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tratto da www.costituzionalismo.it

“Diritto alla unità familiare” e “interesse agli affetti” dei cittadini extracomunitari secondo la Consulta

* Si ringrazia l’Asgi per la segnalazione

1. Il diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini extracomunitari ha trovato riconoscimento, in una portata alquanto estesa, nella legislazione italiana a partire dalla c.d. legge Martelli del 1986; successivi interventi normativi, ed in particolare il Testo unico sulla immigrazione (d.lg. n. 286 del 1998), hanno precisato vari aspetti della materia; modifiche più recenti (la c.d. legge Bossi Fini, n. 189 del 2002) hanno invece operato talune non marginali limitazioni, senza tuttavia rimettere in discussione l’impianto generale della disciplina.
E’ opportuno notare che la comparsa del diritto al ricongiungimento corrisponde ad una tendenza diffusa, riscontrabile nella generalità dei paesi europei, ispirata sia dalla necessità di riconoscere e salvaguardare il patrimonio dei diritti fondamentali goduti dagli stranieri immigrati extracomunitari, sia dalla consapevolezza che il consentire agli stranieri di ricongiungersi e di vivere con i propri familiari una normale vita di affetti rappresenta una premessa essenziale per il buon esito delle politiche di integrazione. La strada è stata in qualche modo aperta dalla inclusione del ricongiungimento familiare nell’ambito dei diritti accordati ai lavoratori comunitari dai regolamenti emanati in attuazione della libertà di circolazione dei lavoratori sancita dal Trattato di Roma. L’istituto del ricongiungimento, rivolto ai soli migranti comunitari, ha finito cioè per fungere da modello ed essere esteso (anche se con notevoli attenuazioni) ai migranti extracomunitari.
In questa emersione del diritto al ricongiungimento (come più in generale, per tutto quanto attiene alle politiche migratorie, stante il ritardo con cui si è proceduto alla edificazione del “terzo pilastro” in materia di cooperazione comunitaria negli affari interni) ) i Paesi europei hanno operato autonomamente, in assenza di una cornice comune, il che ha inevitabilmente favorito l’emersione di approcci e sensibilità variamente modulati. Affianco agli indirizzi di maggiore apertura si possono quindi riconoscere indirizzi di segno inverso, più evidenti in quei paesi nei quali gli immigrati rappresentano una vistoso segmento della intera popolazione. In questi contesti, l’atteggiamento di prudenza mostrato rispetto al ricongiungimento riflette il timore di aprire varchi incontrollabili all’ingresso di nuovi immigrati e la preoccupazione di assicurare una corrispondenza tra ingressi ed effettiva capacità di integrazione socio-economica del paese ospitante. Ben si comprendono, dunque, le difficoltà che l’Unione Europea ha incontrato allorché essa, alla fine degli anni 90, ha tentato, con una direttiva apposita, di stabilire orientamenti comuni in materia di ricongiungimento: tutti i paesi membri avevano ormai definito autonomamente i propri indirizzi legislativi, secondo opzioni molto diversificate; sicchè la Unione, al termine di un laborioso iter, non ha potuto fare altro che rinunciare alla prospettiva di una direttiva rigorosa, intesa a promuovere il “diritto” al ricongiungimento, optando invece per una direttiva di compromesso (2003/86) “a maglie larghe”, inutile per i Paesi (come l’Italia) nei quali il ricongiungimento era già stato concepito in una ottica di garanzia, ed inoffensiva per i Paesi che, all’opposto, avevano preferito riservarsi maggiori possibilità di selezione e di graduazione delle richieste di ricongiungimento[1].

