Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 22 giugno 2005

Il male straniero di Alessandro Dal Lago

Nell’estate del 1997, qualche mese dopo la vicenda della nave albanese da noi affondata nel canale d’Otranto (e dopo episodi veri o presunti di violenze commesse da migranti), si aprì la caccia simbolica e non agli stranieri, soprattutto albanesi. Ci ricordiamo tutti le proposte leghiste di campi di lavoro per clandestini, le taglie e le ronde padane. Nel 1998 fu varata la legge Napolitano-Turco, che istituiva i Cpt. In seguito, periodicamente, quasi ossessivamente, il meccanismo si è ripetuto. Non c’è reato isolato che non abbia fatto scattare il corto circuito della legge del taglione, dell’inasprimento delle misure, simboliche e reali, contro i migranti irregolari, delle sparate della Lega. In fondo, la legge Bossi-Fini è stata realizzata proprio sull’onda di questa tendenza a interpretare singoli episodi non per quello che sono, ma come «dimostrazioni» o «manifestazioni» di qualcos’altro, cioè la «criminalità degli stranieri». Anche di fronte a reati come gli stupri e le violenze di questi giorni, odiosi perché colpiscono donne e persone indifese, non si dovrebbe dimenticare che si tratta, appunto, di episodi isolati, subito trasformati, esplicitamente o no, in tendenze e costanti: «ennesimo caso di violenza a Milano», «il terzo in tre mesi», titolava un giornale nazionale. Ed ecco che questi casi odiosi e drammatici, da confrontare con le migliaia di reati contro la persona commessi ogni anno in grandissima parte da italiani, innescano una strumentalizzazione politica ben nota. I leghisti invocano castrazioni chimiche o no, Fini (o un altro «moderato» di centro-destra come Pisanu) rivendica il carattere pubblico della giustizia, prefetti o questori ne approfittano per difendere la necessità dei Cpt. Magari, anche a sinistra ci si domanda, di fronte all’emozione, se in fondo il nostro non sia lassismo, buonismo, simpatia per i criminali, invece che per le vittime…La nostra vita sociale ha un suo fondo costante, piccolo o no, di violenza e questi casi non ne alterano la dimensione. In un paese in cui ogni giorno avvengono milioni di interazioni private o pubbliche.

In cui esiste una violenza privata più o meno analoga a quella delle altre società occidentali (con l’eccezione degli Usa), in cui oltretutto gran parte dei reati contro la persona sono occultati nel segreto intoccabile della famiglia o nelle pieghe dell’economia informale, vanto del nostro Presidente del consiglio – questi casi dicono «solo» di se stessi, della diffusa violenza contro le donne, delle sofferenze che provocano. Infatti, osserviamo che il rilievo che inevitabilmente assumono è politico, nel senso di una loro immediata strumentalizzazione, di una sovra-esposizione che, pur partendo dall’emozione, va in direzione totalmente diversa dall’esigenza di giustizia. Nessuna scemenza sulle castrazioni sopprimerà la violenza subita e servirà a impedire le offese future. Semmai, bisognerebbe porre due problemi. Il primo è senz’altro nelle prese di posizione che insistono con tetra ossessività sempre sulle stesse cose: niente amnistie, niente scarcerazioni, nessuna riforma del carcere, nessuna prevenzione, nessun diritto per gli stranieri,nessun tentativo di comprendere le ragioni profonde, indirette, complesse della violenza, anche privata. Il secondo è la rinuncia di gran parte dell’opinione pubblica, talvolta anche progressista, a evitare le scorciatoie, i cortocircuiti per cui il particolare si generalizza in slogan a effetto (come se su questo punto si potesse togliere terreno alla destra…). Ed è così che l’intera società, non solo in Italia, sembra perseguire l’utopia della sicurezza assoluta, quando invece dovrebbe capire la sua incapacità di contrastare un malessere che è in se stessa, e non importato da fuori.

E allora, anche a rischio dell’insulto (“qui si fa sociologia!”), ripetiamo che le radici profonde della violenza sono esattamente nell’ossessione sicuritaria e punitiva, nella cupa indifferenza della nostra società per i diritti dei deboli, dei marginali e degli stranieri, per le condizioni di vita degli ultimi tra gli ultimi. Considerazioni che certo non spiegano gli stupri e gli omicidi. Ma alludono alle condizioni di miseria, abbandono, lotta feroce per l’esistenza quotidiana in cui versano tanti giovani, italiani e stranieri. E se tante violenze private, il disprezzo per le donne e per i deboli, nascessero proprio su questo terreno, l’esclusione dalla normalità dell’esistenza che spetta alla maggioranza garantita, l’odio per chi ha o sembra di avere? Perché non partire da qui? Certo, è molto più facile cavarsela con la truculenza o l’ennesimo giro di vite. Ma, appunto, è sul terreno della politica e della comprensione, e non del giustizialismo, che si combattono le violenze e la loro strumentalizzazioni.