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da Il Manifesto del 13 ottobre 2005

Melilla, l’odissea dei dannati

A Oudja, tra i subsahariani espulsi dalla Spagna e in attesa di essere cacciati dal Marocco

Cinzia Gubbini
Inviata a Melilla – Lo conoscono tutti, il campus di Oujda, un bello spazio immerso nel verde dove sorge la residenza degli universitari dell’ateneo Mohammed I.
Lo conoscono soprattutto gli africani subsahariani che in questa città frontaliera arrivano per tentare la strada dell’Europa o dove vengano accompagnati senza tanti complimenti dalle autorità marocchine con un solo ordine: «tornate da dove siete venuti».
Cioè in Algeria, il paese nemico accusato dal regno del Marocco di non fermare il flusso di clandestini. Ma gli immigrati espulsi non riprendono certo la strada di casa, e tornano invece verso Oujda. Qui, se non hanno abbastanza soldi per proseguire, si fermano al campus.
Una storia strana quella dell’università Mohammed I, affollata in questi primi giorni di lezione da studenti e studentesse con i libri sottobraccio. Chiunque a Oujda è pronto a giurare che l’università è «un posto sacro», dove la polizia non mette piede, in base a una consuetudine che affonda le sue radici negli scioperi studenteschi degli anni `80. Per questo i subsahariani entrati illegalmente vengono a dormire qui, sotto gli alberi che circondano la residenza universitaria dove dormono invece i 250 studenti subsahariani della Mohammed I. «Facciamo due vite parallele – dice Sam, uno studente senegalese di Fisica che spera un giorno o l’altro di lavorare in Francia -, ovviamente li aiuto, spesso ci sono anche dei senegalesi come me. Ma non posso mischiarmi troppo, può essere pericoloso.
Qui a Oujda c’è razzismo, anche contro noi neri che siamo qui per studiare». Spesso gli studenti si incaricano anche di ritirare per conto degli immigrati i soldi inviati loro dalle famiglie attraverso la Western Union. In cambio di una piccola commissione, si dice.

Sam racconta che i clandestini senegalesi del campus se ne sono andati qualche giorno fa, espulsi anche loro con gli aerei che hanno riportato a casa le persone abbandonate in pieno deserto dal governo marocchino. «E’ stata una scelta autonoma – spiega Sam -. Qui la polizia non entra e quindi è stata stilata una lista delle persone che volevano rientrare con gli aerei diretti in Mali e Senegal».
la maggior parte delle persone nascoste nel campus non ha alcuna intenzione di farsi rimpatriare e la tensione intorno al campus è alle stelle. Il Marocco ha moltiplicato le retate, nella sua veste di paese amico dell’Europa e in attesa dei 40 milioni di euro promessi dalla Spagna. «Possiamo parlare ma solo per poco, perché gli altri del mio gruppo non vogliono che io parli con i giornalisti», afferma un giovane nigeriano seduto sotto gli ulivi del campus e intento a fumare una sigaretta «sono cristiano e quindi non sono in Ramadan», spiega. Tra i nigeriani presenti, lui è l’unico disposto a parlare. «Vivo al campus da diversi mesi – dice – e sono già stato espulso una volta verso l’Algeria».
Passano pochi minuti è arrivano due marocchini, che si presentano come militanti dell’organizzazione studentesca. «Dovete andarvene immediatamente», intimano con un tono alterato. E spiegano che ultimamente ogni qualvolta un giornalista si è avvicinato al campus, la polizia ha cercato di entrare per cacciare gli immigrati. «Preferiamo non ci sia clamore qui intorno, lo facciamo per proteggerli».

La stessa diffidenza si respira a Nador, a pochissimi chilometri da Melilla e a due ore di macchina da Oujda. Qui sorge il monte Gurugu, dove per diversi anni si sono nascosti centinaia di africani che riuscivano a scivolare nell’enclave spagnola.
Ora, dopo gli attacchi di massa delle scorse settimane, il monte è praticamente vuoto e si incontrano solo i militari che presidiano la zona. Eppure nelle foreste intorno a Nador ci sono ancora alcuni africani, reduci degli assalti alle barriere. Secondo alcune informazioni, otto subsahariani sarebbero ricoverati nell’ospedale di Nador con delle ferite da arma da fuoco. Chi è stato colpito meno duramente ha invece deciso di mettersi in cammino verso Oujda, per evitare la situazione «calda» come sintetizza un liberiano in marcia verso la frontiera algerina.
Un viaggio sotto il sole cocente che dura dai quattro ai sei giorni. Camminano in piccoli gruppi, qualcuno anche da solo. Perlopiù scelgono i sentieri che passano attraverso le colline. A volte, invece, si affacciano fino alla strada asfaltata e camminano incolonnati sul bordo. Indosso hanno tutti i loro abiti. Qualcuno affronta il viaggio anche con il cappotto. In mano le buste di plastica nere, con una bottiglia d’acqua e quando va bene qualcosa da mangiare. Spesso portano in equilibrio sulla testa delle coperte, che usano la notte per ripararsi sotto gli alberi o nelle costruzioni di terra gialla che punteggiano le valli.

«Sì, mi mettano su un aereo, ho visto troppi morti e sono troppo stanco», dice un giovane maliano, con le scarpe sformate e un pail colorato. Dietro di lui un altro ragazzo maliano che fa fatica a tenere il passo, i piedi stretti in ciabattine da mare troppo piccole, il corpo magrissimo, un filo di voce e le labbra secche. Anche lui dice che si farà rimpatriare. Poco più dietro c’è invece Youssouf del Burkina Faso, jeans e un cappello in testa. «Vado in Algeria, cercherò di riprovare. Ma non adesso, qui in Marocco c’è troppa polizia». Con Youssouf si può parlare per poco tempo, il tassista Khaled è in fibrillazione.
Ci sono dei pastori sulla strada che, secondo lui, potrebbero chiamare la polizia. Khaled è l’unico che ha accettato di fare il viaggio per 500 dihram (50 euro) fermando le colonne di uomini che cercano di arrivare a Oujda. Per i tassisti marocchini avere a che fare con gli africani subsahariani rappresenta un vero pericolo «Se uno vuole salire, anche se può pagare, io gli chiedo il visto. E se non ce l’ha chiamo la polizia». Alla fine, però, anche Khaled è soddisfatto del viaggio e di aver ascoltato le storie degli africani in cammino: «Sono tutte brave persone che vogliono lavorare». Suo figlio è emigrato clandestinamente in Spagna per partecipare alla sanatoria.

Ancora più indietro, a un’ora di viaggio in macchina e a cinque giorni a piedi da Oujda c’è un gruppo più folto. Otto persone che camminano insieme e vengono da diversi paesi: Liberia, Benin, Guinea. Eric è un guineano, il più agguerrito di tutti e il più arrabbiato: «Ho vissuto per due anni nella foresta, lì ho avuto anche un figlio, che ha sette mesi.
Quando abbiamo assaltato le barriere, la Guardia civil ha fatto entrare per una porta mia moglie che era in lacrime e il mio bambino. Ma a me no, solo botte. Ora me ne torno a piedi in Guinea, qui tutti ci sbattono le porte in faccia. Se abbiamo assaltato le barriere è perché la situazione era insostenibile. C’era troppa gente nella foresta, e i militari che volevano cacciarci. E quando volevamo passare cosa hanno fatto? Ci hanno sparato». «Ora voglio fare io una domanda – interviene Dialo, un giovane del Senegal – noi abbiamo visto delle persone morire a Melilla. Cosa hanno detto le Nazioni unite su questo crimine?».