2. Il ricongiungimento familiare ha dunque una genesi essenzialmente interna all’ordinamento di ciascun paese, nonostante le assonanze rilevabili tra le varie normative nazionali, e sebbene varie proposizioni contenute in numerosi strumenti di diritto internazionale hanno concorso a promuoverlo: gli artt. 8 e 10 della CEDU[2]; l’art. 10 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali, culturali; l’art. 23 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; gli artt. 9 e 10 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo; la Convenzione OIL n. 143 del 1975; l’ art. 12 della Convenzione europea di Strasburgo del 1977 sui lavoratori migranti. Tali circostanze comportano che, ai fini della qualificazione del nuovo diritto e della delimitazione dei suoi contorni si debba fare tuttora principalmente riferimento alla tradizione costituzionale ed all’ordinamento di ciascun paese per verificare se ed in che misura esso possa essere estratto dai principi costituzionali affermati al riguardo della protezione della vita familiare[3].
La notazioni che seguono intendono per l’appunto segnalare la recente evoluzione degli indirizzi in materia della giurisprudenza della Consulta.
La pronuncia base va individuata nella sent. 28/1995. Tale sentenza afferma che la normativa riguardante l’istituto del ricongiungimento familiare protegge diritti “tutelati dalla Costituzione e riconosciuti da una molteplicità di atti internazionali”; “ la specificità della legge si esprime pertanto nella garanzia di una esigenza – la convivenza del nucleo familiare – che si radica nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e in particolare, nell’ambito di questa, ai figli minori”. La pronuncia aggiunge, inoltre, che “ il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con se, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno della unità della famiglia sono infatti diritti fondamentali della persona che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri contemplati dalla legge in esame. Naturalmente questi diritti possono essere assoggettati ai limiti derivanti dalla necessità di realizzarne un corretto bilanciamento con altri valori dotati di pari tutela costituzionale, come del resto avviene nel caso di specie in cui l’esigenza del ricongiungimento familiare viene collegata alla condizione che lo straniero immigrato sia in grado di assicurare ai propri familiari “normali condizioni di vita” ”.
Dunque, secondo la Consulta la convivenza familiare rappresenta una istanza radicata sui principi costituzionali che riconoscono e proteggono l’istituto familiare e come tale rientrante nei diritti fondamentali della persona (id. 203/1997; 379/2000); come tale essa prescinde da ogni distinzione tra cittadini e stranieri; essa assume una valenza ancor più cogente allorché e’ funzionale all’esercizio dei diritti e dei doveri di genitori e figli minori (203/1997; 379/2000); essa può essere assoggettata, nel caso degli stranieri, a limiti che possono però scaturire solo attraverso il bilanciamento con valori costituzionali parigrado (sent. 28/1995), ovvero “specifiche e motivate esigenze volte alla tutela delle stesse regole della convivenza democratica” (sent. 376/2000). Il ricongiungimento viene pertanto concepito come un diritto di rango costituzionale e non legislativo:, con la conseguenza che i limiti apposti dalla legge possono essere sindacati secondo un criterio più rigoroso della sola ragionevolezza, in quanto il sindacato si estende alla preliminare verifica della omogeneità tra i diritti ed i valori con cui il bilanciamento è stato effettuato. Inoltre, la legge che “positivizza” il diritto alla convivenza familiare si configura come una disciplina costituzionalmente necessaria, in quanto attuativa di un diritto fondamentale della persona: essa può variamente stabilire limitazioni (sempre nell’ambito del corretto bilanciamento di cui si è appena detto), ma non e’ invece abrogabile, almeno nel suo nucleo essenziale.

3. La solenne affermazione del principio della protezione e dell’assistenza della famiglia operata dalla Corte richiede tuttavia, ai fini della individuazione della sua effettiva portata, che si chiarisca, in primo luogo, che cosa si intenda per famiglia: essa si identifica con le unioni legali, costituite attraverso un vincolo matrimoniale, o attraverso un altro atto negoziale (es. “pacs”), o anche con le unioni di fatto? La famiglia presa in considerazione è solo quella c.d. nucleare, composta da genitori o figli minori, o anche la famiglia allargata, intesa come luogo degli affetti comprendente ascendenti e discendenti, ed eventualmente anche persone non aventi carattere di consanguineità?
Se il fenomeno familiare tende, nel contesto delle democrazie contemporanee, ad assumere contorni sempre più estesi e sfumati, tanto da suggerire l’opportunità di sostituire la locuzione di “diritto di famiglia” con quella di “diritto delle famiglie” (a tacer d’altro, è significativo che la Carta di Nizza e la Costituzione europea affermino, distinguendoli, il “diritto a sposarsi” ed il “diritto a fondare una famiglia), l’identificazione della famiglia, allorché essa viene assunta nella particolare prospettiva della disciplina della immigrazione (e cioè quella di creare una corsia di ingresso preferenziale rispetto quella ordinaria) , presenta particolari profili problematici. La famiglia va identificata alla luce della tradizione culturale e giuridica del paese di origine, o di quella di accoglienza?[4]
In secondo luogo, la portata sostanziale del diritto alla vita familiare e’ segnata, su un piano distinto e non confondibile rispetto quello della identificazione dei rapporti interpersonali sussumibili nella nozione di famiglia, e cioè quello dei limiti che possono essere legittimamente apposti dal legislatore, sotto il profilo della legittimità costituzionale (quali salute pubblica, sicurezza nazionale, ordinata convivenza democratica).

