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Gli abitanti delle foreste di Ceuta, Melilla e Oujda: sguardi verso l’Europa

Un viaggio che attraversa una frontiera, un pannello di metallo e filo spinato alto 6 metri, che separa la Spagna dal Marocco. Uno sguardo, il mio, che non potrà mai descrivere lo stato d’animo di chi, quando cala la notte, guarda verso le luci di Melilla e decide di saltare.

Ogni notte nella foresta di Nador, una delle province più povere del Marocco, la storia si ripete: centinaia di immigrati dell’Africa subsahariana guardano l’Europa sognando di porre fine ad un viaggio cominciato alcuni mesi, a volte anni, prima. Contemporaneamente ascoltano attenti tutti i rumori che li circondano: un albero che si muove può essere il segnale della presenza di uno o di più uomini. Solitamente non si tratta di presenze amiche, ma di militari marocchini che che li cercano per mettere la parola fine ai loro sogni, per rimandarli in mezzo al deserto o alla frontiera con l’Algeria in un accampamento militare: luogo in cui si può morire o ricominciare tutto da capo riprendendo la via per i dintorni di Melilla, costruire delle scale e aspettare nella foresta il momento giusto per saltare la “Valla” ed entrare in Europa. Il problema è che una volta varcata la frontiera non si può ancora chiedere il diritto di asilo, o meglio si potrebbe, ma spesso non si viene ascoltati. Bisogna raggiungere la prefettura nel centro di Melilla per chiedere l’autorizzazione per essere accettati al Ceti. Il percorso per arrivare fino al centro della città è difficile, soprattutto quando si è feriti, come è spesso il caso per coloro che attraversano la Valla, con la costante minaccia di essere arrestati e rispediti nuovamente nell’altro continente, quello da cui si fugge. Tutto ciò è ancora più paradossale se si pensa che il Ceti è in prossimità della frontiera e il fatto di obbligarli ad arrivare fino in centro è una chiara intenzione di rendere la corsa ad ostacoli più difficile, come se si trattasse di un videogioco.

Nei mesi passati, in settembre ed ottobre, molti migranti subsahariani sono riusciti a varcare la frontiera, altri hanno pagato con la vita. Il bilancio di queste giornate è drammatico: cinque persone uccise nella notte tra il 28 ed il 29 settembre ed altre sei persone uccise il 6 ottobre mentre tentavano di passare la frontiera di Melilla.

Da allora molte cose sono cambiate: numerose forme di sicurezza sono state adottate e messe in atto, si è cominciato a costruire una nuova frontiera a Melilla, un fossato a Ceuta e soprattutto sono stati distrutti i campi in cui i migranti si autorganizzavano insieme nell’attesa di varcare la barriera dei loro sogni.

Senza più una base come gli accampamenti, i migranti che ho conosciuto nella foresta di Mariwari, nella parte nord della frontiera, passano le loro giornate a scappare dai controlli dei militari marocchini che danno loro la caccia con i cani, come farebbero con un pericoloso criminale.

Adesso per i subasahariani è impossibile vivere in gruppi numerosi e sempre più difficile essere visitati dai medici e dai volontari delle associazioni. Dopo essere stati spinti giù dal monte Gourugu verso la zona del nord di Mariwari, dove ci sono più accamapamenti militari, i migranti sono costretti a vivere come se fossero invisibili, nascondendosi nella foresta fino al calar della notte quando possono uscire in cerca di acqua, ma facendo attenzione a non svegliare i militari che sorvegliano le fonti.

