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Modifiche Bossi Fini – Commento alle note per la riforma del T.U. presentate da Amato

Non sembra esserci un grosso cambiamento nell’impianto legislativo, soprattutto per quanto riguarda la logica securitaria.

Diamo conto di seguito delle “Note per la riforma del Testo Unico sull’Immigrazione” presentate dal Ministro dell’Interno Amato alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, relativamente alla riforma del Testo Unico sull’immigrazione (d.l.vo 25 luglio 1998, n.286).
In data 3 ottobre 2006 (nello stesso giorno in cui è stata presentata la relazione di cui sopra), il Parlamento europeo ha approvato una “risoluzione sulla politica comune dell’Unione Europea in materia di immigrazione” che sembra improntata a criteri in parte corrispondenti con le conclusioni tratte dal ministro Amato, ma che appare nettamente più aperta dal punto di vista “pratico”.

I punti della risoluzione del Parlamento europeo
Le premesse comuni – fatte sia dal Ministro Amato, sia dal Parlamento europeo – riguardano l’esistenza di una fortissima pressione migratoria a fronte di un calo demografico consistente dell’U.E., sottolineato anche dal “Libro verde sull’approccio dell’Unione europea alla gestione della migrazione economica” (COM(2004) 811 def). Il Libro verde, presentato dalla Commissione europea in data 11 gennaio 2005, sottolinea che nell’Unione Europea il calo della popolazione attiva comporterà una riduzione nel numero degli occupati (circa 20 milioni di unità) e che saranno necessari sempre maggiori flussi migratori, per far fronte alle esigenze del mercato del lavoro e per garantire la prosperità dell’Europa. Nella risoluzione in commento, il Parlamento europeo ritiene peraltro che nell’Unione Europea sia inammissibile che delle persone vengano sfruttate in un contesto di lavoro forzato e che, pertanto, gli stati membri debbano garantire che pratiche del genere non possano esistere. Inoltre viene sottolineato che qualsiasi approccio globale all’immigrazione non può ignorare i “ fattori di spinta” che, in primo luogo, conducono le persone ad abbandonare il proprio paese, e che è quindi necessario offrire possibilità concrete di immigrazione legale nell’Unione europea e predisporre piani precisi per lo sviluppo e gli investimenti nei paesi di origine e transito, compresa l’elaborazione di politiche commerciali ed agricole che promuovano opportunità economiche, non da ultimo, per evitare una massiccia fuga dei cervelli. E’ pertanto indispensabile una politica di integrazione che preveda, tra l’altro, un’integrazione regolare nel mercato del lavoro, il diritto all’istruzione e alla formazione, l’accesso ai servizi sociali e sanitari, nonché – tema che non è stato minimamente toccato nelle note per la riforma presentate dal ministro Amato – la partecipazione degli immigrati alla vita sociale, culturale e politica. Ricordo che la questione del diritto di voto amministrativo, che avrebbe dovuto essere uno degli elementi qualificati della riforma Turco Napolitano, non riemerge nelle note di Amato.
Sempre il Parlamento europeo, sollecita gli Stati membri ad assicurare l’accesso alla procedura di domanda di asilo, ad applicare le disposizioni della direttiva 2005/85/CE in modo coerente e rigoroso e a garantire che le domande di asilo siano trattate in modo rapido ed efficace. In altre parole, si sottolinea un’applicazione parziale delle garanzie stabilite a livello europeo, sulle procedure di riconoscimento del diritto di asilo e sulle garanzie che devono essere assicurate ai richiedenti. Inoltre – e questo viene sottolineato con particolare forza e in più passaggi – il Parlamento europeo considera che a sette anni dall’adozione del programma di Tampere, l’Unione europea non dispone di una politica coerente in materia di immigrazione e, in particolare, di una politica sull’immigrazione legale e il rimpatrio. Nonostante le reiterate richieste del Parlamento, è stato mantenuto il voto all’unanimità e la procedura di consultazione per tutte le questioni attinenti all’immigrazione legale. In altre parole, mantenere il voto all’unanimità significa attribuire un potere di veto ad ognuno dei paesi membri condannando l’UE all’immobilismo su qualsiasi politica comune in materia di immigrazione legale.