4. La famiglia ricongiungibile e’ individuata, dalla vigente d.lg. n. 286 del 1998 in base di criteri, forse inevitabilmente, empirici, nel senso che essi non corrispondono né alla tradizione giuridica e culturale dei paesi d’origine degli immigrati, né a quella del paese di accoglienza. Essa dunque include (art. 29) in primo luogo la c.d. famiglia nucleare, composta dal coniuge e dai figli minori (secondo la legge italiana), i quali, tuttavia, non devono essere sposati. La famiglia ricongiungibile può essere anche quella “allargata”: i figli maggiorenni e gli ascendenti sono infatti anche essi “ricongiungibili”, qualora sussistano particolari condizioni : i primi, nel caso che siano a carico, e non possano provvedere al proprio sostentamento perché totalmente invalidi; i secondi, solo se non abbiano altri figli nel paese di origine, o siano altrimenti ultrasessantacinquenni e non possano essere mantenuti dagli altri figli perché impossibilitati da documentati gravi motivi di salute. Si può comunque dedurre che la famiglia ricongiungibile include sia i parenti in linea retta di primo grado (nel senso degli artt. 75 e 76 c.c.), sia il coniuge, escludendo invece i parenti non diretti, i collaterali, gli affini. Il ricongiungimento dei membri è subordinato, in alcuni casi, alla presenza di specifiche condizioni: i figli minori non devono essere sposati; i figli maggiori devono essere totalmente inabili; gli ascendenti devono avere più di 65 anni, non devono avere altri figli nel paese di origine, a meno che tali altri figli non possano assisterli perché disabili. Tutte queste condizioni non paiono corrispondere ad una ratio comune, se non quella di contenere il numero degli ingressi “privilegiati” a titolo di ricongiungimento familiare.

5. La giurisprudenza costituzionale sopra richiamata (e nel suo solco le successive pronunce) riconosce, a tutto tondo, il radicamento della convivenza del nucleo familiare nelle norme che assicurano protezione alla famiglia, ed in questo contesto valorizza in modo particolare il rapporto tra genitori e figli minori: “ il diritto ed il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e per ciò di tenerli con se, ed il diritto dei genitori e dei figli ad una vita comune nel segno della unità della famiglia sono infatti diritti fondamentali della persona”(sent. 28/1995).
Proprio tale valorizzazione del diritto dei genitori di educare i figli e dei figli a vivere con i genitori ha indotto la Corte ad operare una importante apertura nei confronti della famiglia di fatto: allorché il ricongiungimento coinvolge i figli, esso non può essere subordinato alla circostanza che i genitori siano uniti da un vincolo matrimoniale (sent. 203/1997[5]). Se invece non ci sono di mezzo figli minori, la possibilità del componente straniero di una unione di fatto di soggiornare a titolo di ricongiungimento e’ preclusa dalla incertezza giuridica del rapporto (v. ord. 313/2000; ord. 481/2000), sicchè legittimamente la legge richiede l’esistenza di un vincolo matrimoniale. Va peraltro notato che la Corte non argomenta facendo appello al favor matrimonii
, ma, riferendosi alla necessità di elementi che certifichino la stabilità legale del rapporto di coppia. Nel caso in cui vi siano minori, la situazione e’ diversa: al rapporto tra la coppia si aggiunge il rapporto tra la coppia ed il minore, con i connessi obblighi e diritti; la presenza di figli costituisce inoltre l’oggettiva prova della stabilità (ancorché non legale) del rapporto.
La valorizzazione del rapporto genitori-figli minori induce inoltre ad escludere, alla luce delle argomentazioni seguite dalla giurisprudenza costituzionale, anche la possibilità, non prevista dalla legge italiana e pertanto relativamente alla quale la Corte non ha avuto occasione di pronunciarsi, ma invece riscontrabile nella legislazione di altri paesi, di limitare l’ingresso dei minori solo fintantoché essi sono adolescenti e quindi più agevolmente integrabili nel nuovo sistema sociale.
Tale importante e opportuno apprezzamento della relazione genitori-figli minori non comporta, tuttavia, un deprezzamento, sotto il profilo della valenza costituzionale, delle altre relazioni che possono svolgersi nell’ambito familiare: relazioni tra coniugi; tra genitori e figli maggiorenni; tra figli ed ascendenti; con consanguinei legati comunque da vincoli di convivenza, di solidarietà, di assistenza. Ciò non esclude, ed anzi comporta una graduabilità delle situazioni da parte del legislatore, rapportata alla loro obbiettiva diversità (anche se e’ oggettivamente difficile stabilire, ad es., se l’assistenza di un genitore anziano sia meno meritevole di rispetto dell’allevamento e della educazione dei figli minori), ma implica tuttavia che la graduazione introdotta dalla legge possa essere sottoposta, anche in questi casi, al vaglio di un sindacato “stretto”.

