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da Il Manifesto del 9 aprile 2006

Nei cpt inglesi 2000 piccoli rifugiati

NICOLA SCEVOLA

LONDRA – Difficile pensare che un centro di detenzione sia un luogo adatto ai bambini. Ma anche in Gran Bretagna sembra che questa sia l’unica possibilità che lo stato sa offrire a chi è «colpevole » di voler fuggire da guerre o persecuzioni. Purtroppo il trattamento lascia spesso segni indelebili sul fisico e la psiche dei piccoli rifugiati che soffrono di depressione, problemi alimentari e insonnia in conseguenza dell’orribile esperienza vissuta. Secondo un gruppo di associazioni britanniche che si batte per la protezione dei bambini rifugiati, questo è quanto rischia di succedere agli oltre 2000 bimbi che ogni anno vengono rinchiusi negli Immigration detention centres, equivalente dei Cpt nostrani, appena varcate le frontiere dell’isola.
Per non essere diviso dalla famiglia, infatti, un minore su tre è costretto a «scontare» più di una settimana di detenzione – con alcuni di costretti a rimanere anche più di un mese. È molto difficile ottenere permessi dal governo per visitare i centri d’accoglienza, ma il cartello di associazioni – formato da Save the children, Refugee council e Bail for immigration detainees – ha raccolto testimonianze dirette che raccontano di situazioni di grave sporcizia, con bagni condivisi da più di 30 persone alla volta. «Ogni giorno ti controllano come se avessi ammazzato qualcuno», ricorda una rifugiata del Togo intervistata dal Refugee council. «Mi figlio piangeva sempre. Ha ancora gli incubi. Un anno dopo, ha ancora paura ogni volta che qualcuno bussa alla porta». In alcuni casi sono giunte anche testimonianze di episodi di colera. Certo non le condizioni più idonee a ricevere gente in fuga da situazioni già disastrate – tanto meno se sono soggetti particolarmente vulnerabili come i bambini. Secondo le associazioni, questo rappresenta una flagrante violazione della Convenzione internazionale sui diritti del bambino. Messo alle strette anche grazie alla pressione di un comitato parlamentare formato martedì scorso per indagare su possibili alternative al sistema attuale, il governo ha risposto ordinando una revisione delle procedure per le famiglie che richiedono asilo politico. Il provvedimento, però, non contempla alcuna assicurazione specifica sul trattamento dei minori. «La detenzione è una misura non necessaria, antieconomica e inumana – ha dichiarato Maeve Sherlock, direttrice del Refugee council – Ci sono alternative concrete che sono molto meno costose sia a livello finanziario che umano». In pratica, anziché un modello punitivo e standardizzato come quello usato oggi, le organizzazioni umanitarie suggeriscono di passare ad uno basato sulla fiducia, che si adatti caso per caso. Partendo dal presupposto che il bambino non può essere separato dalla famiglia, si può ipotizzare un sistema di strutture più aperte in cui le guardie dei centri detentivi sono sostituite da assistenti sociali, i quali, oltre ad accertarsi che gli immigrati seguano determinate procedure, possono anche dare loro assistenza per prepararli ad affrontare un’accettazione o un rifiuto della domanda di asilo. Lungi dall’essere un modello utopistico, quello suggerito dalle associazioni britanniche è un sistema già sperimentato con successo negli Stati Uniti, in Svezia e in Australia. Il concetto fondamentale è che, anziché, essere trattato come qualcuno che abbia commesso un reato, il richiedente asilo viene incentivato a seguire l’iter con metodi non impositivi. «Grazie all’efficacia del sistema personalizzato – assicura un portavoce dell’Unità svedese di volontari per il Rimpatrio – raramente in Svezia dobbiamo usare metodi coercitivi, anche nei casi in cui la domanda d’asilo è rifiutata».