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Italia-Libia, l’asse della vergogna

Rimpatri illegali dalle coste italiane, l’accusa di Human Rights Watch.

Torture, pestaggi e violenze sessuali. E’ solo una parte del campionario di abusi che i migranti catturati dalle autorità libiche subiscono ogni giorno, secondo un rapporto pubblicato oggi da Human Rights Watch. Abusi di cui il governo Berlusconi si è reso complice, con il rimpatrio forzato da Lampedusa di quasi 3 mila clandestini, a cui sarebbero stati negati i più elementari diritti sanciti dalla Convenzione per i Rifugiati.

Lavoro sporco.
Secondo il rapporto pubblicato dall’organizzazione con sede a New York, focalizzato soprattutto sulla politica libica nei confronti dei clandestini, le responsabilità dell’Italia nella vicenda sarebbero più che evidenti. In particolare, sotto il precedente governo di Silvio Berlusconi, le autorità italiane avrebbero rispedito da Lampedusa in Libia almeno 2.800 migranti senza dare loro la possibilità di richiedere asilo politico, come previsto dalla Convenzione Onu per i Rifugiati del 1951. Lasciandoli alla mercé di uno stato che della suddetta Convenzione non è neanche firmatario, e che negli ultimi anni ha accettato di buon grado di diventare lo sbirro dell’Europa sulle coste mediterranee, accollandosi il lavoro sporco che gli stati dell’Unione Europea sono restii a compiere direttamente.

Accuse. Le accuse di Hrw non sono isolate. Anche l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, in un comunicato stampa reso pubblico il 18 marzo 2005, aveva denunciato la politica quantomeno sbrigativa delle autorità italiane, che il giorno precedente avevano imbarcato 180 clandestini su due aerei diretti in Libia. Agli ufficiali dell’Acnur, incaricati della protezione e dell’assistenza legale dei migranti, fu addirittura impedito l’accesso al centro di permanenza temporaneo di Lampedusa, metodo seguito anche con i rappresentanti di Hrw e, in precedenza, di Amnesty International. Tutte queste associazioni denunciano inoltre il sovraffollamento del centro, che secondo l’Acnur nel 2005 avrebbe ospitato 630 migranti a fronte di 190 posti, oltre che la presenza, all’interno del centro, di autorità libiche, procedura anch’essa vietata dalla Convenzione del 1951. Cosa sarebbe successo se, tra i migranti, ci fossero stati dei libici intenzionati a chiedere asilo politico? Una domanda che si può estendere ai dissidenti eritrei o somali che, una volta rimpatriati, rischiano la pena di morte.

Abusi. La posizione dell’Italia si aggrava ancora di più se si valuta il pericolo a cui i migranti sono sottoposti in Libia: Hrw ha raccolto numerose testimonianze di immigrati che denunciano maltrattamenti da parte delle autorità libiche. Si va dalla tortura alle detenzioni illegali, a cui le vittime possono sottrarsi solo dietro pagamento di una congrua mazzetta, fino agli abusi sessuali nei confronti delle donne. A ciò vanno aggiunti il cronico sovraffollamento e le condizioni igieniche, definite “terribili” anche dal prefetto Mario Mori, recatosi lo scorso febbraio nel centro di accoglienza libico di Seba in qualità di direttore del Sisde. Pratiche di cui, con la sua politica, l’Italia si è resa complice.

Piano congiunto. Il cambio di governo ha portato a un miglioramento della situazione. Il premier Romano Prodi ha infatti posto fine al rimpatrio di massa di migranti verso la Libia, procedura anch’essa vietata dalla Convenzione del ’51, visto che la Libia non ne è firmataria. E’ però di ieri la notizia che le autorità italiane avrebbero approntato un piano, di concerto con Tripoli, per il monitoraggio congiunto delle coste africane. Forze di sicurezza italiane e libiche organizzeranno pattuglie miste, assistite da un ufficiale di polizia libico con sede a Roma che fungerà da collegamento. Un ulteriore sgravio di responsabilità per l’Italia, che d’ora in poi potrà permettersi di bloccare gli indesiderati direttamente nel giardino del vicino di casa.

Matteo Fagotto

** Scarica l’estratto del rapporto in italiano

Leggi il rapporto (in inglese)