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Tratto da interno.it

Immigrazione, terrorismo, sicurezza, lotta alla mafia: le linee guida del Ministro dell’Interno Giuliano Amato

Trascrizione dell'intervento tenuto dal Ministro dell'Interno Giuliano Amato il 20 giugno 2006

CAMERA DEI DEPUTATI
COMMISSIONE I AFFARI COSTITUZIONALI

Ringrazio i colleghi che sono qui numerosi in una giornata senza aula, da vecchio parlamentare lo apprezzo molto.
Oggi per il Ministro dell’Interno, e credo anche per il Parlamento della Repubblica, è una buona giornata. Perché, come ormai sapete, nel corso della notte è stata avviata e quasi conclusa un’operazione anti-mafia denominata Ghota. Il nome questa volta è ben trovato, ahimè, perché sulla base degli elementi che si erano potuti raccogliere dopo l’arresto di Provenzano, e anche di altre indicazioni, è stato possibile localizzare i maggiori personaggi non solo delle due famiglie che avevano già iniziato a contrapporsi ai fini della eredità, ma anche tutto un contorno. Si è potuto anche verificare il regime transitorio in cui stavano vivendo, essendovi una sorta di governo di fatto imperniato su tre persone. Fatto sta che sono coinvolti personaggi come Rotolo, Cinà ed altri (Rotolo, di sicuro lo ricordate, era stato da poco condannato all’ergastolo per partecipazione attiva a crimini gravissimi ed omicidi). In tutto sono 52 i provvedimenti restrittivi da eseguire, tre ore fa ne erano stati eseguiti oltre 45.

Giustamente il Procuratore Nazionale Antimafia Grasso ha anche sottolineato l’apporto che le tecnologie possono dare a questo tipo di operazioni, perché una serie di informazioni sono state acquisite in modo particolarmente innovativo. Di questo sono particolarmente contento.
La lotta alla mafia, purtroppo per il nostro Paese, è da anni – e continua ad essere – una priorità per chi fa il lavoro che ora mi è stato affidato e per il Paese intero, in realtà, e quindi anche per tutti voi. Sappiamo che non riusciamo mai, dopo ogni battaglia vinta, a dire abbiamo vinto la guerra. C’è sempre lavoro da fare. Però questi sono passaggi molto importanti. E secondo me la cattura di Provenzano, per ciò che era stato e che continuava ad essere, e tutto quello che ne sta venendo fuori, ci danno a dir poco una posizione di significativo vantaggio per il futuro. Con tutto quello che ne consegue, per la Sicilia e per la sua vita democratica. Perché noi sappiamo cosa significa: non soltanto prendere delle persone dedite ad attività criminali isolate dal contesto del resto della vita di quella società, ma eliminare delle cellule cancerogene che tendono a produrre metastasi varie in quella società, che entrano nella gestione della cosa pubblica, che entrano con intimidazioni ed altro nella vita privata di chiunque svolga un’attività economica in proprio. Significano, queste operazioni, dare respiro, restituire ossigeno alla vita democratica della Sicilia, che ha bisogno di più, ma che oggi, almeno, comincia ad avere questo.

Io ho vissuto per anni più o meno dentro lo Stato, o ai bordi del medesimo, ma questa esperienza del Ministro dell’Interno non l’avevo mai fatta. Ed è un’esperienza molto, molto impegnativa anche sul piano umano, oltre che su quello tecnico e politico. A volte mi è capitato nello Stato di fare cose che in sé sono astratte e che poi producono effetti concreti in modo indiretto. Per questa ragione ho sempre in qualche modo invidiato i sindaci e gli amministratori locali che fanno cose in grado di produrre – o non produrre – immediatamente un effetto. Ecco, facendo il Ministro dell’Interno ho la sensazione che posso concorrere, non solo ad impostare delle politiche, ma a realizzarle anche. Questo mi dà un senso particolare di responsabilità e di impegno, che ho trovato del resto condiviso da questa Amministrazione.
Mi ha colpito la solidità dell’Amministrazione dell’Interno, così come l’ho trovata. Un’Amministrazione nella quale è forte una cultura coerente con i valori costituzionali e con la vita democratica, una cultura nella quale la percezione che la missione principale è la sicurezza non va mai disgiunta dalla percezione che ci sono le libertà e i diritti dei cittadini che certo la sicurezza difende ma che, al di là di un certo limite, la sicurezza può mettere a repentaglio. E questo equilibrio mi ha molto colpito sul terreno della sicurezza, ma anche sul terreno delle politiche – e della loro realizzazione – che riguardano quello che io considero il tema epocale che un ministro dell’Interno si può trovare ad affrontare: il tema dell’immigrazione, su cui tornerò subito.

Permettetemi, prima, di dire che questa Amministrazione, che tanto mi ha colpito in positivo, deve fare i “conti con i conti”. E fare i “conti con i conti” oggi è tutt’altro che facile e rende a volte precaria anche la vita quotidiana di una Amministrazione solida come quella degli Interni. Io non posso, e l’ho già fatto col ministro dell’Economia, non esprimere il disagio nel quale ci si trova quando si deve constatare che il controllo della spesa è stato impostato in termini largamente di tetti alla cassa prescindendo dagli impegni ai quali la cassa deve corrispondere. Il che finisce per determinare inesorabilmente debito sommerso, perché ridurre la cassa molto spesso significa, non ridurre la spesa, ma postergarla. Io l’ho fatto il mestiere di ministro del Tesoro, e so che spingere le Amministrazioni a comprimere la cassa le porta a fare di necessità virtù, a cercare di compensare un capitolo con un altro, a cercare di risparmiare, quindi è anche utile far fare di necessità virtù, ma quando la necessità supera un certo livello non c’è virtù cavarne alcunché.
Così io mi sono trovato con delle caserme della Polizia morose da mesi dell’affitto, quando fossero in locazione, mi sono trovato come ministro dell’Interno moroso nei confronti dell’Enel, o di altri enti erogatori di energia elettrica. Questo finisce per rendere precaria la vita. Anche l’Amministrazione degli Interni è costretta ad avvalersi di precari, e chiunque si avvalga di precari diventa precario esso stesso nelle cose che finisce per fare. Abbiamo problemi di politiche e di diritti umani di grande rilievo che vanno ad annodarsi attorno ai tempi necessari per riconoscere la cittadinanza, ai tempi necessari per dare o rinnovare i permessi di soggiorno o la carta d’identità elettronica. Le Prefetture si avvalgono di lavoro interinale quando riescono ad averlo, e di poche persone. I Vigili del Fuoco che sono, ho scoperto, oltre che uno dei corpi più amati dagli italiani, anche carichi di funzioni che vanno al di là dello spegnere gli incendi – e questa già di per sé è una funzione tutt’altro che marginale – si avvalgono di volontari che, soprattutto nel mezzogiorno, spesso diventano precari in assenza di altre fonti di reddito. Questo è un problema che abbiamo davanti.