La proposta di Melting Pot
Il Parlamento europeo considera che in assenza di una politica comune dell’UE in materia di immigrazione, gli Stati membri possono adottare approcci differenti al problema della presenza di centinaia di migliaia di immigrati clandestini che lavorano illegalmente e senza nessuna protezione sociale. Non manca di soggiungere che “la regolarizzazione in massa degli immigrati illegali non costituisce una soluzione nel lungo termine, dal momento che tale misura non risolve i veri problemi di fondo”. In pratica, il Parlamento europeo in una situazione in cui non vi è una politica comune in materia di immigrazione e vi è una produzione di clandestinità che riguarda centinaia di migliaia di persone, riconosce adeguato il ricorso, sia pure in termini di emergenza, a strumenti di regolarizzazione. Tale possibilità, invece, non solo non viene presa in considerazione, ma viene addirittura negata con una certa ostentazione da parte del ministro Amato che, nei recenti incontri a livello europeo, ha affermato che la regolarizzazione del 2002 – quella contestuale all’emanazione della legge Bossi – Fini (l. 30 luglio 2002, n. 189) – è stata e resterà l’ultima regolarizzazione per l’Italia.
A questo riguardo, ricordo che in questi giorni si parla di una proposta di regolarizzazione lanciata dal nostro sito internet, che ha già raccolto numerosissime sottoscrizioni. Ma, intendiamoci, è una proposta assolutamente minimale perché non si tratta nemmeno di una proposta di regolarizzazione, bensì di una proposta di semplificazione amministrativa della gestione del decreto flussi.
Il decreto flussi allargato a 520 mila quote comporterà una gestione – solo per il rilascio del nulla osta da parte degli Sportelli Unici – molto gravosa che permetterà, se tutto andrà bene, di esaurire le pratiche per l’inizio dell’estate del 2007. Ora, aggiungere a questa procedura già pesantissima e intollerabile, l’ulteriore fase di durata incalcolabile e piena di incertezze della procedura di rilascio del visto di ingresso dall’estero, significa veramente rendere questo percorso rocambolesco e assurdo, specie se si pensa che tutto ciò dovrebbe riguardare una moltitudine di persone. Già in questo momento l’attività degli Sportelli Unici è intasata e gli stessi non sono in grado di gestire il lavoro ordinario. Questo ulteriore peso di lavoro non mancherebbe peraltro di paralizzare l’attività delle rappresentanze consolari italiane all’estero, che già non brilla per disponibilità o impiego di risorse adeguate.
Non stiamo quindi proponendo una sanatoria indiscriminata e generalizzata, ma, semplicemente, che, se questi 520 mila “disgraziati” che hanno un contratto di lavoro pronto saranno messi in condizione in poco tempo di versare i contributi e le ritenute fiscali, sarà meglio per tutti. Se, invece, saranno costretti – perché la realtà è sotto gli occhi di tutti – a pagare dei “passatori” o trafficanti, quindi a ricorrere nuovamente ad espedienti illegali per uscire dall’Italia e attendere all’estero il rilascio del visto d’ingresso, per poi rientrare dalla porta principale, è chiaro che tale situazione non gioverà a nessuno. Se poi la riserva mentale fosse quella di falcidiare, nel frattempo, tutti questi candidati al soggiorno regolare che stanno già lavorando, sottoponendoli a provvedimenti di espulsione, ciò non risolverebbe comunque nessun problema perché si tratterebbe di espulsioni destinate a rimanere esclusivamente sulla carta, perché credo che nemmeno dichiarando lo stato di emergenza e “mobilitando i riservisti” si potrebbe pensare di espellere veramente centinaia di migliaia di persone dal territorio italiano.
Lo stesso ministro Amato non manca di far presente che il meccanismo delle espulsioni è inceppato perché non si può pensare di eseguirle per tutti coloro che si trovano in una situazione di irregolarità. Soprattutto, non si può pensare di eseguirle coattivamente con il sistema dei Centri di Permanenza Temporanea (CPT) anche perché, come si è verificato, questo sistema non funziona.
Premessi queste considerazioni generali e i punti salienti della risoluzione del Parlamento europeo, esaminiamo di seguito le proposte presentate dal ministro Amato.

La proposta Amato

La relazione del ministro Amato parte da un dato che dovrebbe tranquillizzare: non siamo sotto assedio.
“L’Italia è tra i Paesi di destinazione e di transito più interessati da questo fenomeno (il fenomeno migratorio), ciononostante, il nostro è ancora un paese con una bassa percentuale di immigrati rispetto ad altre nazioni. Sul totale della popolazione, abbiamo il 4,1% di stranieri, contro il 5% del Regno Unito, il 5,6% della Francia, il 7,8% della Spagna e l’ 8,8% della Germania. Quest’anno nelle scuole italiane gli studenti figli di immigrati saranno solo il 4,8% del totale: nel Regno Unito sono il 15%, in Germania il 10% e le nostre imprese, così come le nostre famiglie, hanno un gran bisogno di immigrati”.

Va aggiunto che queste percentuali assumono un tono ancora meno allarmistico se si considera che in molti paesi europei non vengono considerati come “immigrati” coloro che hanno già acquisito la cittadinanza; ciò non di meno, dal punto di vista della popolazione autoctona, la loro presenza viene pur sempre percepita come di immigrati. Quindi, in termini numerici e percentuali, se in Italia abbiamo un tasso molto basso di naturalizzazioni – anche a causa del fenomeno più recente rispetto ad altri paesi – negli altri paesi queste percentuali possono essere lette in termini “più pesanti”, rispetto al rapporto tra cittadini autoctoni e cittadini di origine straniera.
Il ministro Amato prosegue con delle osservazioni condivisibili sulla legge Bossi – Fini (l. 30 luglio 2002, n. 189).
La legge Bossi Fini non ha risolto questi problemi (il problema della presenza illegale, il problema del governo dei flussi migratori, il problema del contrasto del lavoro nero) e si è dimostrata inadeguata a raggiungere i suoi stessi obiettivi. Il contratto di soggiorno si è tradotto – come testimoniano le file di immigrati alle poste – in periodiche regolarizzazioni e ha finito per favorire quell’immigrazione illegale che si proponeva di contrastare”.
Anche il ministro Amato sa perfettamente – come sanno tutti – che quasi tutte le persone che hanno chiesto e utilizzato il decreto flussi (art. 3, d.l.vo 25 luglio 1998, n. 286) in tutti questi anni, erano persone già presenti in Italia e stavano già lavorando, in condizioni irregolari, per quel medesimo datore di lavoro che presentava la domanda di autorizzazione all’ assunzione dall’estero. “E questo – spiega il ministro Amato – perché il modo in cui regola l’assunzione all’estero non è realistico per il personale non qualificato: nessuna famiglia assume una baby-sitter senza averla prima almeno conosciuta.
Il meccanismo delle espulsioni, sulla carta molto severo, si è rivelato di fatto inefficace, soprattutto in relazione ai problemi di identificazione.
Il permesso di soggiorno, rigidamente legato alla durata del contratto di lavoro, in presenza di un gran numero di contratti a termine di breve o brevissima durata, produce inefficienze sia per l’immigrato che per il datore di lavoro e favorisce il passaggio alla clandestinità degli immigrati che perdono il lavoro”.

