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Nord Africa – Le politiche europee viste dall’altra sponda del Mediterraneo

Intervista a Mehdi Lahlou, Istituto Naz. Statistica ed Economia Applicata di Rabat, Marocco

Da oltre 10 anni i rapporti tra l’Europa e i paesi del nord Africa sono scanditi da due dictat: la sicurezza europea e gli aiuti per lo sviluppo economico del Maghreb. Ma come vengono attuati questi principi, siglati in accordi transnazionali?

Qual è la ricaduta effettiva degli accordi di cooperazione sulle popolazioni locali? Il baratto sviluppo – controllo delle frontiere può beneficiare realmente le popolazioni e le economie dei paesi del Maghreb?

Abbiamo discusso di questi argomenti con Mehdi Lahlou, docente di Scienze Economiche e ricercatore per le Politiche dello Sviluppo nelle relazioni tra Unione Europea e Marocco presso l’Istituto Nazionale di Statistica e di Economia Applicata (INSEA) di Rabat.
Il prof. Lahlou passa in rassegna i paesi del Maghreb che hanno applicato alla virgola le direttive europee in materia di immigrazione e che in cambio hanno ottenuto solamente imposizioni neoliberali con cui è stata danneggiata l’autosufficienza di settori con maggiori potenzialità di rendita.

– Ascolta l’intervista a M. Lahlou in italiano
– Ascolta l’intervista a M. Lahlou in francese

Domanda: A partire dalla Conferenza “euromediterranea” di Barcellona nel 1995, l’Unione Europea ha ufficialmente avviato una politica di “collaborazione” con paesi del nord Africa finalizzata principalmente a trovare nuovi partner economici e nuovi mercati. Sempre di più negli ultimi anni viene però riproposto con insistenza il ruolo fondamentale dei governi del sud del mediterraneo anche nel contrasto dell’immigrazione irregolare.
Ci sono elementi di novità nel rapporto tra i due continenti e quali trasformazioni ci sono state sui fenomeni legati alle migrazioni?

Risposta: Gli elementi essenziali di questa novità sono di natura politica, riguardano le relazioni dell’UE con i paesi del Magreb e dell’Africa Sub-Sahariana perché da qualche anno l’UE applica l’esternalizzazione dei flussi migratori e cerca di costituire attorno allo spazio Schengen i cosiddetti “paesi sicuri”. Precedentemente i paesi sicuri erano i paesi ad est dell’Europa, che ora fanno parte dell’UE ma ora l’Europa dei 24 vede il Magreb come un insieme di paesi che potrebbero servire da corridoio di protezione rispetto agli immigrati irregolari provenienti dal Sub-Sahara.
Il numero dei migranti che si spostano verso l’Europa è rimasto stabile, circa 15 000 persone all’anno; quello che è nuovo sono le misure di sicurezza intraprese dall’UE specialmente a partire dal 2002 attraverso il sistema SIVE (Sistema di vigilanza integrato esterno). Queste misure non hanno bloccato i flussi migratori, ma hanno causato l’organizzazione di nuove filiere per traversare il Mediterraneo e due elementi lo dimostrano: in principio lo spostamento dal Marocco alla Libia delle rotte di partenza verso l’Italia e, in seguito, dopo i fatti di settembre nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, abbiamo notato un transfert di filiere organizzative che operano in Mauritania e che interessano soprattutto migranti provenienti dall’Africa Occidentale o dal Mali e che tentano di passare in Spagna dalle coste della Mauritania dirigendosi verso nord via mare per circa mille chilometri e passando dalle isole Canarie.
Questa novità di tipo mediatico si aggiunge ad elementi costanti, quali ad esempio la situazione allarmante dal punto di vista economico, sociale e politico dei paesi dell’Africa.

D: Che ruolo hanno i Governi magrebini rispetto alla tendenza europea, che esponeva prima, di esternalizzare la frontiera creando il corridoio di sicurezza? A suo avviso c’è un’ambiguità che nasconde complicità?