6. La giurisprudenza della Corte, che nella sua prima fase era stata segnata da un chiaro indirizzo garantista, che aveva portato ad importanti correzioni delle scelte legislative (ci riferiamo alla sentenza interpretativa di rigetto n. 28/1995 ed alle sentenze di accoglimento n. 203/1997 e n.376/2000), nei suoi sviluppi più recenti (la sent. 224/05 e la ord. 454/05) appare invece orientata a ridimensionare la portata delle sue precedenti affermazioni. Tale ridimensionamento del diritto al ricongiungimento (con una conseguente espansione del potere del legislatore di modellarlo) può essere colto sotto due profili tra loro connessi: in primo luogo si circoscrive il diritto alla vita familiare al solo ambito delle relazioni intercorrenti nella c.d. famiglia nucleare, (coppia ed ai figli minori), ed escludendo quindi gli ascendenti ed i figli maggiorenni; in secondo luogo, si attenuano i parametri del sindacato di costituzionalità.
Quanto al primo profilo, la sent. 224/05 si esprime nei seguenti termini:
Mentre l’inviolabilità del diritto all’unità familiare è certamente invocabile e deve ricevere la più ampia tutela con riferimento alla famiglia nucleare, eventualmente in formazione e, quindi, in relazione al ricongiungimento dello straniero con il coniuge e con i figli minori, non può invece sostenersi che il principio contenuto nell’art. 29 della Costituzione abbia una estensione così ampia da ricomprendere tutte le ipotesi di ricongiungimento di figli maggiorenni e genitori; infatti nel rapporto tra figli maggiorenni, ormai allontanatisi dal nucleo di origine, e genitori l’unità familiare perde la caratteristica di diritto inviolabile costituzionalmente garantito e contestualmente si aprono margini che consentono al legislatore di bilanciare “l’interesse all’affetto” con altri interessi di rilievo”
In sostanza, la decisione introduce una nuova e netta distinzione tra “ unità familiare” ed “affetto familiare”. La prima, riguardante la sola famiglia nucleare, da luogo ad un diritto di rango costituzionale; il secondo, concernente ascendenti e figli maggiorenni, si risolve in un semplice interesse, che il legislatore può quindi apprezzare o meno e bilanciarlo con interessi che devono essere “di rilievo” ma non necessariamente dotati di consistenza costituzionale.
La sentenza non spiega tuttavia in modo convincente cosa giustifichi la scomposizione operata tra diritto alla unità familiare ed interesse all’affetto familiare. Tautologicamente essa si limita ad affermare che l’unità familiare perde la caratteristica di diritto inviolabile nel rapporto tra figli maggiorenni e genitori “omai allontanatisi dal nucleo di origine”. Si assume cioè che la maggiore età determini, presuntivamente, l’ ”allontanamento” dal nucleo di origine, e che tale allontanamento sia irreversibile e definitivo (la presunzione e’cioè assoluta e dunque non controvertibile). Chi si è allontanato (ripetiamo, non per una scelta volontaria, ma per il fatto stesso di essere maggiorenne) non può chiedere di essere ricongiunto; non avrebbe senso chiedere il ricongiungimento con un familiare che si e’ allontanato dal nucleo familiare come non ha senso chiedere il ricongiungimento con un ex coniuge o un coniuge separato. La decisione neanche prende in considerazione la possibilità che tale allontanamento, nella realtà, non si sia mai realizzato, come pure la possibilità che le persone, pur in precedenza allontanatesi, scelgano in un momento successivo di ricongiungersi (e’ il caso comune di genitori che, divenuti anziani e bisognevoli di assistenza materiale e morale, decidano di vivere con i figli). Sicchè la volontà di vivere insieme, per ragioni di affetto e di solidarietà, intimamente connesse ad una relazione di parentela in linea retta, non viene apprezzata come un diritto della personalità alla normale vita familiare.