Anche attraverso le tecnologie cercheremo di migliorare queste situazioni. Stiamo lavorando perché tutti i nostri documenti – i permessi di soggiorno, i passaporti, le carte d’identità elettroniche et similia – possano essere al più presto affidate a sportelli unici presso i Comuni in cui noi mettiamo qualcuno dei nostri. Questo è un lavoro già avviato, non voglio assumerne il merito, perché vi sono già alcuni Comuni pilota in cui lo si fa. Così le tecnologie potranno alleggerire i problemi, ma è certo che oggi siamo in consistente difficoltà. Ci saranno problemi pratici che vi sottoporrò anche in futuro. Ve ne dico uno che il mio predecessore non può non avervi segnalato. Quando decidemmo già due legislature fa di abolire la leva obbligatoria e di passare al servizio volontario, decidemmo, per incentivare i giovani e le giovani ad andare a spendere parte della loro vita nell’esercito, di assicurare loro un transito successivo in altre amministrazioni. Questo congegno ha fatto sì che di fatto l’unico canale di approvvigionamento consentito dalla legge oggi per la Pubblica Sicurezza sia quello. Non va bene. Non va bene non perché questi ragazzi e queste ragazze non vadano bene, ci mancherebbe altro, ma perché la formazione di un agente di pubblica sicurezza non è la medesima di un giovane che si addestra all’attività militare. E noi poi abbiamo bisogno di un training successivo che presenta dei costi. Quindi un qualche equilibrio tra i canali di approvvigionamento, non dico di chiudere quello ci mancherebbe altro, ma un qualche equilibrio qui andrà trovato.

Come dovremmo parlare e riparlare del tema eterno del coordinamento delle forze. Non c’è dubbio che la legge che ha reso l’Arma autonoma sottolinea ancora di più la necessità di assicurare la dipendenza funzionale dal Ministro dell’Interno per quanto attiene ai compiti di sicurezza pubblica, che è oltre il 90% della attività dei Carabinieri.
Io apprezzo moltissimo, e mi ha fatto sempre piacere vedere, come nel contesto internazionale sia apprezzata la doppia valenza dei nostri Carabinieri, che sembra una qualità che pochi altri al mondo posseggono. Indubbiamente nelle missioni di pace si esalta questa doppia qualità, perchè c’è un profilo inesorabilmente militare in certi casi che però si accompagna ad un profilo di tenuta della sicurezza e dell’ordine sul piano civile. Questa duplice capacità del nostro Carabiniere è una grande virtù. Detto questo, sul piano interno, almeno per nostra fortuna, la componente assolutamente prevalente è quella civile che fa capo al Ministro dell’Interno, devo dire che ad esempio ieri il Presidente Cossiga ha presentato un disegno di legge proprio su questi temi nei quali ci sono alcune sottolineature, delle implicazioni della dipendenza funzionale che meriterà vengano valutate dal Parlamento.

Come vi dicevo poco fa il grande tema del nostro tempo, perché ha dei profili davvero che sgomentano, è il tema dell’immigrazione. Il tema dell’immigrazione che è legato ad un fenomeno di per sé inesorabile e col quale siamo destinati a convivere: i giganteschi dislivelli di reddito tra pochi Paesi mediamente ricchi e la maggior parte degli altri esseri umani che vivono in tanti altri Paesi porta verso quello che noi italiani chiamavamo per noi il cammino della speranza, porta migliaia e migliaia di persone ogni giorno, ogni anno, ad aspettarsi la possibilità di vivere meglio dove si vive meglio, porta africani, cinesi, asiatici a prendere la rotta della immigrazione che nel secolo scorso era quella degli italiani, degli irlandesi, dei polacchi verso gli Stati Uniti.
Da un lato molti dei nostri Paesi non sono abituati, come sono abituati gli americani, a questi flussi. E quindi a gestirli. Ma al di là di una certa dimensione anche gli americani lo avvertono come un problema.

Io in occasione del G8 sulla sicurezza di Mosca della scorsa settimana ho discusso proprio con i miei colleghi americani di come si fronteggiano questi grandi flussi quando superano una certa dimensione. E’ un fenomeno biblico. Quando ne ho parlato con Pisanu, persona di straordinaria sensibilità, lui mi ha detto: “Guarda Giuliano, a me hanno dato addirittura questo numero, anche se sembra un numero da non credere, che nell’attraversata del deserto che porta verso i porti libici, delle migliaia e migliaia di persone che vengono dal Corno d’Africa, dai Paesi sub sahariani e anche dall’Asia, in Libia ne arrivano uno su cento”. Questo è un numero davanti al quale si resta annichiliti. Annichiliti. Può darsi che sia eccessivo, può darsi che siano dieci su cento, può darsi che siano venti, trenta su cento, ma il deserto sta diventando un gigantesco ossario di persone che cercano solo di vivere meglio da qualche altra parte. Persone che hanno rinunciato a tutto nel loro Paese, che hanno venduto il letto o quel poco che avevano, per rimediare quei 2.000 euro, 2.000 dollari per le organizzazioni criminali che organizzano questi viaggi esponendoli a questi rischi di vita, rischi che si rinnovano poi nel Mediterraneo, dove a volte entrano su una nave e a metà del tragitto vengono scaricati su una barcaccia abbandonata a se stessa che potrà arrivare o non arrivare a Lampedusa o in altri porti siciliani. Altri seguono altre rotte, la rotta esterna Mauritania che raggiunge poi la Spagna. Quelli che arrivano da noi quindi sono una esigua minoranza. Dobbiamo essere consapevoli di questo.

Noi dobbiamo combattere l’immigrazione clandestina perché certo c’è un limite alla capacità di assorbimento dei nostri Paesi, ma in primo luogo perché è organizzata da dei delinquenti che in realtà sfruttano le aspettative di brave persone, che le mischiano a persone meno brave e che quindi non debbono avere da noi nessun incoraggiamento nel continuare questa loro attività. Ma non perché essere immigrato clandestino è di per sé essere un delinquente, di questo dobbiamo essere consapevoli. A volte nei flussi di immigrazione clandestina si infilano i delinquenti, ne profittano, e arrivano. Ma non è necessariamente così, e molto spesso non è così.
E’ davvero fonte di sofferenza, poi, quando questi arrivano, doverli rimandare via, e voi li dovete rimandare via, lo dovete fare, ma l’animo con cui li trattate non deve essere l’animo di chi sta trattando con un criminale del quale si libera. Voi state trattando con persone come erano i nostri nonni, i nostri zii, i nostri bisnonni che arrivavano a Staten Island.