Non possiamo che confermare queste considerazioni ed esser lieti che anche da parte istituzionale si pervenga a queste conclusioni. Nell’ambito di queste osservazioni generali, ci permettiamo di aggiungere – e dovrebbe essere l’esatto corollario di queste considerazioni preliminari – che clandestinità non vuol dire criminalità. L’equazione clandestino = criminale è un pregiudizio puro e semplice, frutto di ignoranza, alimentata anche da molta gente che ignorante non sarebbe.
Verifichiamo di seguito se da queste premesse, tutte condivisibili, si passa a trarre delle conclusioni coerenti sul piano pratico.

“La strategia del governo”
La parte dedicata alla “strategia del governo” ci servirà per valutare se le premesse da cui parte il ministro Amato vengono, in qualche modo, tenute coerentemente in debita considerazione nello svolgimento del programma.
Nel testo viene spiegato che il Governo ha una strategia che “è fatta di tanti tasselli legati da un obiettivo di fondo: governare in modo razionale l’immigrazione regolare, favorire l’integrazione e scoraggiare l’immigrazione irregolare. Di questa azione fanno parte provvedimenti importanti già impostati per riportare l’Italia nel contesto europeo: lo schema di decreto sui ricongiungimenti familiari, quello per la carta di lungo-soggiorno, il disegno di legge sulla cittadinanza.

Il disegno di legge sulla cittadinanza
Con questo disegno di legge si prevede di riportare – come previsto nella vecchia legge sulla cittadinanza italiana del 1912 – da dieci a cinque anni il requisito minimo di residenza nel territorio italiano, per poter presentare la domanda di naturalizzazione. La novità contenuta in questa proposta, che sarà soggetta a dibattito parlamentare, è quella di prevedere per i nati in Italia da genitori stranieri una più facile acquisizione della cittadinanza italiana.
A parte la particolare regolamentazione prevista per i nati in Italia, in via generale la modifica dei criteri stabiliti per la naturalizzazione, ovvero per l’acquisto della cittadinanza italiana da parte delle persone legalmente soggiornanti e residenti da un numero minimo di anni, non è cambiata nel suo impianto. L’acquisizione della cittadinanza italiana resta pur sempre subordinata a un provvedimento del tutto discrezionale che, come siamo abituati a vedere, porta una motivazione sostanzialmente prestampata anche nei casi in cui comunica il diniego, al di fuori di parametri minimamente oggettivi che possano consentire di valutare in termini più trasparenti e comprensibili la scelta tra la concessione e la non concessione della cittadinanza italiana. Si tratta sempre di un provvedimento discrezionale che non è facile controllare perché il ministero dell’Interno non ha mai pubblicato un resoconto che permetta di comprendere e verificare in modo evidente il rapporto che intercorre tra il numero di domande di naturalizzazione presentate e il numero di accoglimenti. Men che meno è possibile sapere qual è la composizione etnica o nazionale degli accoglimenti e delle domande, in altre parole se determinate nazionalità sono più o meno favorite rispetto ad altre nella discrezionale concessione della cittadinanza italiana.
Perciò, dal disegno di legge sulla cittadinanza non ci aspettiamo grandi cambiamenti. Semmai i maligni hanno già cominciato a pensare – e il sottoscritto è fra questi – che, se si ridurrà a cinque anni il requisito minimo di residenza per la cittadinanza, aumenterà drasticamente il numero di domande di naturalizzazione. Il che vuol dire che i tempi di attesa per ottenere una risposta – oggi si aggirano intorno ai tre anni – saranno destinati ad essere prolungati, mantenendo la stessa discrezionalità che caratterizza queste procedure.

La riforma del Testo Unico
Stando alla relazione del ministro Amato, gli obiettivi della riforma dovrebbero essere quelli di:
favorire l’incontro “regolare” tra la domanda e l’offerta di lavoro straniero, rendendo il collegamento tra soggiorno e impiego più realistico e rispondente alle esigenze delle nostre imprese e delle nostre famiglie;
– creare una corsia preferenziale per l’accesso di lavoratori qualificati;
– rendere più efficace il meccanismo delle espulsioni incentivando la collaborazione dell’immigrato;
– adeguare la durata del permesso di soggiorno alla realtà del mondo del lavoro e renderne meno gravosi per l’Amministrazione e per l’immigrato i procedimenti di rinnovo.

