Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Africa – Diritto di asilo, diritto di fuga

Intervista con Bruce Leimsidor, docente universitario di immigrazione e legislazione europea

Rosanna Marcato: Alla luce della nuova legislazione sul diritto d’asilo (sono circa quattro mesi che le nuove procedure sono in funzione) abbiamo voluto approfondire i motivi che spingono le persone a fuggire, nonostante le numerose tragedie che avvengono in mare.
Su questo tema abbiamo intervistato il professor Bruce Leimsidor, docente universitario di immigrazione e legislazione europea presso l’Università di Venezia. Consulente negli anni passati per UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) per l’area africana.

Domanda: Professore lei ha lavorato nei campi dell’UNHCR in Africa, ci vuole raccontare perché queste persone fuggono anche da questi campi che, nonostante tutto, potrebbero rappresentare un luogo di rifugio?

Risposta: La prima impressione che la maggior parte delle persone ha nei confronti di questi campi è che sono posti squallidi, non sono molto confortevoli e la vita è molto difficile. Ma questa non è la ragione principale per cui la gente non rimane nei campi o non usa questi campi. Il problema principale non sono le condizioni materiali di questi luoghi, ma la sicurezza: il motivo per cui le persone si rifugiano in questi campi è la sicurezza, ma questi luoghi non sono sicuri.
Già da anni l’organizzazione dell’Unità africana ha raccomandato e ordinato che i campi non siano messi vicino al confine dello stato da cui queste persone fuggono. Questa richiesta è stata accettata anche dall’UNHCR ma, generalmente, non è stata osservata in alcun caso; se si guarda la mappa dei luoghi in cui sono collocati i campi profughi, quasi l’80% dei campi in Africa si trovano proprio vicino al confine del paese dal quale le persone sono fuggite. Questo significa che avvengono infiltrazioni degli agenti, di armi del paese di origine e in molti casi, come quello del Ciad, di milizie che fanno strage nei campi. Per questo per questo i campi non i primi luoghi a non essere sicuri.
La sicurezza dei campi, inoltre, non sta sotto la sorveglianza dell’UNHCR ma sotto la sorveglianza della polizia locale e, in molti casi, il paese ospite non ha un reale interesse a mantenere la pace e la sicurezza nei campi. Succede quindi che molti dei problemi dei paesi di origine si trasferiscono nei campi; i problemi che hanno causato la fuga si trasferiscono nei campi e questi diventano microcosmi della situazione del paese di origine.
Un altro motivo è che l’UNHCR è sotto le pressioni internazionali e, in molti casi, sceglie di essere d’accordo con rimpatri forzati di profughi nei paesi di origine. Pertanto, le persone vivono in questi campi sempre sotto la minaccia di essere rimandati nei paesi d’origine. Che siano o meno sicuri questo non importa. Il caso più famoso è quello che riguarda la situazione dei profughi afgani in Iran e Pakistan, ma ce ne sono anche altri casi, molto più gravi in Africa. Per esempio i burundesi in Tanzania rimandati in Burundi senza un’infrastruttura per integrarli, così come la situazione dei profughi congolesi in Tanzania, rimandati in Congo che dopo pochi mesi avevano necessità di fuggire di nuovamente.

D: Abbiamo notato nel nostro lavoro quotidiano che molte di queste persone che provengono dai campi – alcuni sono addirittura nati in questi luoghi, perché sono campi che esistono da tanti anni – sono persone che tendono all’assistenzialismo; la nostra fatica è proprio quella di cercare di attivarli per diventare autonomi. Rispetto alla psicologia di queste persone, che hanno vissuto a lungo in questi luoghi, ci può dire qualcosa?

R: La conseguente psicologia non è sicuramente una colpa dei profughi stessi, è quasi una cosa imposta dalla situazione: in molti di questi campi ai profughi non è assolutamente permesso avere alcuna attività. In Tanzania, per esempio, non potevano avere neanche un giardino dove coltivare qualcosa da mangiare, potevano mangiare solo quello che ricevevano dalla distribuzione del cibo delle organizzazioni internazionali. Non c’è alcuna spinta a motivare la gente ad essere più indipendente, anche perché c’è il timore che se diventano indipendenti resteranno nel paese ospite e non torneranno a casa.

D: Lei che tipo di lavoro svolgeva in questi campi?

R: Io lavoravo a Nairobi, con un compito di sorveglianza della situazione dei campi in tutta l’Africa dell’est, centrale e di una parte del sud. Ogni tanto mi recavo nei campi stessi per scegliere i profughi – che vivevano situazioni di particolare pericolo – da mandare nei paesi europei o negli Stati Uniti,. Si trattava di un programma che avrebbe dovuto essere esteso in maniera più capillare, ma c’era resistenza all’interno dell’organizzazione stessa perché molti degli ufficiali delle Nazioni Unite ritengono che i profughi africani devono rimanere in Africa, che non è corretto politicamente mandare questi profughi in altri paesi.

D: Lei ora non lavora più per l’UNHCR. E’ stata una scelta?

R: Sì, è stata una scelta. Francamente non ero d’accordo con questa politica, col fatto che i profughi africani devono restare in Africa. Teoricamente sì, sarebbe giusto ma quando questo avviene a costo della vita stessa delle persone, quando è evidente quanto soffrono ed il pericolo in cui si trovano, allora significa solamente che si vuole che vadano fuori, che scappino da lì.
Quello che io e i miei colleghi facevamo non era sufficiente e così ho deciso di accettare una posizione all’Università di Venezia e di scrivere articoli. Così adesso sto lavorando ad un libro proprio sulla situazione dei profughi in Africa.