Ho letto in questi giorni un libro di un mio ex studente che ora fa il giornalista per la televisione. Lui è andato a ritrovare brani del tardo ottocento e del primo novecento sulla emigrazione italiana, brani che a volte sono di bravi sacerdoti che accompagnavano questi nostri antenati sfortunati, e in questi brani trovate descrizioni che corrispondono esattamente a quello che accade oggi, compresi i morti durante la traversata. Non erano diversi quegli emigrati da quelli di oggi. Ora dico questo – ed è una cosa che ho visto con piacere fortemente condivisa nel G8 di Mosca al quale ho partecipato, dove, se leggete il documento finale, le fattispecie di reato che vengono messe a fuoco quando si parla di immigrazione clandestina non sono quelle del terrorismo, che stanno in un altro capitolo particolarmente importante, ma sono il traffico di esseri umani, la tratta di donne e di minori – noi non combattiamo in realtà l’immigrato clandestino, povero cristo, lui è la vittima del reato, e tuttavia dobbiamo espellerlo.
Dobbiamo espellerlo, dobbiamo non farlo entrare (non si tratta neanche tecnicamente di espulsione) perché non possiamo consentire alle organizzazioni che sono dietro questi traffici di cogliere una luce verde in ciò che fanno in Europa e nel nostro Paese.

La cooperazione è fondamentale, ed è fondamentale che cooperazione vi sia non soltanto tra i nostri Paesi (e ora comincia ad esserci grazie anche al terzo pilastro, oggi area di giustizia, libertà, sicurezza comune, siamo in grado di organizzare un lavoro comune, in primo luogo in sede Europea, e Frattini si adopera molto in questo senso), ma anche con i Paesi di transito e con i Paesi di provenienza. Perché, insomma, quando vi arriva qualcuno, e voi dovete sapere dove lo rimandate, non necessariamente ha senso rimandarlo nel Paese da cui sta in quel momento venendo, lo dovete rimandare nel suo Paese di provenienza. Non è facile identificarlo: queste persone spesso arrivano senza documenti, e se hanno il documento lo mangiano per essere meno riconosciuti, impauriti da un clima che ignorano, da un Paese in cui vanno ma di cui non capiscono molto spesso la lingua e noi non capiamo la loro.
E allora c’è tutta un’operazione difficile di identificazione e, successivamente, di rientro che ha bisogno di un’ampia collaborazione. Questa collaborazione ha diversi presupposti e qui è chiaro che questa lotta si innesta in altre lotte. La prima è la lotta contro la povertà. Non voglio fare retorica, ma è assolutamente ovvio che è così. Nei Paesi sub sahariani, ma anche nello stesso Egitto. Io ho parlato più volte in questi giorni con gli egiziani: l’Egitto ha un tasso demografico elevatissimo e quindi produce giovani che entrano annualmente a centinaia di migliaia su un mercato del lavoro ristretto, ed è naturale che cerchino di andare a trovare lavoro da un’altra parte, che premano. Ebbene, gli egiziani ti chiedono: il processo di Barcellona a che punto è? La cooperazione per lo sviluppo della piccola e media impresa in Egitto sul modello adriatico che a noi interessa tanto a che punto è? Quanti immigrati legali siete pronti ad accettare? Perché se voi non accettate immigrazione legale diventa più difficile per noi concorrere con voi nel combattere l’immigrazione illegale.

E quindi è una rete che si viene a costituire con questi Paesi. Una rete che è fatta insieme di intelligence e di aiuto economico, di cooperazione consolare, diplomatica, di tante cose. Ma poi arrivano, comunque ne arrivano di illegali e vi trovate con grande angoscia d’animo davanti a un tema come quello dei centri di permanenza temporanei. La legge in sé è molto chiara: se c’è qualcuno che chiede l’asilo lo dovete separare, metterlo nel centro di accoglienza e a quel punto verificare le ragioni della richiesta dell’asilo che, ove accertate, comportano per ragioni costituzionali e di convenzioni internazionali l’accettazione della richiesta stessa, altrimenti no.

E gli altri? Gli altri dovete identificarli, e quindi li dovete trattenere da qualche parte per identificarli. Questa è la regola comune dei nostri Paesi europei, sembra ingenuo pensare che vi possano essere altri modi per poter accertare di chi si tratta. Lo dovete fare sia perché dovete sapere chi è per poterlo rimandare al suo Paese e non in un altro, sia perché potrebbe trattarsi anche di un delinquente che va separato dalle persone perbene che sono lì come vostro nonno a Staten Island.

Devono esserci, però, condizioni di sicurezza e condizioni di vivibilità. Non devono essere carceri anche se sono luoghi nei quali le persone vengono trattenute. E’ difficile muoversi sul crinale di tutto questo, e noi ci dovremmo impegnare per farlo nel modo migliore possibile da entrambi i punti di vista. Proprio per questo ho annunciato la nostra intenzione di costituire una commissione che sia fatta da una parte minoritaria da persone dell’Amministrazione, e da una parte maggioritaria da persone esterne e da persone che lavorano nel mondo del volontariato. Uomini e donne che sono abituati ad intrattenere rapporti con coloro che arrivano, disgraziatamente per loro in primo luogo, in quelle circostanze nel nostro Paese; uomini e donne che vadano a guardarli questi centri, ispezionarli, a vedere come sono, come funzionano, e nel giro massimo di sei mesi possano riferire a noi cosa hanno trovato, che proposte fanno, e io possa venire da voi a discutere insieme tutto questo.
Non c’è dubbio che un episodio come quello di Torino di due settimane fa è la prova proprio delle difficoltà che si incontrano, che sono oggettive. Quelle erano persone che stavano lì da nove giorni, non ci stavano poi da molto, però quelli che hanno organizzato la protesta, che poi ha portato alla fuga, erano dei pregiudicati, che risultavano confusi tra gli altri, ma nessuno aveva ancora avuto il modo di accertarlo. In più, in quel caso, si sono manifestate difficoltà per i turni fatti di poche persone, perché non ci sono i soldi per averne di più, e comunque vorrei sottolineare che nella circostanza l’unica vittima della vicenda è stato il funzionario di pubblica sicurezza che ci ha rimesso i denti sui quali è arrivato dritto un pietrone utilizzato da uno di quelli che se ne stavano andando.