Le quote annuali dei decreti flussi
Per quanto riguarda gli ingressi, un elemento che viene presentato in maniera sorprendente come una novità è quello della politica dei flussi. Per governare in modo razionale l’immigrazione si intende innanzitutto rendere triennale la programmazione delle quote massime di stranieri da ammettere ogni anno sul territorio nazionale. Il decreto flussi, dunque, da annuale diventerà triennale.

E ancora E’ particolarmente importante che la determinazione dei flussi sia il più possibile adeguata alle mutevoli realtà economiche e sociali e che poi possano essere adottati anche dei sistemi di adeguamento. Il Presidente del Consiglio dei Ministri potrà infatti emanare singoli provvedimenti di adeguamento delle quote, aumentandole ma anche riducendole, dopo aver consultato il Comitato per il coordinamento e il monitoraggio.
Mi permetto di far presente che già la legge vigente Bossi-Fini, ma anche il precedente T.U. nella versione Turco-Napolitano ed ancora prima la legge Martelli, prevedevano un documento programmatico triennale nell’ambito del quale il governo avrebbe dovuto stabilire le linee guida delle politiche sull’immigrazione. Quindi, la novità di fare un decreto triennale, suscettibile di aggiustamenti periodici rispetto al pregresso che prevedeva un documento programmatico triennale con decreti annuali, è una modifica semplicemente sulla carta, che non muterà nella sostanza le politiche sull’immigrazione.

Le Regioni
Viene inoltre previsto un ruolo più attivo alle Regioni. Rispetto alla mera consultazione di queste, degli enti locali e delle associazioni di categoria del mondo del lavoro – da sempre prevista nella normativa sull’immigrazione – non si vede nessuna novità.
La stima del fabbisogno del lavoro è pur sempre rimessa ad un organismo centrale, che pretenderebbe di stabilire un fabbisogno nazionale sulla base di rilevazioni che sino ad oggi non hanno mai dimostrato una aderenza alla realtà e, soprattutto, alle domande che vengono presentate dalle imprese. Queste considerazioni critiche sono sempre state fatte, anche recentemente, da tutte le associazioni di rappresentanza del mondo imprenditoriale.

Largo ai talenti
Nella proposta Amato, una considerazione a parte viene fatta per quanto riguarda i talenti al fine di creare un canale privilegiato per l’immigrazione di lavoratori altamente qualificati. Si sottolinea che se è vero che già nel T.U. all’art.27 (Ingresso per lavoro in casi particolari) è prevista, al di fuori delle quote, la procedura di autorizzazione all’ingresso per dirigenti e lavoratori altamente qualificati, questa norma da sola non basterebbe.
I talenti nei campi della ricerca e della scienza, della cultura e dell’arte, dell’imprenditoria, dello spettacolo e dello sport saranno ulteriormente agevolati nell’ingresso e nel soggiorno del nostro Paese, al di fuori delle quote fissate per i flussi”. Si ha qualche dubbio che possa veramente cambiare qualcosa per questi talenti, perché il problema pratico è che l’art.27 è sempre stato poco utilizzato perché nella traduzione burocratica di questa norma si considera che i lavoratori altamente qualificati siano i lavoratori altamente retribuiti. Ma per questi soggetti non ci sono grossi problemi per l’autorizzazione all’ingresso dall’estero e… non ci sono mai stati!
Il problema che spesso si pone è quello di lavoratori altamente qualificati che però – magari approfittando della loro situazione di bisogno, in quanto provenienti da paesi dal tenore di vita meno elevato – si vedono offrire trattamenti economici squalificanti. Questa è la realtà di tutti i giorni.
Nel testo di riforma Amato, si parla anche del fabbisogno delle università che, in molte occasioni, provvedono a formalizzare nei confronti di noti ricercatori stranieri delle semplici borse di studio di importi alquanto esigui. Queste persone – se si traduce in “burocratese” la pretesa facilitazione per i talenti – non troveranno spazio di autorizzazione perché per alta qualificazione si intende alta retribuzione. Certo, le borse di studio hanno trovato comunque uno spazio per far sì che si consenta a ricercatori stranieri di venire in Italia, ma sempre con difficoltà per rinnovare il permesso di soggiorno, con la difficoltà di dimostrare fonti di sostentamento diverse, perché in teoria uno studente dovrebbe dimostrare in proprio di avere altre fonti di sostentamento.
Da queste poche righe contenute nella relazione, non si capisce se il ministero dell’Interno, o comunque il governo, vorrà adottare una soluzione più operativa, che permetta di evitare pastoie burocratiche.