La decisione non spiega nemmeno perché l’affetto nei confronti di genitori e di figli maggiorenni possa essere in tutto rimesso alle scelte del legislatore e perché si dequalifichi la situazione rispetto agli artt. 29 e 30 Cost., relegandola nell’ambito di un semplice interesse. Ciò pare peraltro contraddire anche le affermazioni altrove operate dalla Corte, allorché essa si è confrontata con la tematica degli affetti familiari: ad es. la sent. 237/1986, pronunciandosi in materia di convivenza more uxorio ha notato che un rapporto consolidato “non appare costituzionalmente irrilevante , quando si abbia riguardo alle manifestazioni solidaristiche insite in quel rapporto” anche se ha aggiunto che “rientra nella valutazione politica del legislatore stabilire i limiti delle misure protettive occorrenti per la valorizzazione dei legami affettivi esistenti nei rapporti di fatto tra i conviventi”. Se, dunque, la convivenza more uxorio non è costituzionalmente irrilevante, non si comprende come la convivenza di parenti in linea retta (cittadini o stranieri), e cioè una convivenza che si svolge nell’ambito di una cornice di certezza giuridica del rapporto, assente nella convivenza more uxorio, possa essere invece costituzionalmente irrilevante, risolvendosi in un generico interesse agli affetti.
Ulteriore aspetto da evidenziare è che la scomposizione tra l’ unità familiare della famiglia nucleare e l’ interesse agli affetti familiari proposta dalla pronuncia parrebbe essere valevole per i soli cittadini stranieri; ciò viene a ridimensionare fortemente le affermazioni universalistiche che, nelle sentenze del 1995 e del 1997, avevano negato la possibilità di distinguere la posizione dei cittadini da quella degli stranieri, e solleva comunque la necessità di argomentare perché ciò che per gli stranieri ha solo la natura di solo un interesse all’ affetto familiare, costituisce, invece, per i cittadini, un diritto fondamentale, meritevole di protezione ed assistenza al più alto livello dell’ordinamento.
La decisione tenta infine di integrare questa zoppicante argomentazione col richiamo di precedenti (le sent.n.n. 28/1995; 203/1997 che tuttavia paiono essere di tenore del tutto opposto:
“Come è stato affermato da questa Corte nelle sentenze n. 28 del 1995 e n. 203 del 1997, «la garanzia della convivenza del nucleo familiare» si radica «nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e in particolare, nell’ambito di questa, ai figli minori»; si è inoltre affermato che «il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sé, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell’unità della famiglia, sono […] diritti fondamentali della persona che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri»” Senonchè, le sentenze del 1995 e del 1997,e del 2000 come si è già avuto modo di rilevare, riconoscono nella garanzia della convivenza della famiglia un diritto fondamentale, specificando che questa garanzia diviene ancora più intensa allorché si connesse al diritto di mantenere, istruire ed educare i figli. Al contrario, la sent. 224/05, segue un itinerario del tutto inverso: essa limita la qualificazione di diritto fondamentale solo alla famiglia nucleare composta da coniuge e figli minori, escludendo le relazioni con figli maggiorenni e ascendenti.
La scomposizione tra “diritto alla unità familiare” e l’”interesse all’affetto” si traduce in un drastico ridimensionamento degli standard del sindacato di costituzionalità relativo al secondo. Lo standard, in questo caso, cessa di essere quello del bilanciamento con altri interessi di eguale protezione costituzionale ovvero con specifiche e motivate esigenze connesse alla vita democratica, identificandosi, secondo la sent. n.223/05, nella non manifesta irragionevolezza.
Più puntualmente, la successiva ordinanza n.464/05, nel riprenderne le argomentazioni, riferendosi alle censure mosse nella ordinanza di rimessione, viene a precisare “che la scelta del legislatore non può ritenersi lesiva né dell’art. 29, né dell’art. 3 della Costituzione, dato che tale ultimo parametro può ritenersi riferito agli stranieri soltanto laddove si deduca che la violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza involga diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo (sentenza n. 120 del 1967), ciò che è da escludere con riguardo al rapporto con i figli maggiorenni”. Sta dunque al legislatore soppesare, con un ampio margine di discrezionalità, l’interesse agli affetti degli immigrati, richiedendo eventualmente condizioni ulteriori rispetto quelle ordinariamente necessarie per il ricongiungimento (e cioè disponibilità di reddito e di alloggio adeguato e non pericolosità per la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico).