R: Per quanto riguarda il Marocco, a partire dal 2002 la politica marocchina in materia di immigrazione è condizionata da quella europea. Il Marocco ha cominciato da tempo a rispondere in maniera positiva a tutte le richieste dell’UE, tranne alla richiesta di campi di detenzione e raccolta migranti nel sud del Marocco e la richiesta di rimpatrio di migranti irregolari verso il sud del Sahara. Per il resto esaudisce punto per punto le richieste dell’UE in materia di politiche immigratorie: il rafforzamento di controlli per l’ingresso in Marocco, il rafforzamento di controlli per l’uscita dal Marocco, il rafforzamento degli strumenti di controllo nei porti, negli aeroporti e alle frontiere, ossia tutte quelle misure con cui si vuole compiere il processo di messa in sicurezza dei paesi di transito e fare del Marocco un paese di immigrazione dove i migranti possano fermarsi.
L’Algeria, ad esempio ha sempre sostenuto che i migranti che entravano nel proprio territorio si fermavano in Algeria e non transitavano verso l’Europa, ora, non solo ha
cominciato a chiudere le frontiere con il Niger ed il Mali, ma dallo scorso novembre ha anche cominciato a fare rimpatri massicci verso l’Africa Sub Sahariana. La politica dell’Algeria, anche se meno mediatizzata, è diventata molto simile a quella del Marocco.
Per quanto riguarda la Libia, lì c’è un’ambiguità importante. Innanzitutto c’è una complicità con l’Italia per quanto riguarda i campi di concentramento e il controllo delle frontiere a sud e a nord del paese, ma soprattutto bisogna considerare che la Libia non è uno stato di diritti, le autorità libiche sono conosciute in tutta l’Africa per non rispettare i diritti umani. Ecco il contrasto con una politica Europea che si mostra rispettosa dei diritti umani e che firma accordi di cooperazione in materia di immigrazione proprio con la Libia.
La Tunisia ha lo stesso comportamento del Marocco. Ha risposto alle richieste europee con l’adozione, nel febbraio 2004, di una legge ancor più restrittiva per gli stranieri di quella del Marocco.
C’è poi la Mauritania, che permette l’arrivo dei migranti sul proprio territorio per cercare sia di bloccare l’emigrazione verso le coste canariane, sia per istituire, come successo lo scorso 18 marzo – dei campi di detenzione a Nuadibopu per recludere e contenere gli immigrati irregolari che la Spagna respinge verso i territori africani.
Le autorità ufficiali marocchine applicano ciò che l’Europa chiede in materia di politica immigratoria, ma la sola differenza tra il Marocco ed i paesi del Nord Africa è che in Marocco c’è un’opinione pubblica, della società civile e dei partiti dell’opposizione che denunciano le politiche delle autorità e la politica di esternalizzazione dei flussi migratori verso l’Europa e che sostengono i migranti irregolari marocchini e non, e che chiedono che le politiche immigratori dei paesi nord africani ed europei non siano basate sugli aspetti securitari ma sul rispetto dei diritti umani e sulle cause economiche e sociali dell’immigrazione.
A mio avviso è importante sottolineare proprio che il Marocco è l’unico paese del Magreb dove c’è una società civile e dei partiti politici tanto presenti nel denunciare le politiche immigratorie ufficiali e nel dire che altre soluzioni sono possibili, sostenendo i migranti e proteggendoli dalle violenze continue da parte delle forze di polizia marocchine e delle mafie africane che gestiscono i traffici, ma anche dalle organizzazioni e dalle polizie spagnole ed italiane.

D: Ha affermato che il Marocco non ha predisposto centri di permanenza temporanea sul proprio territorio.