I lavoratori generici
Consideriamo ora l’ingresso per i lavoratori cosiddetti generici, ovvero di coloro che non sono definiti come talenti, ma sono lavoratori comunque specializzati, fortemente richiesti nel nostro mercato del lavoro: saldatori, carpentieri, muratori, installatori termoidraulici, elettrotecnici, ecc. Tutte tipologie destinate ad essere ricondotte nel calderone dei lavoratori generici.
La chiamata – dice la relazione – per conoscenza diretta prevista dal contratto di soggiorno della legge Bossi-Fini, in assenza di altri canali di reclutamento, ha penalizzato l’immigrazione regolare favorendo quella clandestina, con la successiva regolarizzazione di fatto dei lavoratori attraverso le quote annuali. E’ un sistema non realistico che va superato”.
E sul punto non possiamo che essere d’accordo visto che facciamo queste considerazioni da anni! Peccato però che non riusciamo a capire bene come si pretende di superare questo sistema in base alle proposte del ministro Amato, che fa riferimento all’utilizzo di una pluralità di strumenti per governare i flussi migratori, ribadendo però che tutto ciò avverrà all’interno di quote quindi, di un numero chiuso massimo stabilito e suscettibile di eventuali ritocchi da parte del governo.
Nell’ambito di questa pluralità di strumenti non vediamo grandi novità, salvo l’istituto della sponsorizzazione, della cosiddetta garanzia per consentire l’ingresso per la ricerca di lavoro. Ma questa proposta – così come delineata dal ministro Amato – è stata notevolmente limitata e, inoltre, presenta fortissime difficoltà per essere resa operativa.
Nella relazione si sottolinea che “la possibilità della chiamata per conoscenza diretta resterà, ma insieme con il ministero degli Esteri e quello del Lavoro andrà messo a punto un sistema di liste presso le nostre rappresentanze diplomatiche adeguatamente attrezzate a tal fine. Si introdurrebbe così una sorta di collocamento all’estero per lavoratori stranieri. Un modo per favorire l’incontro, altrimenti difficile, tra la domanda di lavoro in Italia e l’offerta di lavoro all’estero”. L’idea delle liste di collocamento presso i consolati (presenti da anni nella nostra legislazione) viene presentata come una novità. Ma queste liste non solo non sono una novità ma è anche arcinoto che non sono mai state utilizzate perché non possono funzionare. E a questo punto il ministro Amato si contraddice.
Nella parte introduttiva della relazione, aveva detto che nessuno si fiderebbe ad assumere una colf che non ha mai visto né conosciuto. Forse è diverso per la maggior parte delle imprese? Chi si fiderebbe di assumere una colf, o un saldatore pescandolo attraverso queste liste di collocamento tenute all’estero presso i consolati italiani, che già fanno fatica a funzionare per i visti, figuriamoci per le liste di collocamento! Se questa vuole essere presentata addirittura come una novità idonea a superare gli attuali problemi noti a tutti – e anche al ministro – lo lascio valutare a voi tutti.

Una considerazione sulla cosiddetta programmazione dei flussi e il ruolo degli enti locali
Il fabbisogno del mercato del lavoro, da parte del governo centrale, non ha mai dimostrato di essere aderente alla realtà. D’altra parte, dobbiamo considerare che i grandi abbandonati dalla politica governativa, in materia di flussi migratori sono gli enti locali, che hanno fatto sempre una gran fatica ad essere ascoltati.
Forse sarebbe il caso di prendere in considerazione un principio che sembra anche di buon senso e che dovrebbe anche trovare consenso da parte degli enti locali e da parte dell’Anci, che non ha mancato di rappresentare in più occasioni il disagio degli enti locali sulla politica in materia di governo dei flussi migratori, e sulla ricaduta ingestibile che gli enti locali subiscono nell’attuale assetto normativo.
E’ infatti da sottolineare il fatto che se da un lato è pacifico che la difesa delle frontiere e della sicurezza è un compito da mantenere in capo non solo alla legislazione statale, ma anche agli organi dello stato centrale, sarebbe bene che il governo del territorio forse rimesso a chi è presente sul quel territorio. Se si offrono strumenti agli enti locali per governarlo, si dà loro anche una responsabilità alla quale non potranno più sottrarsi. Gli enti locali sicuramente dovrebbero essere più sensibili, perché vicini anche fisicamente alle diverse istanze, non soltanto alle esigenze rappresentate dal mondo dell’impresa, ma anche a quelle rappresentate dalle famiglie, dalle comunità, dal volontariato, che hanno il polso della situazione e che potrebbero, forse, gestire in termini più fattibili delle forme di regolarizzazione continua (già riconosciute in altri paesi, quali la Francia, per gestire i cosiddetti “casi sociali”).
Oggi i Comuni si trovano di fronte ad una situazione schizofrenica. Da un lato le imprese chiedono l’assunzione di sempre maggiori quote, formalmente dall’estero, di lavoratori (che poi sono già qui nella realtà pratica); dall’altro lato sempre nello stesso territorio vi sono lavoratori immigrati che hanno già un regolare permesso di soggiorno, che non trovano lavoro e che richiederebbero politiche attive dell’occupazione. E poi ancora ci sono gli stessi servizi sociali degli enti locali che si trovano a gestire situazioni di persone in condizione irregolare con un carico economico (per cercare di gestire l’emergenza e assolvere alle minime esigenze umanitarie) superiore rispetto alle situazioni regolari.
Questa situazione schizofrenica forse potrebbe essere ridimensionata di molto se si riconoscesse, nell’ambito naturalmente di una griglia normativa stabilita dallo Stato, una definizione a livello locale della gestione delle quote e della pluralità di strumenti che possono consentire l’ingresso e il soggiorno regolare. Pluralità di strumenti che, come abbiamo detto, manca nella relazione del ministro Amato perché, al di là della finta novità delle liste di collocamento all’estero, che non interessano agli imprenditori, c’è solo la sponsorizzazione, fortemente menomata rispetto al testo della legge Turco Napolitano.