Se non riescono a ricevere visite da “amici” mangiano ciò che trovano nella foresta o corrono il rischio di andare fino alla montagna di immondizia di Nador, dove una volta alla settimana vengono gettati i rifiuti della città. E’ in tali circostanze che la settimana scorsa ho incontrato 15 ragazzi della Costa d’Avorio.
Una visita rapida, perchè poco dopo arriva una pattuglia di militari marocchini e si disperdono nuovamente nella foresta dalla quale li avevo visti arrivare. Uno di loro mi mostra le ferite subite quando è stato arrestato e portato in un accampamento militare nel sud del Marocco per un mese. Un altro mi racconta che ha lasciato il suo paese 4 anni fa ed è già stato espulso verso Oujda 14 volte. Un altro, Kebé, mi racconta delle difficoltà del vivere nascosti e della vergogna che prova quando chiama la famiglia per dire che non è ancora arrivato in Europa, famiglia che ha venduto tutto per pagargli il viaggio. I racconti si sovrappongono, chiedo loro se ci sono delle donne nel gruppo. No, non in questo gruppo, per le donne, dicono, è ancora più dura, non è la prima volta che una di loro viene violentata…. ma come facciamo a denunciare i fatti alle persone che li hanno commessi?

Il mio viaggio continua verso Oujda. La zona del no man’s land dove vengono abbandonati i subasahariani in transito verso il Marocco. Una volta abbandonati in questa zona non gli restano che due opzioni possibili: entrare in Algeria e rifare il percorso all’inverso in direzione del paese di origine, o seguire i pali della luce e tornare in tre giorni di marcia verso Melilla. Quasi tutti optano per la seconda possibilità e tornano verso Nador o si fermano a Oujda qualche giorno. All’inizio delle espulsioni i migranti si ritovavano per vivere, protetti dal rettore, nel campus universitario di Oujda. Lì era più facile non farsi riconoscere essendo mescolati alle migliaia di studenti africani dell’università. Adesso è molto più controllato dalla polizia, ed è stata messa una barriera che rende più difficile l’accesso al campus. Gli abiti appesi agli alberi mostrano che la loro casa si trova lì. Ibrahim vive lì da più di quattro anni, è il portavoce del gruppo francofono. Ibrahim ha lasciato il Benin quattro anni fa per andare in Europa a fare il calciatore, adesso la sua preoccupazione è come sopravvivere nell’anticamera del suo sogno. Ha già fatto 10 tentativi di scalvacare la Valla e tutte le volte è stato rispedito a Oujda.

Le donne – mi dicono – vivono nella foresta a fianco. Ma il problema è che molte di loro muoiono durante il parto: non c’è assistenza sanitaria per i subsahariani in Marocco, la legge non lo prevede, anche se di fatto vivono lì da anni. Spesso andare all’ospedale è un buon modo per farsi arrestare.

Il mio viaggio termina a Ceuta, l’altra città separata da una barriera di filo spinato. Lì scopro cosa succede nel momento in cui un migrante arriva alla frontiera e passa la barriera che per mesi ha rappresentato l’ostacolo per arrivare in Europa. Arrivo al Ceti, il centro di prima accoglienza che si trova sulla collina, lontano dal centro della città. Comincio a parlare con coloro che incontro all’esterno, la lingua di comunicazione è l’inglese, la maggior parte viene dal Bangladesh. La realtà mostrataci dal Ceti è quella di un flusso migratorio che riesce a passare la frontiera perchè una volta giunto in Marocco ha ancora 1000 euro per andare a Ceuta. Il problema è che con questi 1000 euro, dopo aver rischiato la vita in un’ imbarcazione di fortuna non si va più lontano del Ceti di Ceuta.

Paradosso per le persone che sono immigrate per lavorare e inviare i soldi alle famiglie, e non per restare degli anni in un centro di una città circondata dal mare e dal filo spinato. Venti di loro hanno ricevuto il permesso dell’HCR come richiedenti asilo. Gli altri vengono lasciati al centro fino a quando la Spagna firmerà degli accordi di riammissione con il Bangladesh o fino a quando riceveranno un permesso di uscita che aprirà loro le porte del mondo dei sans papiers in Europa.

A cura di Sara Prestianni
Traduzione dal francese a cura di Maria Petrucci