R: Esattamente. Dopo gli avvenimenti dello scorso ottobre-novembre nella valla di Ceuta e Melilla, le autorità marocchine erano sotto pressione per il numero di migranti che erano stati arrestati e per le continue richieste delle autorità spagnole di essere protette dagli assalti degli stranieri ai muri della frontiera. Sono state rimpatriate circa 3000 persone verso Senegal, Mali ed altri paesi e per quelle operazioni hanno fatto ricorso all’internamento in campi militari per il tempo necessario alla preparazione delle espulsioni. Da quanto mi risulta non esistono campi di detenzione permanenti ed ufficiali dove i migranti sono reclusi e tenuti come prigionieri in attesa che le richieste di asilo siano esaminate o che siano identificati per l’espulsione come nel caso della Libia o dell’Egitto.

D: Soffermiamoci adesso sulla situazione economica. La produzione del discorso ufficiale e mediatico, soprattutto in Italia, fa ampio uso del ritornello di aiutare questi popoli a casa loro. Come si traduce nel concreto questo principio sul piano degli accordi d’associazione e di cooperazione bilaterale, in altre parole sul piano dell’aiuto allo sviluppo che, almeno sulla carta, costituisce uno degli obiettivi della Conferenza di Barcellona del 1995 e che dovrebbe condurre alla costituzione di una Zona di Libero Scambio nello spazio Euromediterraneo nel 2010?

R: Il mio punto di vista è che l’aiuto allo sviluppo è una grande ipocrisia, quello che l’UE regala con la mano destra lo riprende poi con la sinistra.
Da un’analisi dei fondi che sono stati “accordati” dall’Unione Europea per lo sviluppo dell’Africa si nota che nei piani strategici proposti a fine 2005 i fondi sono passati da 5 miliardi di dollari del 1995 a 15 miliardi nel 2003. Ma bisogna considerare che nel 1993 l’UE era composta da soli 12 paesi, poi è passata a 15 e oggi addirittura a 25, inoltre è diventata cinque o sei volte più ricca di quanto non lo era nel ’95. Al contrario, la miseria e la crisi economica in Africa è diventata molto più importante e grave, anche grazie a politiche europee nel settore dell’agricoltura e per via delle politiche stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Ne risulta una posizione di marginalizzazione estrema delle necessità dell’Africa. Al contrario, lo sviluppo dell’Africa necessita innanzitutto di tre fattori: la circolazione delle risorse all’interno dell’Africa, l’instaurazione della democrazia e del buon governo nei paesi del sud Sahara ma anche dello stesso nord Africa, un investimento delle risorse estere più consistente di quelle di oggi. Attualmente l‘Africa riceve meno del 2,5 per cento degli investimenti diretti stranieri e comunque questi investimenti non vanno nei settori che creano impiego o ricchezza, ma sono indirizzati a settori sotto il controllo del monopolio pubblico e quindi del Governo come l’acqua o l’energia, o a settori che non sono concorrenziali e che comunque sono collegati al monopolio pubblico come quelli della comunicazione. Al contrario non si riscontrano investimenti europei nel settore dell’automobile, del tessile o nei servizi alberghieri, dove potrebbero produrre ricchezza diffusa.
Di fatto gli investimenti esteri producono più profitti per i paesi stranieri che per i paesi africani. Secondo l’ultimo rapporto prodotto nell’ottobre 2005, ogni volta che c’è un investimento estero, il 65% del valore aggiunto legato a questo investimento esce dall’Africa per andare nel paese che ha investito. Il problema non è tanto riconfigurare questi aiuti, che al momento sono di fatto una semplice assistenza di tipo sociale, ma riconoscere che oggi l’Africa è in crisi economica e finanziaria, che bisogna mettere in opera delle difese strutturali, un vero e proprio piano Marchal di sviluppo economico e sociale per tutto il continente africano per aiutare e sostenere le politiche per l’industria e per fare in modo che paesi come il Burkina Faso, il Mali, il Niger, la Guinea siano veramente aiutati ad uscire dalla crisi attraverso fondi grossi, trasferimento di tecnologie e di quadri per dirigere questo sviluppo.
In conclusione la costituzione di questa zona di Libero Scambio non ha beneficiato l’Africa del nord. Ad esempio, per quanto riguarda il Marocco, gli accordi successivi alla Conferenza di Barcellona avrebbero permesso la costituzione di una Zona di sviluppo e partecipazione condivisa grazie ad una facilitazione del commercio tra il Magreb e l’Europa e grazie all’aumento degli investimenti diretti in Magreb e soprattutto in Marocco. Per quanto riguarda il Marocco, si constata invece che gli investimenti europei sono stati marginali, basta citare il caso della Francia – maggiore investitore in Marocco – i cui investimenti rappresentano appena lo 0,15% dell’insieme degli investimenti francesi all’estero.
Come dicevo prima, si tratta di presenze nel settore delle telecomunicazioni, dove la Francia ha acquistato la parte più grossa del capitale di Maroc Télécommunications o delle grandi compagnie di distribuzione di acqua ed energia elettrica nelle campagne e nelle principale città del paese. L’anno scorso il tasso di crescita del Marocco è stato del 1,8% e il tasso di povertà del Marocco si situa oggi al 25% della popolazione. Affinché il Marocco esca dalla crisi e veda diminuire la disoccupazione, dovrebbe realizzare per un lungo periodo un tasso di crescita del 7-8% all’anno.
L’altro elemento importante riguarda il commercio estero del Marocco. Il deficit commerciale del Marocco rispetto all’Europa e rispetto al resto del mondo è cresciuto 4 volte dal 1992 al 2005, ciò significa che oggi quando il Marocco importa due euro, esporta meno di un euro, mentre alla vigilia della firma degli accordi di associazione con l’UE il saldo della differenza tra import ed export era solo dello 0,65%. Come vede non sono stati prodotti gli effetti positivi attesi dagli accordi di associazione siglati nel 1996 tra UE Marocco in seguito alla Conferenza di Barcellona con l’obiettivo di consolidare una ZLS.
La stessa situazione, leggermente meno marcata si riscontra in Tunisia.