Lo sponsor
L’istituto dello sponsor – anche questo proposto come novità – è una riproposizione molto riduttiva rispetto a quanto era già contenuto nella versione originaria della Turco-Napolitano.
La relazione sostiene che “per evitare gli usi strumentali e le distorsioni registrate nella precedente esperienza italiana – e si fa riferimento ovviamente all’art.23 del testo originario della legge Turco Napolitano – il ruolo di sponsor è stato pensato – soltanto, aggiungiamo noi – per enti e organismi istituzionali, come le Regioni e gli Enti locali, per le associazioni imprenditoriali e professionali, per quelle sindacali e per gli istituti di patronato”.
A questo riguardo si porta un esempio “Partiamo dall’imprenditore che deve assumere un lavoratore straniero. In base alla nuova disciplina avrà davanti a sé due strade: farlo autonomamente e allora provvedere direttamente alla richiesta e alle pratiche conseguenti (con l’assunzione nominativa dall’estero di una persona che non dovrebbe mai avere visto, ma che in realtà è già in Italia, oppure pescando dalle liste all’estero, per una persona che non ha mai visto e conosciuto); oppure affidarsi a uno sponsor, che gli semplificherà l’iter burocratico e lo aiuterà nella scelta del lavoratore. Il garante da parte sua, acquisita la domanda dei datori di lavoro (o facendosi carico preventivamente dell’esigenza di manodopera a livello locale), inoltra allo Sportello unico per l’immigrazione la richiesta di nulla osta all’ingresso “per l’inserimento nel mercato del lavoro” di stranieri iscritti nelle liste. Se il datore di lavoro non provvede autonomamente, potrà quindi affidarsi ad uno sponsor (il garante) che dovrà essere un ente locale, la regione, un’associazione imprenditoriale o professionale, un’organizzazione sindacale, o un istituto di patronato. Sarà il garante che dovrà provvedere a esperire la procedura per l’ingresso all’estero, ma corredata di “garanzie bancarie o equivalenti per l’assicurazione obbligatoria al servizio sanitario nazionale, per la prestazione di mezzi di sussistenza, per il contributo da versare a un nuovo Fondo nazionale rimpatri.
Lo Sportello Unico per l’immigrazione definisce il procedimento e, in caso positivo, rilascia allo straniero richiesto dallo sponsor un “permesso di soggiorno per inserimento nel mercato del lavoro” di durata annuale. Lo sponsor, a questo punto, affida il lavoratore in prova all’imprenditore”.
Il lavoratore avrà, come è noto, un anno di tempo per cercare un’occupazione stabile per poi rinnovare autonomamente il proprio permesso di soggiorno.

Così ridotta, la figura della sponsorizzazione presenta serie difficoltà di funzionamento effettivo. Ricordo che questa sponsorizzazione era già prevista nell’art. 23 del T.U. del 1998, dove si prevedeva che la sponsorizzazione poteva essere fatta da una persona fisica, cittadino italiano o straniero legalmente soggiornante, oppure da uno di questi vari enti. Bene, nessuno di questi vari enti ha mai fatto una sponsorizzazione perché non ha nulla da guadagnarci e perché non si sa con quali fonti questi enti dovrebbero provvedere a fare le sponsorizzazioni e a vantaggio di chi. In particolare gli enti locali vengono chiamati ad assumersi delle responsabilità rispetto a scelte che non possono concorrere a perfezionare.

I visti d’ingresso
Si tratta di una proposta di semplificazione, sicuramente da condividere con cui si prevede, in conformità alla normativa comunitaria, l’eliminazione del permesso di soggiorno per i visti d’ingresso di breve durata.
Ad oggi, in base alla normativa vigente, una persona che entra con visto per turismo, deve presentare entro otto giorni dall’ingresso nel territorio nazionale (art. 5, comma 2, T.U. sull’Immigrazione) la domanda di permesso di soggiorno portando tutta la documentazione del caso; un adempimento che, per essere espletato dal punto di vista burocratico, dato il noto carico di lavoro degli uffici stranieri delle questure, richiede più tempo della durata stessa del visto e del permesso di soggiorno che potrà essere rilasciato.
Ora invece con questa proposta si prevede – sulla carta – di abolire il pds, male esigenze di sicurezza interna potranno essere garantite da una semplice “dichiarazione di presenza”.
Quale differenza ci potrà essere tra la dichiarazione di presenza da rendere alla polizia, e la dichiarazione di soggiorno (che fino ad oggi abbiamo conosciuto), non si sa. La differenza potrà essere rappresentata dal fatto che questa dichiarazione potrà essere resa all’ufficio di polizia di frontiera oppure, entro alcuni giorni dall’ingresso, al questore della provincia in cui lo straniero si trova.
Se consideriamo che la maggior parte degli ingressi per turismo avviene dalle frontiere Schengen, quindi attraversando posti di frontiera non sottoposti al controllo della polizia italiana, la maggior parte delle dichiarazioni di presenza dovrà comunque continuare ad essere presentata presso le questure. Si tratta pertanto di una modifica che sembra destinata a rimanere sulla carta che tradursi in risvolti pratici.
Sempre a proposito di visti, si parla di un canale agevolato per le alte professionalità, ma le considerazioni che abbiamo fatto a proposito dei talenti potranno di fatto ridimensionare di molto la portata di questa novità.