8. La sent. 224/05 e la ord. 454/05 non si limitano a distinguere tra diritto alla vita familiare e interesse all’affetto, nei termini che abbiamo riassunto, mandando immuni da censure le scelte restrittive operate dalla legge “Bossi-Fini” relativamente al ricongiungimento dei genitori anziani ai figli maggiorenni residenti in Italia, ma negli obiter dicta vanno oltre, formulando affermazioni che concernono i termini in cui dovrebbe svolgersi il bilanciamento relativo allo stesso diritto alla vita familiare (quello cioè riservato alla famiglia nucleare), che paiono segnare un progressivo scivolamento in basso dei parametri di sindacato.
A tal proposito, si rende opportuno confrontare i passaggi, tra loro concatenati, contenuti nella ord.n. 454/05, nella sent. 224/05 e nella ord. n. 232/01. Si legge dunque nella ord. n. 454/05:
“che in tema di ingresso in Italia di cittadini stranieri il principio del bilanciamento tra il diritto dello Stato a regolamentare l’ingresso in Italia e il diritto degli stranieri all’unità familiare, che rispetto al primo è di pari dignità e rango, è stato affermato anche in altra pronuncia di questa Corte (sentenza n. 232 del 2001)”.
La sent. 224/05 riporta:
“questa Corte ha già sottolineato come il decreto legislativo n. 286 del 1998 tuteli il diritto dello straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato a mantenere l’unità del suo nucleo familiare, prevedendo la possibilità del ricongiungimento familiare che, nella sussistenza delle condizioni regolate dall’art. 29, può essere chiesto in particolare per il coniuge e per i figli minori a carico; ed ha riconosciuto che il legislatore può legittimamente porre dei limiti all’accesso degli stranieri nel territorio nazionale effettuando un «corretto bilanciamento dei valori in gioco», poiché sussiste in materia un’ampia discrezionalità legislativa limitata solo dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli (ordinanza n. 232 del 2001)”;
la ord. 232/01 afferma:
“che come questa Corte ha già avuto modo di affermare, l’esercizio del diritto al ricongiungimento può essere sottoposto dalla legge a condizioni volte ad assicurare “un corretto bilanciamento con altri valori dotati di pari tutela costituzionale” (sentenza n. 28 del 1995), ed in particolare “alla condizione che sussista la possibilità di assicurare al familiare, con cui si opera il ricongiungimento, condizioni di vita che consentano un’esistenza libera e dignitosa” (sentenza n. 203 del 1997);
che in applicazione dei medesimi principî questa Corte ha costantemente affermato che il legislatore può legittimamente porre dei limiti all’accesso degli stranieri nel territorio nazionale effettuando un “corretto bilanciamento dei valori in gioco”, esistendo in materia una ampia discrezionalità legislativa limitata soltanto dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli (cfr. sentenza n. 353 del 1997”
In questa sequenza scalare di richiami si può cogliere la progressiva formazione di un corto circuito, che, singolarmente, porta al ribaltamento della proposizione iniziale, contenuta nella sent. 28/1995. (e cioè, il bilanciamento deve avvenire con valori dotati di pari tutela costituzionale), sostituita nella ord. 465/05 da una proposizione sostanzialmente opposta: “il diritto dello stato a regolamentare l’ingresso nello Stato ed il diritto al ricongiungimento familiare hanno pari dignità e rango”. In realtà la sentenza del 1995, ben cogliendo la valenza e, diremmo, la stessa ragion d’essere del diritto al ricongiungimento familiare, e cioè quella di costituire una porta di ingresso garantita, che non potesse essere chiusa o limitata solo brandendo le prerogative sovrane nella regolazione dell’ l’ingresso degli stranieri nello Stato, si era curata di precisare che le limitazioni del ricongiungimento non potessero mai scaturire da generiche finalità connesse alla regolamentazione dell’ingresso degli stranieri nello Stato, ma dovessero essere ammesse solo in quanto richieste dalla salvaguardia di valori parigrado opportunamente bilanciati. Ancor più nettamente, la sent. 376/2000 aggiungeva che il principio della protezione e dell’assistenza della famiglia ha la consistenza di un diritto umano fondamentale “cui può derogarsi solo in presenza di specifiche e motivate esigenze volte alla stessa tutela delle regole della convivenza democratica”. Tali consapevolezze, nella sequenza delle motivazioni sopra riportate, paiono essersi progressivamente appannate, fino a dissolversi completamente nella ord. 464/2005: infatti tale ordinanza mentre formalmente ribadisce la necessità di bilanciare il diritto al ricongiungimento con valori parigrado, di fatto finisce per azzerare il parametro, contrapponendo il diritto al ricongiungimento non più a valori cogenti di convivenza democratica, e come tali debitamente selezionati, ma ad un ancestrale quanto inarticolato Diritto dello Stato a regolamentare l’ingresso in Italia. Il diritto al ricongiungimento diventa così sempre meno inviolabile e sempre più legislativo, e come tale tutelabile nei termini della ragionevolezza riferibile alla generalità degli enunciati normativi, quale che sia la nazionalità del soggetto coinvolto[6]. Sicchè, la stessa nuova distinzione operata dalla ord. 464/2005 e dalla sent. 224/2005 tra diritto ala vita familiare e interesse agli affetti finisce, in effetti, per perdere pregnanza, dal momento che in ogni caso, il parametro si sindacato si risolve in quello (generale) della ragionevolezza.