D: Le testimonianze raccolte durante la Carovana europea a Ceuta ci hanno riportate un’atteggiamento razzista tra la popolazione locale nei confronti degli abitanti stranieri, che sono in realtà meno dell’1% della popolazione. Conferma questo dato?

R: Anche nel nostro paese i media ufficiali e di governo incitano alla paura, agitando il termine “invasione” o “aumento sconsiderato” degli immigrati. Questa levata di sentimenti razzisti è stata finalizzata proprio all’adozione della legge sull’Immigrazione, promulgata nel novembre 2003 e per accompagnare le azioni condotte dalle autorità di polizia e di sicurezza a beneficio della sicurezza dell’Europa. A parte questo non c’è un sentimento razzista nella società marocchina, innanzitutto perché i cittadini marocchini che vivono all’estero sono 3 milioni e poi perché ci sono relazioni culturali molto forti con i paesi sub sahariani.

D: Quali sono invece le condizioni di vita degli immigrati in Marocco, che sono meno dell’1% della popolazione?

R: Se consideriamo ad esempio il diritto alla salute, possiamo quasi dire che c’è un’uguaglianza! Infatti solo il 15% della popolazione marocchina ha accesso alle cure mediche. Attualmente se un malato non ha un certificato di indigenza rilasciato dalle autorità pubbliche e locali, non ha nessuna possibilità di essere ricevuto in un ospedale, allo stesso modo una donna povera di una zona rurale in gravidanza ha veramente pochissime possibilità di accedere all’ospedale in tempi brevi per partorire e ancora, se un cittadino marocchino non ha una copertura medica è difficile che possa ottenere una visita specialistica. Per comprenderne le ragioni basta ricordare che la spesa pubblica e privata del Marocco per la salute non supera i 7 euro per abitante all’anno, mentre circa 5 milioni di marocchini vive con una spesa inferiore a 35 centesimi di euro al giorno. In generale l’accesso di un cittadino marocchino ai diritti politici e sociali è estremamente ridotto, in base a questo si può velocemente immaginare quali siano le condizioni di vita degli abitanti stranieri.

A cura di Neva Cocchi, redazione Melting Pot Europa