Un permesso amico!
Nelle note del ministro Amato, è stato inserito un capitolo intitolato Un permesso amico.
Sembra che una semplificazione effettivamente la si voglia introdurre. Non sarà una cosa rivoluzionaria, ma potrà consentire di ridurre l’intasamento delle questure che, grazie alla legge Bossi-Fini, hanno dovuto quadruplicare il numero di presentazioni degli stessi clienti stranieri, aumentando le pratiche e di conseguenza, i tempi di attesa.
“Sarà allungata la durata dei permessi di soggiorno. Quelli legati a lavori a tempo determinato potrebbero essere rilasciati per uno o due anni (non come avviene oggi, per una durata pari a quella del relativo contratto di lavoro); quelli rilasciati per contratti a tempo indeterminato potrebbero invece durare tre anni (oggi sono due, ma, aggiungiamo, in realtà spesso è solamente un anno). Questa modifica potrebbe quindi alleggerire i tempi di lavoro delle questure.
Poi si prevede – e da questo punto di vista torniamo alla regola che era stata stabilita dalla legge Martelli – che “il rinnovo del permesso, considerando che lo straniero ha ormai trovato inserimento nella nostra società, potrebbe essere rilasciato per un periodo pari al doppio di quello previsto per il primo rilascio. In attesa del rinnovo, poi, va prevista una norma che sancisca in modo esplicito la perdurante validità del permesso di soggiorno scaduto, se la domanda è stata fatta entro i termini previsti”. Non si potrà più – come in realtà succedeva – considerare lo straniero in attesa del rinnovo richiesto nei termini previsti, come una specie di presunto clandestino.
Si tratta di una novità già anticipata .
L’unica considerazione che si potrebbe fare è quella che, forse, uno sforzo in più avrebbe consentito un’ulteriore semplificazione stabilendo una regola molto semplice. Fin tanto che le questure non potranno garantire i 20 giorni stabiliti dal T.U. sull’Immigrazione (art. 5, comma 9) e per il rinnovo del pds, si continueranno a produrre tempi di attesa lunghissimi (fino ad un anno e olre!), sarebbe giusto stabilire che il pds di cui si chiede il rinnovo, venga automaticamente prorogato con l’apposizione di un timbro sul permesso stesso, fino alla data fissata dalla questura; ciò sancirebbe una corretta continuità giuridica fino al momento in cui l’amministrazione adotta i provvedimenti di propria competenza. Sarebbe uno sforzo da poco ma sembra invece che fino a qui non si voglia arrivare…

Il permesso di soggiorno per attesa occupazione
In sostanza, si prevede di tornare alla legge Turco-Napolitano, con la previsione di un pds per attesa occupazione di un anno. Inoltre, “qualora lo straniero usufruisca di uno degli istituti previsti in materia di ammortizzatori sociali (indennità di disoccupazione, cassa integrazione, indennità di mobilità) il permesso di soggiorno potrebbe essere rinnovato per lo stesso periodo”. Non si tratta di una novità perché esiste già giurisprudenza che precisa che lo straniero, nel momento in cui usufruisce degli ammortizzatori sociali, ha il diritto di prorogare il proprio pds perché altrimenti si realizzerebbe una disparità di trattamento tra cittadini italiani e cittadini extracomunitari. Disparità vietata, soprattutto in materia di previdenza sociale, dalla Convenzione internazionale n.143/75 dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro).

I permessi premiali o per motivi di protezione sociale
Una parte interessante è quella che riguarda i permessi premiali, oggi previsti a beneficio degli immigrati che denunciano un numero molto limitato di gravi reati a loro danno, e che dovrebbero essere estesi ad altri campi, in primis ai reati in tema di lavoro, per intervenire con più efficacia sullo sfruttamento, che è a volte vero e proprio asservimento, purtroppo presente nella nostra economia sommersa.
Siamo perfettamente d’accordo sull’estensione del pds per motivi di protezione sociale anche ai lavoratori vittime di gravi forme di sfruttamento. Ma c’è da dire che, fino ad oggi, non abbiamo verificato una forte sensibilità delle forze dell’ordine e della stessa magistratura – spiace doverlo dire – rispetto a queste forme di grave sfruttamento nel mondo del lavoro. Le cronache della Puglia , ma non solo, sono eloquenti. Tuttavia, sempre dalle stesse cronache, risulta che chi è vittima di queste situazioni di sfruttamento ha come normale risposta da parte delle istituzioni il provvedimento di espulsione, che peraltro sottrae testimoni rispetto alle indagini possibili.
Prevedere di estendere il pds per motivi di protezione sociale nei confronti delle vittime di gravi situazioni di sfruttamento è una cosa che proponiamo da diversi anni. Ricordo che avevamo sollevato questo argomento anche all’epoca dei cantieri edili a Roma all’epoca del Giubileo, ma non è stato preso in considerazione, anche se la normativa vigente non avrebbe bisogno di ulteriori correttivi. L’art. 600 del codice penale, come modificato nel 2003 dalla legge 11 agosto 2003 n. 228 (Misure contro la tratta di persone, G.U. n. 195 del 23 agosto 2003) prevede che per le situazioni assimilate alla schiavitù ovvero quelle situazioni di riduzione in stato di asservimento, come vengono citate dallo stesso ministro Amato, possano comportare il rilascio di un pds per motivi di protezione sociale. Nella prassi abbiamo però visto questi permessi solo in pochissimi casi che si possono contare sulle dita di una mano.