Bisognerà migliorare. L’avrete letto sulle agenzie che proprio ieri c’è stata la cerimonia di cessione al demanio della Caserma Adorno di Lampedusa che ci permetterà di migliorare le condizioni sull’isola, separando anche meglio il centro di assistenza dal centro di permanenza temporanea, centri che a volte sono di fatto confusi, e non dovrebbe accadere.
Per concludere sui flussi vi posso dire che tra pochi giorni si svolgerà a Rabat una conferenza promossa dagli spagnoli che sono rimasti un po’ scioccati dalla entità dei flussi che stanno arrivando (qui più che i cambi politici nei Paesi incidono i cambi stagionali: il mare è migliore d’estate, il ghibli che spinge più facilmente anche le barcacce, tanto è vero che i flussi che da noi quest’anno sono aumentati già nel periodo febbraio-maggio rispetto allo scorso anno sono aumentati ancora di più in Spagna) lungo la rotta esterna. Quella di Rabat sarà una conferenza alla quale partecipiamo in diversi stati europei e stati magrebini, per testare un meccanismo di controllo navale esterno. Io personalmente sono piuttosto scettico, perché fare un controllo sulla costa dell’Atlantico non è come quello che noi con efficacia potemmo fare a Valona con la nostra Guardia di Finanza che doveva controllare l’uscita di pochi scafi veloci o dal porto di Valona o dalle insenature circostanti. Però l’impegno comune europeo è già un primo risultato. E noi stiamo lavorando per concretizzare l’ipotesi, di cui da tempo si parla, di una iniziativa congiunta tra Unione europea e Unione africana, in modo da avere un coinvolgimento più ampio, che metta in gioco sia i Paesi di transito sia i Paesi di provenienza, sia tutti i Paesi di destinazione. E su questo tema della cooperazione per fronteggiare i flussi di immigrazione irregolare, evidentemente, non possono essere coinvolti solo i Ministri dell’Interno, c’è da affrontare la questione più ampia dell’aggiornamento di Barcellona per la costa nord dell’Africa, delle politiche bilaterali e multilaterali di sviluppo, della formazione. E deve esserci anche un ruolo dell’intelligence, perché questa conta veramente molto.

L’immigrazione poi è un grande tema anche quando è regolare. E quando in un modo o nell’altro l’immigrato vive nel nostro Paese. Sappiamo che sono ormai molti, sono forse prossimi ai tre milioni, di sicuro più di due milioni i regolari. Abbiamo sul territorio nazionale degli irregolari, in genere sono non tanto quelli che scivolano fuori dal congegno dei CPT, ma quelli che restano in Italia oltre la durata dei loro permessi di soggiorno. E questo accade in tutta Europa. Insomma, c’è il visto turistico che scade dopo tre mesi e si rimane. Ebbene, io credo che avremmo modo di discutere sull’ultima legge in materia di immigrazione, ma di sicuro abbiamo già nell’immediato dovuto riscontrare problemi che non sono tanto dovuti all’impostazione molto controversa della legge che porta i nomi Bossi-Fini, ma sono legati ad asperità regolamentari burocratiche che hanno reso la vita dell’immigrato regolare ancora più difficile di quanto in linea di principio non sia. Assoggettandolo a vicende che se accadessero a noi inonderemmo i giornali di lettere di protesta contro l’ottusità dei burocrati e inonderemmo i nostri parlamentari di richieste di interrogazioni ai Ministri.

Un esempio: io ho un permesso di soggiorno valido, questo permesso a una certa data scade (per il momento non discuto la durata) e chiedo il rinnovo perché ne ho titolo. Il rinnovo, però, mi arriverà solo tra alcuni mesi in ragione di difficoltà che vi sono, ve ne ho parlato un po’ all’inizio. Nel frattempo io rimango nudo al vento, non ho un documento valido, non ho nulla. Ho un cedolino, ma se vado al funerale di mio padre che muore proprio in quelle settimane non posso tornare perché non ho nulla di valido, il permesso di soggiorno non ce l’ho.
Ora, questa realtà non ha nessuna ragion d’essere all’interno di qualunque impostazione legislativa, a prescindere dalle diversità di impostazione. E quindi, per dirne una, noi provvederemo subito a fare ciò che qualunque italiano chiederebbe per sé per qualunque documento: ho chiesto il rinnovo di un documento valido che ha una scadenza? Ebbene la validità del mio primo documento è prorogata fino al rinnovo o al diniego di rinnovo. Perché non potete caricare su di me le difficoltà vostre nella tempistica del rinnovo. Perchè nessuno, neppure la Bossi-Fini, implica che ci sia questa cessazione immediata di validità di un permesso che ha i presupposti per essere rinnovato, ma che potrà essere rinnovato per una serie di ragioni non il giorno dopo la scadenza, ma settimane o mesi dopo la scadenza. Io dico, allora, che sia valido fino al rinnovo o al diniego di rinnovo.

E poi, noi abbiamo una cura degli immigrati che non abbiamo di noi stessi: vogliamo che vivano in un alloggio assolutamente regolare, che abbia un certo numero di metri quadri e non di meno, e se nasce un bambino i metri quadri devono aumentare. Vorrei che per gli italiani o una giovane coppia che si è sposata, che ha potuto permettersi solo 35 mq, quando gli nasce un bambino qualcuno andasse lì e gli dicesse guardate voi di qui dovete andare via perché per il vostro bambino lo spazio non è sufficiente. Noi abbiamo questo amore paterno per i nostri immigrati, però vogliamo che lascino la casa e nessuno si preoccupa di trovargliene un’altra se gli è nato un bambino nel frattempo. E’ un’ esperienza che ho vissuto anche io, tutti noi viviamo queste esperienze perché c’è sempre un immigrato o un’immigrata della quale ci capita di occuparci. Il Ministero dell’Interno guidato dal mio predecessore mi aiutò umanamente a risolvere questa situazione, cerchiamo di risolverla con una norma e non di affidarla alla raccomandazione.
Ci sono situazioni tra l’ipocrita e il paradossale. Oggi è previsto che l’immigrato provi il soggiorno e la continuità del soggiorno soltanto attraverso l’esibizione di regolari contratti di affitto, che diano loro una regolare residenza anagrafica. Sembra che non esistano gli affitti in nero, che non capiti che la maggior parte di questi poveretti finiscano nelle mani di un locatore in nero che il contratto non glielo dà e che quindi non consente loro di avere una regolare residenza anagrafica. E così l’imbroglione è un italiano, il loro locatore, ma paga l’immigrato che non avrà la residenza anagrafica e non potrà provare la continuità del soggiorno. Nessun italiano accetterebbe una cosa del genere per sé, e andrebbe dritto alla Corte di Strasburgo a lamentare giustamente la violazione dei suoi diritti umani. E allora perché lo dobbiamo fare ad altri? Allora perché la continuità del soggiorno deve essere provata solo e soltanto con la residenza anagrafica quando possono esservi altri modi di prova?

