Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 19 ottobre 2005

Se ti abbandonano in mezzo al deserto di Cinzia Gubbini

La paura dei migranti che vivono in Marocco: nel deserto ci finiscono tutti

Di ritorno da Rabat

«Sono venuti anche di notte, hanno preso la gente che stava dormendo. Nel mio quartiere, nessuno esce più di casa. La situazione è diventata molto dura, non era mai stato così». Siamo a Rabat, in un McDonald’s, dopo le sei di sera, finito il digiuno del Ramadan. E’ qui, tra i tavolini transnazionali del fast food vicino alla stazione ferroviaria della capitale del Marocco che Pedro, un nigeriano di 29 anni, ha voluto incontrarci. Da McDonald’s, perché qui la polizia non entra e si può stare un po’ tranquilli, anche se Pedro sotto il suo berretto bianco non la smette di guardarsi alle spalle. Si è vestito elegante, camicia bianca, golf, jeans ben stirati. «Bisogna vestirsi bene, magari ti scambiano per uno studente e non ti chiedono i documenti».
La voce di Pedro è una delle tante che arrivano dalla periferia di Rabat come di Casablanca, o di tutte le altre città del Marocco. Voci azzittite dagli ultimi sconvolgimenti alle frontiere europee, gli assalti di Ceuta e Melilla, le pressioni spagnole, la decisione di Rabat di espellere in massa gli immigrati subsahariani – e non solo quelli nascosti vicino alle enclaves spagnole, sul monte Bel Younech davanti a Ceuta o sul Gurugu, di fronte a Melilla.
No: nel deserto del sudest e in quello del Sahara occidentale sono state deportate anche persone che vivevano lontano dalle enclaves ma che chiaramente avrebbero potuto prima o poi tentar di arrivare in Europa. Persone che si accalcano nelle periferie – famosa quella di Takadoum a Rabat – dove per fare un giro «è meglio essere accompagnati», dicono.

Deportati dal carcere

La gendarmeria reale ha scelto la linea dura, durissima. «Calcoliamo che nel deserto siano state portate tra le 1.500 e le 2.000 persone: intorno alle enclaves non ce n’erano più di mille», spiega Mamadou Salian Bah, il rappresentante dell’Associazione nazionale degli studenti africani, guineano, che ha una verità ancor più scottante da raccontare: il governo marocchino ha espulso nel deserto persino alcuni carcerati neri.
Lui lo sa: uno è suo cugino. «Si trovava in carcere da sei mesi, doveva scontare una condanna di un anno in base alla nuova legge sull’immigrazione. Si trovava in Marocco da clandestino, il suo permesso di soggiorno era scaduto e si è fatto beccare dalla polizia.
Da qualche giorno non riuscivo a rintracciarlo – spiega Mamadou – finché mi ha chiamato lui. Mi ha spiegato che a fine settembre sono andati a prenderlo, lui pensava di essere libero, invece lo hanno caricato su un camion. In questo momento si trova in un campo militare di Guelmin». Guelmin è la località al confine con il Sahara occidentale, dove sono state portate almeno un migliaio di persone.
Alcuni immigrati sono stati lasciati nel deserto, quelli provenienti dai paesi con cui il Marocco non è riuscito a stabilire un contatto per il rimpatrio. Tutti gli altri proprio in queste ore sono di fronte ai loro ambasciatori, compresi quelli di Congo e Costa D’Avorio, due paesi insanguinati dalla guerra civile

Gurugu e Bel Younech

Ma che cosa è accaduto in questi luoghi continuamente evocati – Bel Younech, Gurugu? Il primo è al confine con Ceuta, il secondo a quello di Melilla.
In questi luoghi da anni esistono degli accampamenti: è qui, naturalmente, a un passo dalla Spagna «marocchina», che gli africani si fermano per provare a passare dall’altra parte. Nascosti dalla vegetazione ma conosciuti da tutti, a partire dai militari, i campi di Bel Younech e Gurugu venivano a volte smantellati, per ricrearsi puntualmente.
Tuttavia, si racconta che fossero ben organizzati: «Le comunità eleggevano i propri capi, che si occupavano di controllare un po’ la situazione. Sia per appianare eventuali litigi che per organizzare la vita in mezzo alla vegetazione» – racconta Hicham Rachidi dell’Afvic, gli Amici dei famigliari delle vittime dell’emigrazione clandestina.
«I due accampamenti erano conosciuti anche da tutti gli africani in cammino verso il Marocco, e le comunità hanno sempre fatto in modo di non far accalcare troppa gente. Quando le persone cominciavano ad essere troppe si comunicava a chi era in arrivo di aspettare ancora un po’. La strategia che è sempre stata scelta dalle persone che si accampavano qui – continua Rachidi – era quella di passare dall’altra parte a piccoli gruppi. Una strategia che mirava a non creare troppa tensione».
E così è andata avanti per anni. Ovviamente per gli immigrati non si trattava di una situazione agevole: lo può testimoniare Giorgio Colaprico di Medici Senza Frontiere, una delle associazioni che si è spinta fin nel deserto per cercare gli immigrati, e che presta servizio proprio al confine con Melilla: «Prestavamo spesso servizio a Gurugu» – racconta. «Le persone avevano diversi problemi sanitari, noi li accompagnavamo in ospedale quando c’era bisogno, e facevamo delle consultazioni.
Ci fermavamo in una certa parte della radura, loro sapevano che eravamo lì e ci venivano a cercare se c’era qualche problema. Ma a un certo punto è cambiato il clima».