Le espulsioni
Le note non recepiscono in toto le proposte fatte da diverse associazioni, in particolare l’Asgi. Tuttavia è giusto commentare se non altro la parte positiva delle stesse.
Nelle note del ministro Amato si constata la sostanziale inefficacia dell’attuale politica delle espulsioni e la gestione dei Centri di Permanenza Temporanea (CPT) a causa di problemi noti: la difficoltà di identificare l’immigrato accertandone la nazionalità e la mancata collaborazione al rimpatrio di molti dei Paesi di origine. “Per rendere effettive le espulsioni, allora, va ricercata il più possibile la collaborazione dell’immigrato. Avvalendosi anche di quanto previsto in Francia, si introdurranno quindi programmi specifici di “rimpatrio volontario e assistito”, ai quali potranno accedere gli immigrati che collaborano alla propria identificazione, compresi i clandestini più ostici, se l’interesse prioritario è quello di allontanarli effettivamente dall’Italia. Si ritiene in questo modo di poter migliorare i tassi di identificazione, anticipando quanto è ora in fase di gestazione in ambito europeo”.
Va ricordato che il ministro Amato ha fatto presente, con una nota di cinismo, che costa meno il rimpatrio assistito piuttosto che il sistema coattivo dei Cpt, la cui onerosità e inefficacia è stata sottolineata anche in una recente relazione della Corte dei Conti.

Il fondo nazionale rimpatri – anche questa non è una novità – dovrebbe essere istituito per finanziare i programmi di rimpatrio volontario e assistito e dovrebbe essere alimentato con i contributi dei datori di lavoro che assumono immigrati e dei garanti che svolgono la funzione di sponsor.
Prevedere che i garanti, oltre ad assumersi l’onere di “garantire” si assumano l’ulteriore onere di “sponsorizzare” questo fondo per i rimpatri, lascia alquanto perplessi anche perché, verosimilmente, la modifica della legge Bossi-Fini sarà a copertura finanziaria zero. Tuttavia, la previsione di un’alternativa rispetto all’espulsione coattiva e al trattenimento nei centri di permanenza temporanea, non può che essere commentata favorevolmente anche se non sembra che questa soluzione si voglia sostituire completamente all’attuale sistema.

I centri di permanenza temporanea
Sempre per quanto riguarda il sistema delle espulsioni e dei rimpatri, nella relazione si propone un sistema che distingua nettamente fra i soggetti effettivamente pericolosi e quanti hanno magari violato soltanto la durata del loro permesso di soggiorno, così da depotenziare la questione dei Centri di permanenza temporanea. Dalla nota sembra evincersi la volontà di applicare la restrizione della libertà personale solo per i soggetti considerati pericolosi e non per quei “disgraziati”, estratti a sorte dalla lotteria della sfortuna, che sono stati trovati a lavorare in nero in qualche cantiere, piuttosto che in occasione di controlli di routine, perché semplicemente privi di un regolare permesso di soggiorno.
Desta però preoccupazione e diffidenza la considerazione finale per cui nell’ambito degli interventi strutturali che saranno intrapresi, sulla gestione dei Cpt, si potrà considerare la realizzazione nel medesimo sito di diverse sezioni di impiego.. Come dire che ci dovrebbero essere Cpt con reparti per i “cattivi”, e reparti per i “buoni”. Lascia molto perplessi questa possibilità e, soprattutto, che possa essere affidabile una differenziazione di questo genere, fatta all’interno della medesima struttura, con lo stesso organismo di gestione. Conosciamo già la realtà dei centri “ibridi”, per esempio quello di Caltanissetta, che dovrebbero essere centri di identificazione, ma anche centri di permanenza, dove all’occorrenza gli spazi vengono usati per l’uno o per l’altro scopo, o forse per tutti e due. Sembra perciò che da questo punto di vista non sia ben chiaro il proposito del governo, se non addirittura volutamente ambiguo.
D’altra parte, ricordo che quando la legge Bossi-Fini introdusse la nuova regola per cui nel Cpt si poteva essere trattenuti fino a 60 giorni (art. 14, comma 5, T.U. sull’Immigrazione), raddoppiando il tempo di detenzione, molti operatori di polizia avevano criticato questa misura dicendo che, in fin dei conti, 30 giorni sono più che sufficienti per identificare uno straniero e organizzare la sua espulsione, se ciò è possibile. Viceversa, se ciò non è possibile perché non c’è cooperazione da parte dello Stato di provenienza, questo non si può fare né in 30 né in 60 giorni. Quindi trattenere la gente per un tempo ingiustificato serve solo a gravare la spesa pubblica e, forse, a rimpinguare le finanze dei gestori di questi centri.

Conclusioni
Queste per il momento sono le novità. Qualcosa di positivo c’è, ma non sembra esserci un grosso cambiamento nell’impianto della normativa, soprattutto per quanto riguarda la logica securitaria della stessa; e ciò anche per quanto riguarda la gestione, che si sperava potesse essere più effettiva, dei flussi migratori. Insomma, non siamo in presenza di una rivoluzione copernicana ma, piuttosto, di un blando “maquillage”. Crediamo che anche le organizzazioni imprenditoriali non mancheranno di sollevare qualche obiezione al riguardo, sia pure con la classica modalità di chi è abituato a trattare in maniera discreta e diplomatica con le istituzioni.
Non mancheremo di informare su tutte le ulteriori novità in merito.