezza a cui il business può attingere per lo sviluppo di mercati interni rivolti a consumatori specifici, cioè etnici, e soprattutto per l’accesso al mercato globale.
Nel caso del mercato interno viene riconosciuto il peso del 43% della popolazione australiana che è nata all’estero, o di cui almeno un genitore è nato all’estero, peso che interrompe l’immagine di un mercato interno omogeneo e porta alla necessità di differenziare l’offerta. Nel caso del commercio con l’estero, la diversità culturale trasforma l’Australia in “un microcosmo del mercato globale” (12), in un contesto in cui dodici dei quindici paesi in cui l’Australia esporta non sono anglofoni.

A questo va aggiunta una trasformazione in senso post-fordista del mercato australiano, con enfasi su esportazione di servizi più che di materie prime e la necessità da una parte di acquisire informazioni sempre più dettagliate e aggiornate su mercati specifici al fine di sviluppare prodotti che rispondano ad esigenze particolari, e dall’altra di svilluppare capacità di lettura, comprensione e comunicazione all’interno degli stessi mercati. L’immigrazione di persone specializzate risponde al bisogno di accedere a basso costo a competenze linguistiche, conoscenza di mercati specifici, sia in termini di leggi e protocolli che in termini di trend di consumo, e contatti con network transnazionali. (13)

Ghassan Hage analizza il discorso della “Productive Diversity” introdotto dal governo laburista di Paul Keating nel 1992 all’interno della fantasia bianca del multiculturalismo dello stato australiano, in cui gli australiani bianchi possono gestire i gruppi etnici come risorsa produttiva. (14)
Le culture diventano merci e i soggetti immigranti diventano oggetti passivi, senza cittadinanza: inclusi economicamente, ma esclusi politicamente.
Il potere di questo tipo di multiculturalismo dato come “Productive Diversity”, come un fattore della produzione dentro il nuovo ordine capitalistico è collegabile a quanto è descritto da Hardt and Negri: il “marketing postmoderno valorizza la differenza di ogni singola merce e di ogni segmento della popolazione, adeguandovi le sue strategie. Ogni differenza rappresenta un’opportunità”. (15)

Questo sistema è al momento contestato, con quelli che potrebbero essere risultati inaspettati, e la contestazione parte dalle premesse di produttività interne al sistema stesso. I protagonisti di questa contestazione sono i coltivatori di frutta di una zona dell’Australia orientale chiamata Riverina, molti dei quali sono immigrati di vecchia data e seconde generazioni, politicamente sostenitori di uno dei due partiti del governo di coalizione, il National Party.
Tradizionalmente la raccolta della frutta veniva fatta da braccianti e famiglie, e in tempi più recenti da giovani (sotto i 26 anni) turisti in Australia con visti di vacanza-lavoro, i cosidetti backpackers.
La continua precarizzazione del mercato del lavoro, secondo le stime più recenti al 27.6% (16), ha portato negli ultimi anni a un’abbondanza di opportunità di lavori “immateriali” a contratti brevi nelle metropoli australiane.
I giovani turisti che fino a pochi anni fa lavoravano come stagionali nella raccolta della frutta adesso vanno a riempire molte di queste posizioni: condizioni di lavoro e salario migliori, maggiore flessibilità e scelta, hanno portato alla scomparsa dei backpackers dai frutteti della Riverina.
Gli agricoltori hanno richiesto e stanno tuttora richiedendo una revisione della legge sulla skilled migration, per includere anche lavoratori senza competenze specifiche, che “importati” dalla Cina o dal resto dell’Asia, possano lavorare a contratti brevi nella raccolta della frutta. Questa richiesta, apparentemente innocua, si interseca con le riforme degli accordi sindacali accennate in questi giorni dal governo di coalizione. Una delle riforme proposte prevede un accordo federale al posto degli esistenti accordi statali che regoli tra le altre cose il salario minimo, ancora calcolato sul costo della vita e non sulla domanda di mercato.
Al momento, se lavoratori da paesi del Sud Est asiatico e dalla Cina venissero assunti a contratto in Australia lo sarebbero a condizioni lavorative australiane, incluso il salario minimo, un processo inverso a quello del capitale globale che riproduce “terzi mondi”, conseguenti alla precarizzazione e alla riduzione dei salari minimi, all’interno di paesi a sviluppo avanzato.
Questo, in teoria, porterebbe alla possibilità di una nuova classe di lavoratori senza competenze specifiche capaci di muoversi in reti transnazionali seguendo la domanda di mercato. Le trattative tra il governo, che invece ha appena annunciato l’incremento del numero dei lavoratori specializzati per far fronte alla mancanza di crescita dell’economia australiana, e i coltivatori non sono ancora chiuse: lo spettro della migrazione si aggira per il mondo.