Noi diamo in base alla legge attuale un permesso di soggiorno che ha anche un intervallo di tempo senza lavoro perché il lavoro possa essere trovato, poi se scade, via. Ma l’unica fonte di sostentamento utile a dimostrare tante cose è il reddito da lavoro in corso. Io chiedo: non esistono dei giovani italiani che hanno un lavoro precario? Non esistono dei giovani italiani che sopravvivono senza subire conseguenze giuridicamente negative tra un lavoro e l’altro avvalendosi dei risparmi che hanno fatto in ragione del precedente lavoro e campano con quelli o, magari, con il sostegno di altri? Lo possono fare, almeno questo. Perché non lo può fare un immigrato? Allora le fonti di sostentamento riconduciamole in primo luogo al reddito da lavoro ma anche ai risparmi e ai contributi che ci possano essere.
Queste cose valgono poi naturalmente anche per la carta di soggiorno. I ricongiungimenti familiari: capita che il ricongiungimento possa avvenire a beneficio del figlio minore non a beneficio del figlio maggiorenne che sia ancora fuori, ma noi riusciamo a metterci un tempo tale negli accertamenti consolari discrezionali sulla esistenza dei presupposti del ricongiungimento che il minore nel frattempo è diventato maggiorenne. E quindi una volta che abbiamo concluso gli accertamenti ha perso il titolo per venire. Dei minori ci occupiamo consentendo che familiari e madri vengano in Italia per poter accudire minori non altrimenti accuditi, ma con una ipocrisia che perseguita la donna (paradossalmente la perseguita anche nella 194, curiosamente mi è venuta in mente questa strana analogia), il permesso di soggiorno che viene dato ad una donna che sappiamo viene per accudire suo figlio o sua figlia minore è solo per motivi di salute, quindi non può lavorare. Citavo la 194 perché non è una analogia: mi veniva in mente che è sempre e solo la salute della donna la ragione per la quale l’interruzione della gravidanza viene consentita anche quando si tratti di grave malformazione del feto, però c’è l’ipocrisia che la grave malformazione incide negativamente sulla salute della donna. Ci deve essere una ragione per cui i diritti delle donne passano attraverso la loro salute altrimenti sono messi un po’ da canto. Ma, scusate, questa è soltanto una divagazione.
A queste cose noi intendiamo porre rimedio rapidamente, perché lo si può fare con regolamento e immagino che lo si potrà fare con il consenso generale, perché non credo che nessuno abbia voluto queste cose, queste cose sono successe via via che ci si è accorti che stavano succedendo.

Però certo che esistono anche dei problemi di cambiamento della legge. Io sono convinto, credo come tutti gli italiani, che debba esserci una connessione tra immigrazione e lavoro. A meno che non si tratti di pensionati inglesi che comprano ettari di Chianti, ma questo è un altro discorso. La connessione tra immigrati e lavoro ha un gran senso. Diciamo però che il modo in cui è stata stabilita dalla legge vigente è troppo rigido, presenta delle fortissime rigidità. Non c’è dubbio che la durata del permesso uguale a quella del contratto di soggiorno in un Paese che ha una propensione al contratto a breve che supera la durata dei lavori che poi offre, porta dei risultati assolutamente paradossali: ti chiamano per venire a fare lo stagionale, sai che ti chiamano in realtà per sei-otto mesi, però ti fanno tre contratti in quel periodo. Non ho mai capito la ragione di cose del genere, che del resto non capitano solo in Italia. Nei giorni delle Banlieu leggemmo tutti di quel ragazzo francese che manifestava – e se foste voi in quelle condizioni credo che lo fareste anche voi – perché ogni settimana firmava il lunedì un contratto che scadeva il venerdì e faceva da settimane, da mesi, sempre lo stesso lavoro. Succede. Succede che vi fanno su sei mesi tre contratti di due mesi, voi dovete chiedere tre permessi di soggiorno con tutti i problemi che questo comporta, senza parlare dell’aggravio economico che non è banale. Non c’è nessuna ragione per questo: se c’è una durata prevista allora il permesso deve essere allungato.

Bisogna mettere fuori Ricerca e Università. L’articolo 27 della legge è più generoso con chi viene da professore universitario che con chi viene a raccogliere pomodori. Di questo l’Università è grata. E tuttavia restiamo sempre all’interno di quella stessa disciplina, una disciplina fatta per lavori meno qualificati. Ora l’ostilità alla immigrazione di lavoratori qualificati dovrebbe essere dei Paesi di origine non da noi. Per noi è un vantaggio, anche se dobbiamo porci il problema del drenaggio dei cervelli da Paesi in via di sviluppo. Io ho l’esperienza fatta attraverso l’Istituto S.Anna di Pisa a cui sono vicino: ho provato a portare qui i famosi ingegneri indiani, ma non era possibile collocarli in realtà, perché non c’era alcuna convenienza per loro con la legislazione esistente a rimanere presso le imprese italiane. Queste realtà quindi vanno sganciate.
E poi permettetemi di dire, non ci arrabbiamo, che dobbiamo rivedere un punto base della Bossi-Fini, lì dove si vuole – è questo il presupposto della legge – che la domanda è regolare solo se il lavoratore che è controparte del datore alla firma del contratto di soggiorno è nel suo Paese. Insomma, vi chiedo, è vero? Accade veramente così? E’ così che funziona? E’ così che è stata applicata la legge? I nostri datori di lavoro assumono tutti persone che non hanno mai visto? Prendiamo il caso dei molti collaboratori familiari, uno scrive al consolato italiano di Manila? Io l’ho chiesto anche a funzionari della Pubblica Sicurezza e della Direzione competente e ho visto un certo imbarazzo. Posso dire sommessamente una cosa non sommessa? Non rischiamo con una disciplina del genere di fare in realtà una buona quota di regolarizzazioni dicendo che noi siamo contrari alle regolarizzazioni? Siamo proprio sicuri che la realtà che si sta dipanando in applicazione della legge sia davvero conforme alla legge? O non sta accadendo che la legge ha un presupposto impossibile, che la sua applicazione finge di credere al presupposto?