Un brusco giro di vite avvenuto intorno all’inizio del 2005, proprio mentre la Spagna avviava la sua sanatoria. Il messaggio arrivato al Marocco è stato quello di fermare gli arrivi, mentre in Spagna montavano le polemiche sull’«effetto chiamata» della sanatoria voluta dal premier.
Il Marocco ha risposto: i rapporti tra i due paesi si sono fatti molto più distesi dopo l’elezione di Zapatero a primo ministro. Rabat ha collaborato con Madrid dopo gli attentati dell’11 marzo e la Spagna ha ringraziato lanciando una serie di segnali: un appoggio meno netto al Fronte Polisario nel Sahara occidentale, fino ad arrivare all’eloquente assenza di Zapatero nelle enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, persino in un momento caldo come quello determinato dalle avalanchas.

«La presenza dei militari ha iniziato ad essere sempre più forte», continua Colaprico, che racconta di come i militari marocchini abbiano iniziato a eliminare le discariche intorno alla montagna in cui gli immigrati erano abituati a ricavare cibo e vestiario per il loro sostentamento, di come abbiano costruito un presidio militare nel punto esatto in cui Medici Senza Frontiere dava appuntamento agli immigrati. Cominciavano ad arrivare anche i giornalisti.
Gli abitanti di Bel Younech, i più organizzati, non apprezzavano che si facesse troppa pubblicità attorno al loro caso. Per controllare chi entrava nel campo e per proteggersi dalla polizia avevano addirittura creato una sorta di «servizio d’ordine» chiamato «caschi blu», con un’ironia che la dice lunga sul grado di coscienza politica che si può trovare in posti come questi.

Ma la linea dura di Rabat andava avanti: le capanne di plastica degli immigrati venivano continuamente distrutte e un articolo dello scorso giugno su Le Journal Hebdo riportava le denunce degli immigrati sul comportamento degli poliziotti marocchini: «Ci tagliano le piante dei piedi e poi ci dicono ‘provate a correre’».

La tensione saliva, passare dall’altra parte era diventato impossibile e il numero delle persone negli accampamenti cresceva: «Ci hanno raccontato di persone che hanno iniziato a spingere perché si prendesse una decisione una volta per tutte» – racconta ancora Rachidi dell’Afvic. «Ci sono state lunghe discussioni e persino delle votazioni.
Alla fine ha prevalso la linea di chi pensava che fosse arrivato il momento di provare il tutto per tutto, altrimenti sarebbe stato troppo tardi». Così è iniziata l’organizzazione dell’assalto alle barriere di Ceuta e Mellila. E dall’altra parte, tanto sul fronte spagnolo che su quello marocchino, la sferzata finale.

Il tavolo algerino

Ma le conseguenze di questa vicenda non sono ancora finite; anzi, stanno incendiando gli animi in Marocco e in Algeria a proposito del Sahara occidentale, conteso dai due paesi e sfondo onnipresente di tutte le questioni interne marocchine. E’ proprio a ridosso del muro costruito da re Hassan II per contenere le azioni del Fronte Polisario – lungo 2mila chilometri e difeso da mine antiuomo e anticarro – che i militari marocchini hanno abbandonato alcune persone, suddivise in piccoli gruppi.

Il Polisario ha annunciato di averne trovate 120 e di essere molto preoccupato per la completa assenza di donne. Il Marocco nega con decisione di aver abbandonato persone in quella zona, mentre non può farlo rispetto a coloro che sono stati scovati più a nord dalle associazioni umanitarie.
D’altronde Rabat ha sempre usato questa tattica: se deve espellere qualcuno, lo porta alla frontiera con l’Algeria – anche se fino ad ora ha sempre optato per zone abitate e non completamente desertiche o, ancor peggio, minate.
Il governo accusa da anni l’Algeria di aver «ridotto le frontiere a un colabrodo» e quindi ritiene che qualsiasi subsahariano penetrato in territorio marocchino sia passato dall’Algeria.
Il 12 ottobre il ministro degli esteri marocchino Taieb Fassi-Fihri ha invitato un gruppo di giornalisti a casa sua per il pasto di fine digiuno del Ramadan lanciando un messaggio ben preciso alla stampa: «Noi abbiamo fatto ciò che potevamo per i nostri mezzi – ha spiegato – ma dal lato algerino della frontiera non si fa nulla per impedire l’accesso degli immigrati in territorio marocchino. Come giornalisti dovreste interessarvi un pò di più a quello che succede dall’altra parte».

Ieri, sulla stampa marocchina, il governo di Rabat ha preso di petto il Polisario, sostenendo che il Fronte ha inventato di sana pianta la storia degli immigrati trovati nel deserto con la precisa intenzione di danneggiare l’immagine del Marocco.
Immediata la replica di Mohamed Abdelaziz, capo del Polisario e presidente della Repubblica araba saharaoui democratica (riconosciuta dall’Algeria ma non dal Marocco), che ha usato parole molto dure: «Si tratta di minacce, di una escalation nei confronti dell’Algeria e del Polisario», ha detto.
La Spagna si guarda bene dal mettere bocca in queste schermaglie. Ma manda segnali. Solo l’altro ieri Zapatero ha incontrato De Villepin e parlato al lungo al telefono con Chirac, chiedendo alla Francia – vicina all’Algeria – di appoggiare la proposta di una Conferenza euro-africana sull’immigrazione, che avrà l’obiettivo di richiamare alle «proprie responsabilità» i governi africani circa l’eccessiva mobilità delle loro popolazioni.
L’obiettivo prioritario di Parigi e Madrid, per ora, è chiudere bene le porte di casa.