9. In conclusione, il ricongiungimento familiare, concepito dalla giurisprudenza costituzionale in termini di inviolabilità, come un istituto compatto (anche se articolato in situazioni distinguibili), nelle prospettazioni più recenti, viene a scomporsi, sulla base di argomentazioni più allusive che convincenti, in un “nocciolo duro”, che coincide con i rapporti che si svolgono all’interno della “famiglia nucleare”, ed in altre “relazioni affettive”, pur rientranti nella sfera familiare, discrezionalmente apprezzabili dal legislatore, col solo limite della ragionevolezza. Ciò segna, inequivocabilmente, un arretramento e la riemersione di elementi marcati di differenziazione tra straniero e cittadino, nella stessa titolarità di diritti della personalità, da leggere nell’ambito nel moto oscillatorio tra fasi di espansione e fai di riflusso, spesso presente negli sviluppi normativi e giurisprudenziali relativi alla materia della immigrazione. Si deve aggiungere che nei nuovi indirizzi della Consulta é ben leggibile, benché inespresso, l’intento di operare un allineamento rispetto alle proposizioni, molto caute, contenute nella dir. 2003/86 sul ricongiungimento familiare (cui la motivazione non fa peraltro cenno), che ipostatizzano la logica del “nocciolo duro” della famiglia nucleare. La disciplina comunitaria, infatti, già nelle sue premesse afferma (cons.n.9) che “il ricongiungimento familiare dovrebbe riguardare in ogni caso i membri della famiglia nucleare, e cioè il coniuge ed i figli minorenni”, limitandosi quindi nelle sue disposizioni solo a facoltizzare gli Stati membri di autorizzare l’ingresso di ascendenti, purchè a carico ed in assenza di altri sostegni familiari nel paese di origine, e di figli adulti non coniugati e invalidi ( art. 4 co.2).
Sarebbe però errato assumere rassegnatamente questo arretramento concettuale (come si è già notato, la possibilità di graduare le condizioni del ricongiungimento, a seconda delle diverse situazioni, in base a specifiche e motivate esigenze, sussisterebbe infatti anche qualora il ricongiungimento fosse concepito, secondo l’originario indirizzo giurisprudenziale, come un istituto unitario), come un inevitabile prodotto dei tempi, nel contesto di società che stentano a governare i fenomeni migratori e che quindi considerano con diffidenza ogni istituto che possa aprire nuovi varchi di ingresso incontrollato nella “fortezza Europa”. E’ del resto lo stesso diritto comunitario ad indicare, sia pure nel differente contesto della disciplina della circolazione e del soggiorno dei cittadini della U.E., la possibilità di una prospettiva diversa: la dir. 2004/38, capovolgendo l’ottica restrittiva che contraddistingue la direttiva 2003/86 riguardante il ricongiungimento dei cittadini extracomunitari, infatti, nel caso dei cittadini comunitari, non solo individua con notevole larghezza i familiari che godono della libertà di circolazione e di soggiorno (oltre il coniuge e i figli minori, anche il partner di una unione registrata e gli ascendenti diretti a carico) (art.2), ma invita gli Stati membri ad agevolare l’ingresso ed il soggiorno tanto di ogni altro familiare, che sia convivente o a carico, o comunque necessiti di assistenza per motivi di salute, quanto al partner di una relazione stabile (art. 3 comma 2). Lo spostamento da un paese all’altro non deve cioè comportare, dunque, in questa prospettiva, la necessità di dolorose mutilazioni nella sfera degli affetti familiari, che vengono reputati meritevoli di rispetto anche quando esulano dall’ambito limitatamente “nucleare”. E poiché la percezione sociale e quindi anche giuridica del fenomeno familiare, nell’ambito di una società che intenda essere inclusiva e non segregante, non può che essere coerente, prescindendo dal titolo di cittadinanza di ciasceduno, si può dunque sperare e auspicare che le aperture in senso liberale oggi operate a favore dei soli migranti comunitari finiscano, prima o poi, per interessare anche i migranti extracomunitari. Resta però il rammarico per il fatto che la giurisprudenza costituzionale italiana abbia perso una occasione per confermare la sua capacità, gia mostrata in passato, di saper guardare in avanti, segnando viceversa un non lieve arretramento.

