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Il datore di lavoro deve pagare le spese del viaggio di rientro del lavoratore non comunitario?

L’art. 5 bis, comma 1, lettera b) del Testo Unico sull’Immigrazione (D.L.vo 25 luglio 1998, n. 286) prevede che il datore di lavoro formalizzi l’impegno al pagamento delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel paese di provenienza.
In effetti ha ragione il datore di lavoro di cui al quesito a porsi la domanda e, analogamente, possono porsela tutti i datori di lavoro. Nessuno avrà delle risposte precise perché queste purtroppo non ci sono.
Nemmeno noi possiamo dare risposte precise perché la norma contiene solo le poche righe di cui sopra da cui discende che la garanzia (l’impegno al pagamento delle spese di viaggio) dovrà essere inserita in ogni contratto di soggiorno, sia per chi deve rinnovare il permesso di soggiorno, sia per chi deve semplicemente costituire un nuovo rapporto di lavoro durante la validità del proprio permesso di soggiorno e – al di fuori di qualsiasi previsione normativa – persino per chi è arrivato in Italia prima dell’emanazione del regolamento di attuazione (Decreto del Presidente della Repubblica 18 ottobre 2004, n.334 – “Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazione”, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 33 (supplemento ordinario n. 17/L)), con regolare permesso di soggiorno tuttora in corso di validità, e sta semplicemente proseguendo il suo rapporto di lavoro.
Tutti gli extracomunitari che lavoreranno o stanno lavorando, devono pertanto formalizzare con il loro datore di lavoro il contratto di soggiorno che contiene, fra le altre cose, questo impegno da parte del datore di lavoro al pagamento delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore.

Ma a quale rientro si fa riferimento?
Non si capisce a quale rientro si faccia riferimento, se a quello definitivo o a quello temporaneo.
Verosimilmente, si fa riferimento al rientro definitivo nel paese di provenienza.
Questo lo diciamo tenendo anche presenti gli slogan elettoralistici che prima dell’approvazione della legge Bossi – Fini (L. 30 luglio 2002, n. 189), sostenevano proprio questo concetto, ovvero quando un lavoratore non farà più comodo dovrà essere cacciato via e sarà il datore di lavoro a dover pagare le spese di rientro.

Ma se parliamo di un rientro spontaneo, possiamo immaginare che in questa ipotesi egli abbia diritto di farsi pagare le spese dal datore di lavoro? Da quale datore di lavoro? Si immagina che un lavoratore non abbia sempre lo stesso datore di lavoro nell’arco degli anni, perché questo impegno poi dovrà sottoscriverlo ogni successivo datore di lavoro. Quale dovrebbe essere il datore di lavoro che si vede costretto da parte della pubblica amministrazione a pagare le spese di rientro? Il primo oppure l’ultimo? E perché non tutti quelli di mezzo che potrebbero essere molti e potrebbero avere avuto sede anche in diverse province del territorio italiano?
Nel caso di espulsione o rientro coattivo del lavoratore la questura competente per territorio – che potrebbe essere completamente diversa da quelle competenti in relazione ai luoghi di lavoro dell’interessato – si rivolge al datore di lavoro per far pagare le spese?
Finora ciò non si è chiarito.
L’attuazione della legge Bossi Fini – che ha accelerato e aumentato le espulsioni – non ha visto finora disturbare nessun datore di lavoro. In altre parole quando le Prefetture adottano il provvedimento di espulsione e le questure lo eseguono, per pagare il biglietto aereo o comunque per attuare l’espulsione dal territorio italiano, si attinge a tutt’altri fondi rispetto al portafogli dei datori di lavoro. Quindi, dobbiamo immaginare che questa garanzia di pagamento delle spese di rimpatrio, non sia realmente operativa nel caso di rimpatrio coattivo ovvero nel caso di espulsione.

Se allora questa garanzia per il pagamento delle spese di rimpatrio coatto non funziona – come non ha funzionato fino adesso a distanza di tre anni dall’entrata in vigore della legge Bossi Fini – forse dovrebbe funzionare per il rimpatrio volontario, quando fosse il lavoratore a decidere di tornare definitivamente nel proprio paese?
Sarebbe curioso assistere ad una controversia tra lavoratore e datore di lavoro per vedere se effettivamente lo spirito della norma è questa, cioè garantire una sorta di previdenza integrativa al lavoratore immigrato, un bonus a carico del datore di lavoro per le spese di rimpatrio definitivo.
Chissà forse anche per i familiari e non solo per se stesso!

Facciamo queste considerazioni perché in realtà la disposizione in oggetto ha come unico senso quello di buttare fumo negli occhi alla popolazione, di rassicurare, far vedere che lo Stato italiano non spenderà soldi per essere disturbato dalla presenza dei lavoratori stranieri sul suo territorio e che, invece, tutto verrà posto a carico – come la famosa garanzia di disponibilità dell’alloggio – dei datori di lavoro.

In realtà le cose non stanno così.
Ricordo che fin dal 1986 (quando è stata adottata la prima legge – 946/86 – in materia di immigrazione in Italia) le disposizioni ministeriali prevedevano – e lo hanno previsto e imposto per molti anni – l’obbligo del datore di lavoro di garantire il pagamento delle spese di rimpatrio. Eppure questo obbligo in realtà non è mai stato attuato, cioè era previsto astrattamente quale condizione per il rilascio dell’autorizzazione all’ingresso e al soggiorno del lavoratore straniero (come lo è adesso) però, di fatto questa disposizione non è mai stata attuata e non si è mai visto un datore di lavoro chiamato a pagare per il rimpatrio di un proprio dipendente.
Questa norma, lasciata cadere e dimenticata, in occasione della prima legge, successivamente non è stata più ripresa perché si era già verificato che era totalmente inutile.

Ora però, per motivi d’immagine, questa disposizione è stata ripresa, gettando in pasto al pubblico la finta sicurezza del pagamento delle spese di rimpatrio, ma nella pratica, come giustamente si chiede il datore di lavoro che ci ha mandato il quesito, questa disposizione risulta e risulterà pacificamente impraticabile.