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da Il Manifesto del 22 settembre 2006

Rogo nel CPT, caos in Olanda

di Alberto D'Argenzio

Bruxelles – Un incendio, 11 immigrati in attesa di espulsione bruciati e due ministri che 11 mesi dopo si dimettono. Il tutto succede in Olanda, con un nuovo episodio della vicenda iniziata nella notte tra il 26 ed il 27 ottobre scorso, quando il centro di detenzione temporaneo situato nei pressi dell’aeroporto di Schiphol prende fuoco. Un rogo che lascia parecchi morti ed un paio di ombre sul governo. Ieri sono arrivati i risultati della commissione di inchiesta ufficiale ed indipendente: «Ci sarebbero stati meno morti, o anche nessuno, se la sicurezza contro gli incendi fosse stata presa seriamente in considerazione dalle autorità», si legge nel documento di 310 pagine firmato dal Consiglio di sicurezza olandese, l’organismo di indagine in caso di incidenti e calamità. Parole che scuotono l’esecutivo e forzano le dimissioni di due ministri.
Pieter van Volenhoven, presidente del Consiglio e cognato della regina Beatrice, punta il dito in particolare contro il Servizio degli istituti penitenziari, che dipende dal ministero della giustizia, e contro il ministero per le opere pubbliche per come è stato costruito il centro e per come è stata gestita la crisi. L’atto d’accusa è forte e chiaro e ai titolari dei due dicasteri non resta che presentare le dimissioni. Piet Hein Donner, alla giustizia, e la collega Sibila Dekker abbandonano così il governo democristiano guidato da Jan Peter Balkenende, una dolorosa emorragia che si produce ad appena due mesi dalle elezioni politiche del 22 novembre.
Il sunto del rapporto è che il governo ha sacrificato gli standard di sicurezza per procedere alla rapida costruzione del complesso penitenziario di Schiphol, adibito a centro di detenzione temporaneo ed occupato, oltre che da irregolari, anche da trafficanti di droga. Ironia della vicenda è che il centro situato ad est della pista di atterraggio era considerato uno di quelli modello in Europa, ma le cose, evidentemente, non stavano proprio così. Volenhoven presenta lo studio mostrando una ricostruzione in video dell’incendio, un film pieno di errori che diventano orrori. In primis ci sono gli errori strutturali, quelli legati al progetto del complesso. Secondo gli investigatori il penitenziario non era in regole in tutta una serie di norme sulla sicurezza, in particolare contro il fuoco, previste per questo tipo di edifici. Per esempio era eccessiva la distanza tra le celle e la porta principale di uscita mentre ugualmente illegale era la mancanza di un sistema di apertura centralizzato ed elettronico per le 24 celle doppie colpite dalle fiamme (che al momento dell’incendio ospitavano 43 detenuti). Le porte dei cubicoli quel 26 ottobre furono aperte a mano una ad una. Per queste ragioni il comune di Harlemmermeer, da cui dipende la zona di Schiphol, non «avrebbe mai dovuto concedere i permessi» di agibilità.
Poi ci sono gli errori di metodo, tanti, tantissimi, semplicemente perché il personale non era adeguatamente preparato. «Errori essenziali – sottolinea il lavoro – come lasciare aperta la porta della cella dove si è sviluppato l’incendio». Le guardie non hanno nemmeno avvisato immediatamente i pompieri, come vuole la legge, ma l’hanno fatto solo dopo aver constatato che l’allarme era reale. Inoltre non hanno dato tutte le informazioni ai vigili del fuoco, omettendo per esempio che alcune porte laterali erano chiuse ma, soprattutto, hanno preferito privilegiare la sicurezza, mantenendo i reclusi nelle celle, che la vita degli immigrati. Critiche anche per l’assistenza psicologica fornita ai sopravvissuti, insufficiente ed arrivata tardi.
«L’edificio non era in ordine – scalpita l’opposizione laburista per bocca di Aleid Wolfson – le procedure non erano in ordine, il personale non era qualificato e la cooperazione non era buona». Un attacco deciso che riporta il rogo di Schiphol al centro dell’agenda politica a poche settimane dalle elezioni.
Ma dati i tempi che corrono in Olanda, quelli della reazione all’immigrazione, non è nemmeno detto che i democristiani debbano pagare un forte dazio per 11 morti – domenicani, romeni, ucraini, turchi, libici, georgiani, bulgari e del Suriname – che si potevano tranquillamente evitare. Di fronte al Parlamento Toekaja Artist, madre del defunto Robbert Arah, se la prende con il governo, ma anche contro il silenzio della società olandese: «Devono andarsene tutti i responsabile di quanto è successo. Ma non credo che la gente sia abbastanza incazzata per questo».