Mi fermo qua, avremo modo di parlare, ma vorrei che questa domanda venisse accolta come una domanda sincera e serena per riflettere meglio su quello che è stato fatto e per vedere se non ci sono modi magari diversi e più corrispondenti alla realtà di far venire qua le persone, essere certi che trovano un lavoro e poi su quella base andare avanti. Oggi il contratto di soggiorno può darsi che abbia dentro di sé un margine di funzione che lo rende paradossalmente la fonte di regolarizzazioni di immigrazione irregolare inizialmente adibita al lavoro soltanto nero. Ci dobbiamo pensare a questo, al di fuori di ogni ideologia, al di fuori di ogni contrapposizione. Perché questo attiene al nostro realismo nel gestire un fenomeno.

Dovremmo adottare finalmente una disciplina appropriata del diritto di asilo, approfittando anche della direttiva Ue che il disegno di legge comunitario appena approvato dal Governo include tra le direttive da attuare. Devo dire che c’era già un ampio consenso in Parlamento sulla legge sull’Asilo nella scorsa legislatura, quindi lo si può riprendere. Alla fin fine sappiamo che i problemi sono soprattutto organizzativi: come organizzare la fase dell’accertamento, come gestire il sostegno del richiedente asilo in questa fase e poi ai fini dell’immissione.

Va rivista la legge sulla cittadinanza. L’Italia aveva già firmato la convenzione di Strasburgo del ’97 che giustamente la nostra collega Bertolini relatrice nella scorsa legislatura aveva citato tra le premesse della modifica (convenzione che peraltro non abbiamo ratificato, non ho ancora accertato come mai). Il principio è dare maggiore spazio allo ius soli. E’ un tema, dunque, ereditato dalla scorsa legislatura: ci sono posizioni fondamentalmente concordi che divergono soltanto sulle tempistiche. Il problema è fondamentalmente qual è lo spazio che riconosciamo allo ius soli, come misuriamo e a che punto collochiamo lo standard di stabilità del radicamento in Italia dei genitori e quali sono, se ci sono, i tratti di collegamento chiamiamolo culturale col Paese che riteniamo necessari per la stessa naturalizzazione. Qui le opinioni legittimamente possono divergere e io sto acquisendo tutte le opinioni. Chi è favorevole alla sufficienza di una breve permanenza in Italia dei genitori, però, deve capire che così va reso facoltativo un diritto che non dovrebbe essere tale. Il motivo è chiaro. Faccio un esempio. Da docente in un istituto europeo nel quale arrivano a Fiesole colleghi di diversi Paesi, ho toccato con mano che loro non hanno necessariamente desiderio, se hanno un figlio in Italia, che questo automaticamente diventi italiano. Eppure loro stanno qua per sei anni, per quattro più quattro in genere, perché hanno un contratto quadriennale con l’Istituto rinnovabile per quattro anni. Quindi qui le fattispecie vanno articolate. Mentre può darsi che in altri casi un periodo di tempo anche inferiore possa essere ritenuto espressivo di una acquisita stabilità.

Certo si è che anche se la cittadinanza non risolve tutti i problemi, assolutamente non li risolve, e il caso francese ne è la prova. La Francia, grazie agli esiti della vicenda algerina, si sentì indotta a concedere la cittadinanza rapida, massimo due anni. Molti amici francesi mi dicevano: nulla è più umiliante che accorgerti che sei diventato cittadino ma sei più di serie B di quanto tu non lo fossi prima di diventare cittadino.
Quindi la cittadinanza non risolve. E tuttavia negarla, o non riconoscere i bambini che stanno crescendo da noi e che frequentano le nostre scuole, che sono completamente integrati nel loro ambiente, certo non aiuta.

Non aiuta anche ai fini del secondo grande tema che abbiamo davanti, che è quello della lotta al terrorismo. Noi ci stiamo accorgendo di una realtà amara: che l’Afghanistan era la base di Al Qaeda e di Bin Laden, ma da allora la maggior parte degli attentati che abbiamo subito – fortunatamente non noi in Italia – sono frutto di una organizzazione che dovremmo definire decentrata del terrorismo di fonte fondamentalista. Spagna, Regno Unito, Egitto, gli stessi due attentati che furono sventati da noi – quello alla metropolitana di Milano e a San Petronio – erano sì il frutto di alcuni collegamenti, ma nessuno dall’Afghanistan li aveva ordinati. La sensazione che si ha è che i capi supremi di Al Qaeda battezzino successivamente questi eventi, se ne approprino in un secondo momento.
Questa organizzazione così decentrata evidentemente ci pone – e questa è una opinione unanime dei Paesi del G8 – il tema della lotta alla radicalizzazione nei nostri Paesi come un tema cruciale. Perché si tratta di persone che appunto vivono qua, sono a volte di seconda generazione, addirittura terza generazione in qualche caso tedesco di cui si è parlato a Mosca. Allora, come fare ad evitare che queste persone che crescono nelle nostre società si radicalizzino? Evidentemente più sono integrate e meno si radicalizzano, detto così apparirà banale ma è di questo che si tratta.
E’ attraverso Internet principalmente che li vanno a raggiungere, che si crea il progetto. E dietro al progetto c’è, permettetemi questo termine abusato, una crisi identitaria che si risolve con una identità eroica. E il fenomeno delle banlieu, anche seguendolo attraverso Le Monde e poche altre fonti, vi appare come un fenomeno di identità negata. Di identità non trovata che riesce ad esprimersi con modalità devianti o trasgressive. Modalità che quando ero ragazzo io erano al massimo il disordine estivo nei quartieri poveri della grande città americana o la gang di Los Angeles che combatte contro un’altra gang. Cose che abbiamo visto al cinema e di cui abbiamo percepito la forza identitaria.
Oggi è qualcosa di tragicamente molto più forte: l’identità musulmana contro, loro contro di noi e noi contro di loro, per cui quell’identità con un input fondamentalista diventa un’identità anti-occidentale che vede noi come l’espressione di un male che non deve entrare nelle loro società, ecc. ecc.

