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da Voce d'Italia on line del 7 novembre 2006

Il confine della discordia

La costruzione del muro tra Stati Uniti e Messico.

Sono passati già diversi giorni dalla decisione del presidente Bush di costruire un muro di oltre 700 chilometri sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico; un’opera che costerà 1200 milioni di dollari. Una decisione perentoria e unilaterale presa che dovrebbe proteggere la frontiere secondo Bush, ma che, ovviamente, non è stata accolta positivamente né dal governo Messicano, che si rivolgerà all’Assemblea Generale dell’ONU, né dal Partito Democratico né dalla pubblica opinione americana, stando ai più recenti sondaggi.

Le proteste sono sfociate in una manifestazione che ha visto coinvolti vescovi messicani e statunitensi i quali, Venerdì 2 Novembre, hanno celebrato una messa proprio sul confine dove sono già partiti i lavori per la costruzione del muro. Un momento in cui i vescovi hanno ribadito la contrarietà a una tale misura perché in palese violazione della dignità umana e, soprattutto, perché presa senza il consenso dello Stato confinante. È significativo che gli stessi esponenti del clero americano, sui quali Bush ha contato molto per la sua rielezione due anni fa, si siano resi protagonisti di un’azione di questo tipo; il tutto in un luogo tragicamente emozionante, il confine Stati Uniti-Messico, dove in alcuni punti, come a Tijuana, sul muro di lamiere che divide i due stati nordamericani campeggiano le croci artigianali che ricordano le vittime dei fucili yankee che cercavano di entrare illegalmente nel paese delle possibilità.

Su ogni croce i nomi di coloro che provarono a varcare il confine finendo riversi a terra senza rendersi conto di cosa fosse successo; spesso si trattava di minorenni con il sogno americano da conquistare, anche a costo di quella vita che odiavano e che volevano fortissimamente cambiare. La suggestione di questi luoghi è amplificata dalle strisce gialle di plastica che solitamente delimitano le scene del crimine (rese famose dai telefilm polizieschi), attaccate sulla rete e che vorrebbero essere un monito per ricordare che lì sono stati compiuti degli omicidi, se non delle esecuzioni.

La legge voluta da Bush è stata accompagnata da una richiesta al Parlamento di approvarne un’altra sui permessi temporanei di lavoro per gli immigrati: una misura per regolare i flussi migratori, da una parte, e abbassare il costo del lavoro, dall’altra. Se, infatti, l’immigrazione messicana è fortemente ostacolata, quella cubana al contrario è favorita con chiari intenti propagandistici; gli immigrati cubani ottengono più facilmente la cittadinanza americana rispetto a quelli messicani, diventando manodopera a basso costo funzionale agli interessi economici degli Stati Uniti, che riuscirebbero, così, a riassestare la disoccupazione statunitense e a mantenere il Messico come primo mercato d’esportazione per merci di scarsa qualità.

Oltre a motivi di ordine economico, dietro la decisione di Bush di costruire il muro sembra esserci l’estremo tentativo di recuperare i voti dello “zoccolo duro” repubblicano in vista delle imminenti elezioni di midterm, che vedrebbero in vantaggio i Democratici; sembra, infatti, che buona parte degli elettori repubblicani snobberanno le urne, un po’ per disinteresse un po’ per protesta, e una manovra come questa, che riafferma la superiorità e l’autorità degli Stati Uniti “bianchi”, potrebbe rinvigorire le volontà elettorali della destra repubblicana.

Se la soluzione proposta da Bush non convince per motivi umanitari ed etici, non lo fa neanche sotto l’aspetto pratico: oltre all’elevato costo di realizzazione già menzionato per il quale non bastano i fondi attualmente stanziati, lo stesso presidente degli Stati Uniti è conscio che non basta un muro per fermare le persone e risolvere la questione dell’immigrazione clandestina. Questa misura rivela una volta ancora come la politica estera americana sia essenzialmente basata sulla forza a scapito della diplomazia, non fornendo, perciò, soluzioni credibili a lungo termine.

È lo stesso concetto di “muro”, simbolo delle divisioni del ‘900, che non è più plausibile nell’era della globalizzazione così tanto celebrata quando in ballo ci sono interessi economici e così tanto temuta quando si parla di persone. Il muro di Berlino ha in un certo senso spiegato all’umanità che le barriere architettoniche non sopravvivono alle donne e agli uomini, e per questo non hanno senso. Nella scelta di frapporre un muro tra gli Stati Uniti e il Messico c’è la stessa tensione che ha eretto quello tra Israele e Palestina: se le motivazioni addotte dal governo israeliano sono state quelle della lotta al terrorismo, basta dare un’occhiata al percorso schizofrenico di questo muro per capire che dietro la separazione ci sono interessi di tipo economico e sociale. I posti di blocco sono come i ponti levatoi dei castelli medievali, attraverso i quali si poteva decidere la composizione sociale della propria comunità e la definizione dei ruoli al proprio interno.

Il muro è il tentativo di affermare un senso d’appartenenza virtuale, escludente e paralizzante; dietro quel muro rischiamo di diventare come gli abitanti di Leonia, una delle Città Invisibili di Calvino, convinti della propria indistruttibilità, ma ignari delle conseguenze funeste delle nostre scelte al di là dei confini di pietra.

Mario Pasquali