Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da La Stampa del 19 ottobre 2005

Tra i disperati del Niger in fuga verso l’Italia

di Guido Ruotolo

AL QATRUN. La grande paura che preoccupa la Libia è la «penetrazione» dai confini del Niger. Pochi giorni e con il Ramadan se ne andrà anche il grande caldo e i viaggi attraverso il deserto riprenderanno.

Dietro quegli ottanta chilometri di terra di nessuno, tra il Niger e la Libia, migliaia di disperati aspettano il loro turno. Ma questo esercito di disperati potrebbe ben presto insidiare anche i nostri confini, perché dopo aver attraversato la Libia potrebbe giungere da noi.

La situazione sta diventando sempre più insostenibile perché ormai la presenza di decine di migliaia di clandestini in Libia ha provocato fratture profonde nella società. E’ un po’ come da noi: fenomeni di insofferenza e di razzismo prendono piede come risposta al dilagare di furti e rapine, di accoltellamenti e violenze che prima non c’erano e che vedono nello straniero africano il responsabile. Nel grande mare del deserto, nell’attesa della invasione sono i pick-up a prendere il posto dei gommoni, a fare la traversata, a portare dall’altra parte della frontiera quel popolo di disperati, di derelitti, anche di criminali che vivono fuggendo o che fuggono dalla miseria, dalla violenza, dalla guerra. Trenta, quaranta a notte su ogni coppia di pick-up, a fari spenti, a bassa velocità per non farsi sentire.

Questi Caronte del deserto sono bravi ed esperti, ed anche carogne perché spesso lasciano i propri «clienti» a vari chilometri dal luogo stabilito, e molto spesso questi disgraziati quando gli va bene vengono ritrovati disidratati. Anche loro, però, i militari libici, i reparti speciali delle frontiere adesso si sono attrezzati e ogni notte parte la grande caccia. Il parcheggio della caserma è piena di pick-up sequestrati.

Ad Al Qatrun sono acquartierati i reparti speciali di frontiera che hanno il compito di sorvegliare i confini con il Niger e il Ciad. Quindici pattuglie, tre jeep a pattuglia. Cento uomini che si danno il cambio ogni mese. Davvero un granello di sabbia nel mare del deserto, terra infernale. Al Qatrun è l’ultimo avamposto prima del confine con il Niger, Tammu, la frontiera. Le jeep slittano sulla sabbia e camminano veloci. A un centinaio di chilometri da Tammu, appare un ostacolo sulla strada in costruzione, che stanno asfaltando: è un posto di blocco fatto di barili vuoti di petrolio e massi. Dall’alto della roccia un cannocchiale scruta la pianura desertica.

L’autista della jeep parla con il militare di vedetta. Si passa. Pochi chilometri ancora e appare un immenso camion bloccato. Scena incredibile: centoquattordici viaggiatori sono accampati nel deserto in attesa che il camion venga riparato. Centoquattordici nigerini che tornano a casa. Sul camion vi sono almeno tre pareti alte quattro, cinque metri di tutto il ben di dio: poltrone, divani, televisori, biciclette, fagotti di tutte le dimensioni. Tutta la merce è avvolta in sacchi di nylon appesi alle pareti del camion. «Torniamo a casa. Quanto costa il viaggio? Un dinaro a chilo per il bagaglio e 106 dinari a persona. Ma se non viene qualcuno ad aiutarci ho paura che non c’è ne andremo più…».

Prima di lasciare Tripoli per Sebha, la capitale della regione desertica del Fezzan, Said el Medhi Saudi, responsabile della cooperazione internazionale del ministero dell’Interno, aveva tratteggiato uno scenario davvero fosco: «Quello che sta accadendo nell’area di confine con il Niger è drammatico. Spesso questi disperati vogliono essere presi dai nostri soldati di frontiera per non morire. Il fenomeno ha ormai la dimensione di una penetrazione diffusa nel nostro territorio. Quel che è grave, però, è che le autorità nigerine non intendono più collaborare con noi, riprendendosi quei clandestini che sono arrivati in Libia attraversando il Niger. Nei primi nove mesi del 2005 abbiamo fermato oltre seimila africani senza documenti, e ventiquattromila che tentavano di imbarcarsi per Lampedusa».