Quindi il punto è evitare che questo accada. E allora le politiche che sono in gioco diventano tante. Politiche che fortunatamente in Italia noi abbiamo grazie alla tradizione molto civile dei nostri comuni, spesso più civile, lo dico sommessamente ma convintamene, delle tradizioni urbane di altri Paesi europei, noi siamo riusciti fin qui, ad esempio, ad evitare il ghetto separato per le etnie diverse da quella nazionale. Questo tratto proprio della nostra civiltà, io lo dico sommessamente anche perché penso che il tasso di immigrazione in Italia è tuttora molto più basso di quello di altri Paesi e quindi ancora il fenomeno non ha dimensioni che magari quando fossero cresciute potrebbe sbucare anche nel ghetto separato, ma è un dato di fatto che c’è molta consapevolezza nelle nostre Amministrazioni Locali di tutto questo e ci si sta adoprando per evitarlo.

Certo non è solo questo è anche informazione e intelligence. Mio padre mi diceva “non fare troppa sociologia”: lui era un uomo più di ordine, ma aveva le sue ragioni. E quindi intelligence e informazione servono molto. Noi abbiamo degli splendidi quartieri integrati a Milano e a Bologna, però se non ci fosse stata azione di intelligence ci saremmo beccati uno di quei due attentati o forse tutti e due.
Io ho utilizzato a Mosca, al G8, questo esempio di successo italiano per dire: “State attenti, voi insistete molto sulla collaborazione fra di noi ma dobbiamo collaborare anche con quei Paesi, perché fu grazie alla collaborazione italo-marocchina, in realtà, che l’Italia fu in grado di prevenire gli attentati”.
Il che significa però delle scelte che sono in qualche modo latamente politiche. Guai a collaborare tra di noi contro di loro, guai ad accettare lo schema manicheo noi contro di loro perché questo crea i due mondi che non comunicano e generano una ostilità identitaria dell’uno nei confronti dell’altro. Non comunicano a livello di intelligence e quindi informazioni preziose che si possono acquisire finiscono per non essere acquisite.

C’è, e questo ve lo posso dire, un alto livello di cooperazione in tutti i campi che oggi investe anche la difesa delle infrastrutture e dei trasporti di massa.
I Russi hanno legittimamente più attenzione di ogni altro al rischio nei trasporti di massa perché sono gli unici che si sono trovati davanti alla bellezza, anzi alla bruttezza, di cinque attentati alla metropolitana in pochi anni, e questo li ha portati a sviluppare diverse tecnologie che dobbiamo condividere.
E qui curiosamente si va dalle teconologie più sofisticate ad uno dei miei più grandi amici che è il “labrador”, al momento la tecnologia migliore per percepire la presenza di esplosivi. Tutti oggi oscillano dal labrador all’alta tecnologia. Il problema qui è trovare tecnologie che a distanza riescano a detestare, perché non si possono assoggettare i cittadini che prendono la metropolitana o il treno alla stessa “vessazione” che tutti accettiamo quando prendiamo un aereo, perché i tempi del viaggio in metropolitana sono incompatibili.
In questa cooperazione di straordinaria importanza c’è la cooperazione europea, (devo abbreviare perché mi sono fatto prendere la mano da questi temi e vi sto intrattenendo al di là di quello che è il vostro tempo), io intendo accelerare l’ingresso dell’Italia nell’accordo di Prum, come aveva iniziato a cercare di fare Pisanu. Non so per quali ragioni non ci hanno invitato al negoziato iniziale, non entro in quelle ragioni, ma lo trovai strano perché l’Italia fa parte di quel gruppo informale chiamato dei 5 + 1 che ha il massimo livello di integrazione operativa anche in materia di sicurezza all’interno dell’Unione Europea, avrei dunque trovato naturale che fosse stata invitata a partecipare al negoziato iniziale di Prum. Comunque ora è il caso di entrarci e voi sapete che lì si arriva davvero ad un’autentica integrazione nell’esercizio delle funzioni di polizia.

Lì c’è un problema, naturalmente, dobbiamo costituire una banca dati, anche sul DNA, però si tratta di dati alfanumerici non di campioni biologici. Ecco spero che saremo tutti consapevoli del fatto che c’è un limite al di là del quale la privacy va protetta in modo assoluto, ma vi sono dei dati che è nostro interesse mettere in una limitata circolazione perché ce li chiedono non per danneggiarci, ma per aumentare la nostra sicurezza.

La nostra sicurezza interna. C’è una disputa che dura da anni e che si riflette in “Titoli quinti” ed altro della Costituzione. Ebbene, su un punto possiamo trovarci tutti d’accordo: la pubblica sicurezza è, e non può non esserlo, una funzione nazionale ma la sicurezza è un prodotto locale, perché la sicurezza ciascun cittadino la vive dove risiede. La sede nazionale, come dire, dal punto di vista della sicurezza interna è messa a repentaglio quando c’è un attacco al territorio nazionale o quando c’è un sommovimento che mette a repentaglio l’assetto stesso del Paese, ma la criminalità ti attacca dove vivi, la criminalità la percepisci dove operi. Dallo scippo alla grande criminalità, a quello che fortunatamente per noi oggi è il piccolo terrorismo anarchico insurrezionale che dopo la sconfitta pressoché totale dei grandi fenomeni terroristici interni è rimasto con episodi locali che sappiamo dove avvengono in qualche modo e da chi vengono promossi.
Il cittadino vive la sicurezza come un fatto locale. Si sente insicuro se ha paura a dormire con la finestra aperta perché qualcuno gli può portar via qualcosa di casa mentre dorme d’estate, se ha paura per quello che può accadere al figlio mentre va a scuola, se ha paura mentre la sera rientra tardi a casa o porta a spasso il cane: è lì che si vive la sicurezza. Quindi coloro che pensano alla sicurezza come fatto locale hanno in realtà ragione perché è così. Perché tutti noi la viviamo come fatto locale. Ma, ed è questo il passo successivo, essa può essere organizzata soltanto come funzione nazionale perché vi sono collegamenti tra le varie forme di criminalità, perché vi sono spostamenti rapidissimi dei criminali; perché un delitto viene commesso in una regione ed un’ora dopo l’autore del delitto è in un’altra regione; perché i moduli di formazione di chi fa pubblica sicurezza sono moduli a dir poco nazionali, perché ormai li stiamo europeizzando per tante finalità a partire da quella del controllo delle frontiere.
Per questo io sono un difensore della attribuzione nazionale della pubblica sicurezza, ma difendo tutte le ragioni di chi la vede come un prodotto che se c’è deve essere percepito come tale sul piano locale, perché ciascuno di noi vive localmente.