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[1] Sul ricongiungimento familiare v. G. Sirianni, Il diritto degli stranieri alla unità familiare, Quaderno n. 6 di Famiglia, Giuffrè, Milano, 2006; P. Bonetti, Profili generali e costituzionalistici; N.Zorzella, W.Citti. L. Miazzi, Profili sostanziali:la famiglia e i minori, in B. Nascimbene (a cira di) Diritto degli stranieri, Padova, Cedam,pp.861-868; A.Adinolfi,I lavoratori extracomunitari, Bologna, 1992, pp. 339-363.

[2] Per un quadro degli interessanti sviluppi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, v. R. Adam, Libera circolazione dei lavoratori e Accordo di associazione C.e.e. Turchia, in Giust. Civ., 1989,I, 505; F. Uccella, La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo su alcune tematiche di diritto di famiglia e suo rilievo per la disciplina interna, in Giur.it., 1997, pp. 125-139; L. De Grazia, Il diritto al rispetto della vita familiare nella giurisprudenza degli organi di Strasburgo:alcune considerazioni, in Dir. pubbl.comp.eur., 2002, 1071.

[3] V. Sirianni, op.cit., p.18 ss.

[4] Il profilo più vistoso dell’attrito tra le diverse concezioni è rappresentato dalla famiglia poligamica. Sul tema, v. A.Galoppini, Ricongiungimento familiare e poligamia, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2000, pp. 739-757; C. Campiglio, La famiglia islamica nel diritto internazionale privato italiano, in Riv. dir. int. priv. It., 199, p. 21 ss.; Cass. 2 marzo 1999, n. 1793, in Giust. Civ., 1999,I, 2695.

[5] Sulla sent. 203/1997 v. i commenti di C. Tripodina, Il diritto fondamentale del genitore extracomunitario al ricongiungimento col figlio minorenne e di L. Pasotti, Convivenza more uxorio e diritto dell’extracomunitario sl ricongiungimento con i figli, in Giur. It. 1998, pp. 205-207 e 414.416.

[6] Sul valore generale del limite della ragionevolezza, nelle situazioni involgenti gli stranieri, v. A.Pace, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, Padova, 2003, 313.