E se aggiungiamo gli ormai diciassettemila clandesini che sono sbarcati effettivamente in Sicilia il totale porta a quasi cinquantamila irregolari che sono stati fermati, arrestati, respinti, rimpatriati. Nella struttura militare di Al Qatrun c’è anche lo spazio dove vengono «ospitati» gli indesiderati, quei ragazzi, uomini (e due donne), disperati, delinquenti, drogati che nessuno vuole. E sono centinaia. Il cancello chiuso con la catena viene aperto. Uno spazio di polvere all’aperto e quattro, cinque camerate. Stuoie, materassini molto sottili e qualche coperta. All’arrivo dei giornalisti italiani all’improvviso parte un coro di colpi di tosse.

E’ il segnale della sommossa. Non è la prima volta ad Al Qatrun come non lo è nel centro di accoglienza di Tripoli, dove i segni della rivolta sono ancora visibili nelle ammaccature del frigorifero della cucina. Nel Centro di Sebha le pareti delle camerate dei clandestini raccontano il loro dramma: «Libya will never…Libia non avrà mai pace». «Quando un uomo è detenuto senza ragione…»; «I giorni duri non sono per sempre. I giorni felici sicuramente arriveranno…. il mio domani arriverà…». «Non tornerò mai più in Libia».

In quello di Tripoli dà il segno del peggioramento del clima il muro di filo spinato e le inferriate che proteggono la cucina che prima, appena due anni fa, non c’erano. Adesso quello di Tripoli è mezzo vuoto. Centinaia di egiziani e marocchini sono stati appena riportati a casa. Attimi di tensione ad Al Qatrun. I poliziotti libici fanno fatica a trattenere i «clandestini». C’è ne è uno in particolare, molto agitato, che dicono sia un tossicodipendente, che si prende un calcio negli stinchi e che cadendo a terra, urla e si dispera. Ha la voce da baritono: «Sono venuto a Sebha per poter sotterrare mio fratello che viveva qui da 18 anni, nel cimitero. Sono del Togo e sono entrato in Libia senza visto». Un altro prende la parola: «Mi chiamo Hassan Salem Mohammed, sono del Niger, ho 51 anni. Mi hanno arrestato per aver falsificato documenti». Il popolo dolente che non si ritrova a essere rappresentato come criminale rivendica il diritto alla sopravvivenza: «Siamo scappati per mangiare e basta»».

Al Qatrun è una Lampedusa al contrario. E’ avamposto e retrovia nello stesso tempo. Come Lampedusa è in qualche modo un approdo non voluto. Con gli occhi occidentali, Al Qatrun e gli altri «centri di accoglienza» con i nostri non hanno nulla a che vedere. Sono strutture ibride, metà caserme, metà carceri, luoghi di detenzione e di violenza. I libici da tre anni stanno facendo il lavoro sporco anche per noi italiani e europei. Il tanto contestato accordo segreto italo-libico sta iniziando a funzionare bene. Al di là della cooperazione investigativa, dei corsi di formazione delle forze libiche che curiamo noi, a fine anno – sicuramente a fine gennaio – sarà pronto il primo centro di accoglienza progettato e realizzato dagli italiani. Si trova a Gharyan, a una sessantina di chilometri a sud di Tripoli. Prefabbricati per mille persone, ognuno dei quali con climatizzatore.

Ci vuole tanta fantasia a immaginare in funzione questo centro. Dopo Gharyan tocca a Ghat e poi quello a Kufra. Non basteranno certo a tamponare l’emergenza. Adesso il problema per i libici è anche la scarsa collaborazione dei Paesi subsahariani, che ritardano le procedure di identificazione e quindi il rimpatrio dei clandestini. La situazione in Libia rischia davvero di precipitare.