Funzione nazionale di coordinamento orizzontale: e qui torno al punto dal quale ero partito, questa vexata questio poi la deve risolvere il Ministro dell’Interno, in realtà perché tocca al Ministero e al Ministro dell’Interno fare in modo che vi sia coordinamento tra le forze e quindi anche coordinamento sul territorio. Servono i mezzi per farlo. In questo senso è interessante il disegno di legge del presidente Cossiga. Ma il Ministro deve assumere la responsabilità di farlo, e ci deve essere in ragione proprio di quel poi sbucare nel prodotto locale, ci deve essere un rapporto con le autorità locali.
Lo ha detto il Sindaco di Roma Walter Veltroni, ma poteva averlo detto ciascun altro sindaco: “Quando illumino un quartiere faccio sicurezza”.
Ha ragione: “Quando illumini un quartiere fai sicurezza”. Quando togli la prostituzione dalle strade fai sicurezza perché è chiaro che la prostituzione per le strade mette in giro una serie di personaggi, quando combatti efficacemente la droga, e hai bisogno anche delle autorità scolastiche per farlo, anche nella scuola, è evidente che fai sicurezza.
Quando togli dal degrado quartieri della tua città che siano degradati, stai concorrendo alla sicurezza.

Ecco questi sono tutti profili sui quali si dimostra che si deve lavorare insieme. Molto dipende da quello che si chiama nel mezzogiorno il sostegno della legalità. Ecco, vicende come quella di oggi in Sicilia sono incoraggianti perché concorrono a ridurre il tasso di illegalità e riducendo il tasso di illegalità restituiscono fiducia a chi considera la legalità una regola di vita. E più la legalità è regola di vita e più c’è anche sicurezza. Le due cose finiscono per essere particolarmente legate.

Sicurezza è anche stadi. L’altro giorno mi ha colpito quello che chiacchierando mi ha detto Wolfgang Schauble. Parlavamo di campionati mondiali di calcio con il collega tedesco. Ed è stato Shauble – oltre a ringraziarmi per la presenza, peraltro decisa dal mio predecessore, di un contingente di poliziotti italiani che concorrono con altri all’ordine – a dirmi che la regola base nel campionato tedesco è che all’interno dello stadio fanno sicurezza vigilanti a carico delle società calcistiche e che il compito della pubblica sicurezza è esterno.
Beh, devo confessare che mi sono brillati gli occhi davanti a questa cosa qua. E la stagione di riassestamento del gioco del calcio che stiamo vivendo, forse assai più intensa di quanto avremmo potuto desiderare, potrebbe anche permetterci di rivedere questa questione. Giovanna Melandri è una delle prime cose che mi ha chiesto ora che è lei responsabile dello sport.

Chiudo perché devo chiudere, ma prima voglio sottoporvi un problema un po’ estraneo alla mia esposizione che è stata un po’ più lunga di quanto dovessi. Io ho davanti a me, perché lo prevede il programma di governo, ma lo prevede un’istanza che so condivisa da tutti i gruppi, l’accorpamento delle consultazioni elettorali in Italia.
Tutti noi diciamo – non c’è nessuno di noi che lo neghi – che si vota troppo spesso, che pensiamo solo a votare e non a governare. In genere lo dice di più chi governa che chi sta all’opposizione, in genere chi sta all’opposizione soffre di meno del fatto che si vota tutti gli anni. Però siccome fortunatamente stiamo realizzando l’alternanza, ecco possiamo essere abbastanza bipartisan da spalmare la sofferenza e la gioia imparzialmente tra di noi e arrivare a concludere che in effetti se votassimo di meno sarebbe meglio.
Noi abbiamo fondamentalmente quattro tipi di elezioni: locali, regionali, nazionali ed europee. Se riuscissimo a portarne due, non dico quali insomma, due in un anno e due in un altro anno, magari distanziandole di un paio di anni sarebbe l’ideale anziché votare tutti gli anni.
Allora io mi metto lì con i miei uffici e dico vediamo qual è la situazione. Io ho un appunto che francamente vi lascerei, nel quale emerge che si fa prima a dirlo che a farlo, scusate la banalità, a meno che non ci sia una forte intesa politica sul farlo, intesa politica che può essere ostacolata da una valutazione di volta in volta su quanti dei loro e quanti dei miei sono in ballo questa volta. Perche? Perché noi abbiamo nel 2007: 7 province e 870 comuni. Nel 2008: 2 regioni, 14 province, 460 comuni. Quindi vedete in entrambi gli anni numeri abbastanza cospicui. Nel 2009: Parlamento Europeo, 1 regione, 65 provincie, 4500 comuni. Quindi nel 2009 ci sarebbe in realtà una bella botta di comuni superiore a quella degli anni precedenti. Nel 2010: 14 regioni, 10 province, 970 comuni. Nel 2011: Elezioni Politiche, 2 regioni, 13 province, 1300 comuni.
Cioè il nostro bazar elettorale è aperto 24 ore su 24 fondamentalmente. E offre tutta la gamma dei suoi prodotti, allora è giusto portare un po’ d’ordine.

So benissimo che poi siccome i consigli comunali si sciolgono, rimangono situazioni spurie però diventerebbe facile a regime dire se sono pochi in un anno li si fa quando superano un certo numero si accorpano alle elezioni dell’anno dopo. Fatto in prevenzione, questo facilmente si fa, il problema è gestire tutto questo perché che si fa? Accorpiamo i comuni del 2007 a quelli del 2008 e poi i due al 2009? Comuni che durano due anni di più, un anno di più, le regioni dove le mettiamo? Troviamo un compromesso? Durano sei mesi di più loro e sei mesi di meno il Parlamento nazionale. Le regioni a statuto speciale, le convinciamo? Ciascuna può fare la sua legge elettorale, alcune regioni ordinarie già se la sono fatta e quindi della loro legge elettorale poi fa parte anche la scelta della data. Ci riappropriamo come legge dei principi della legge elettorale e della relativa data? Metto tutti punti interrogativi a verbale eh? Sono tutte domande accademiche che io sto facendo sia chiaro.

Ma voglio dire: abbiamo davanti questo problema, io ritengo giusto risolverlo secondo l’indicazione che è prevalente. Riterrei assolutamente improprio, non per viltà, ma proprio per fatto istituzionale che sia io a dire, visto che sono responsabile per il governo delle elezioni: allora si fa così! Perché se c’è una cosa nella quale il Parlamento è davvero importante è la materia elettorale, ancora di più quando si tratta di ritoccare con meccanismi transitori perché ci sono equilibri politici da rispettare.

Io lascio questo appunto al Presidente perché si possa vedere e vi sarei grato, Presidente glielo chiedo, se destina un’occasione nella quale possiamo discuterne in modo da vedere se si risolve. Scusate la lunghezza.