Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Intervista a Michael Hardt. Duke University, USA

Lo sfruttamento dei migranti non avviene solo nei settori dell’economia per così dire materiale, con la messa a valore dei loro corpi. Anche negli ambiti più immateriali del terzo settore, dalla musica alla moda, dalla produzione dei saperi al design, le energie, le esperienze, e in generale l’apporto che i migranti danno alla nostra società sono continuamente utilizzati a livelli altissimi di produzione economica.
Il coautore di “Impero” ci conduce così attraverso l’analisi di un sistema complesso, contraddittorio, che si può riscontrare nel nord-est italiano con la sua società meticcia grazie alla “ricchezza” dei migranti, come alla frontiera tra Stati Uniti e Messico dove si è dato il via alla costruzione del più spaventoso dei “muri” della post-modernità.
Dai diritti dei lavoratori precari ai diritti di cittadinanza, dalle lotte dei latinos alle azioni contro i CPT italiani, è necessario sviluppare nuove forme di resistenza ragionando su “quel livello di intercambio globale e spesso di dittatura globale proprio della logica della sicurezza e delle sue politiche”.

Vorremmo approfondire con te il senso di unire insieme nello stesso discorso una lotta contro la precarietà per reimpostare nuove politiche reali sul lavoro e una lotta per la chiusura dei centri di detenzione per chiedere delle politiche migratorie che siano diverse. Come si intrecciano quindi diritti dei migranti e diritti dei lavoratori precari?

È chiaro che sono legati perché il lavoro dei migranti è necessario, è necessario per l’economia italiana in tutti i sensi. È forse facile cominciare con i lavori tradizionali che hanno bisogno di manodopera, per esempio in Italia nel settore della raccolta e nei vari livelli dell’impiego in cui normalmente il prezzo per i lavoratori italiani è troppo alto e dove quindi serve spesso una manodopera immigrata.
Anche nella seconda zona dell’economia, nelle fabbriche, ed è chiaro particolarmente nel nordest, c’è una mancanza di manodopera e una necessità del lavoro degli immigrati, in fabbrica come in tutta una serie di posti del lavoro industriale.

È certo che un’altra cosa evidente e però bisogna sempre insistere su questo, è che il lavoro degli immigrati, anche se necessario in tutti questi livelli, è spesso invisibile e quindi ci vuole sempre un modo per renderlo visibile e questa è la cosa certamente molto importante di una giornata di lotta come questa: rendere visibile questo legame tra immigrazione e lavoro, come hai detto tu, precisamente. Ma quindi l’area del lavoro che mi interessa di più, e forse quella che è più nascosta, è nell’attività del terzo settore cioè nel lavoro dei prodotti immateriali,- ad esempio nella moda e in tutti quei campi legati all’idea di creatività- immagini, idee, saperi eccetera- perché è certo che anche questi settori dell’economia hanno bisogno del lavoro degli immigrati, e ne hanno bisogno per una specie di attività di appoggio per i lavoratori ben pagati di questa economia postindustriale. servono le badanti e tutti gli altri servizi, anche i servizi tecnici che servono per questi lavori…

Quindi servono lavoratori invisibili che rendono possibile il lavoro dei lavoratori privilegiati che sono sempre di meno…

Sì, bello come lo dici, proprio così, e c’è anche un’altra cosa che è molto più difficile cogliere, che questa creatività fatta di saperi, di immagini, di tutta questa serie di prodotti immateriali e che certo non consiste semplicemente in un soggetto che lavora in un ufficio di design o di pubblicità, per questa creatività ci vuole tutto un circuito sociale di differenze.
Questa è un’idea che è molto difficile da verificare perché è molto difficile verificare dove nasce la creatività, però, già con alcuni esempi possiamo cogliere almeno in parte queste cose.
Per esempio pensando agli Stati Uniti, perché conosco molto meglio gli Stati Uniti, è chiaro che c’è tutta una classe subordinata diciamo che è essenziale per la più alta creatività economica che abbiamo. Per esempio – un esempio anche un po’ riduttivo in questo senso – quando pensiamo alla musica “hip hop” che non è solamente uno stile musicale ma anche uno stile di moda e di immagine, questa è creato certamente a un livello sociale molto basso, nello specifico, da afro-americani.
È qui che in parte è nato un settore di creatività che viene assorbito e usato ad un altissimo livello di economia.
Credo che in Italia, e nel nord-est in particolare dovrebbe funzionare nella stessa maniera, e che cioè anche qui solo le differenze sociali siano capaci di creare questa creatività tanto necessaria per l’economia avanzata della zona.

Cioè è questa nostra società nonostante tutto meticcia che stimolala creatività…

Sì. E certo bisogna riconoscere anche, e questa è un’altra cosa difficile da cogliere, in particolare per quelli che non hanno lavorato con gli immigrati, che gli immigrati non sono solamente poveri. Certo sono poveri nel senso che sono spesso senza diritti e anche senza ricchezza materiale, ma sono ricchissimi proprio nei fondamenti della creatività cioè sono ricchi di linguaggi, di saperi, di tutta l’esperienza, anche della strategia di sopravvivere.
In questo senso bisogna riconoscere la loro ricchezza nella creatività per capire come può funzionare un’economia a questo altissimo livello.
Insisto su tutto ciò non per negare o non dare enfasi a tutta quell’altra parte dell’economia in cui lavorano gli immigrati. Cerco di dare enfasi a questo ragionamento perché mi sembra più invisibile degli altri: la necessità sociale di una produzione sociale della partecipazione degli immigrati per il funzionamento dell’economia stessa dell’Italia e del Nord-est.

Sicuramente questo è il lato meno indagato fino ad ora della messa a valore non solo quindi dei corpi dei migranti ma anche delle loro energie, delle loro esperienze, del loro apporto continuo alla nostra società.
Da una parte quindi, delle politiche repressive che formalmente combattono l’immigrazione e rendono comunque impossibile la vita dei migranti, e dall’altra tutto un sistema di istituzioni che comunque riesce a sfruttare sotto diversissimi aspetti e a mettere a valore le stesse migrazioni. Ma tornando all’incrocio delle due “azioni” di oggi, quindi ad un discorso prettamente svolto sui migranti e ad uno che si concentra in generale sul lavoro, in quale modo tu pensi che oggi si possano veramente incrociare i diritti dei lavoratori italiani o europei con i diritti dei migranti? E’ veramente possibile fare di due lotte una soltanto, riuscire a parlare lo stesso linguaggio e forse in questo modo diventare più forti?

Secondo me bisogna riuscire a parlare nello stesso momento dei diritti dei lavoratori immigrati e di quelli italiani o europei perché, come dire, quando sono negati i diritti dei lavoratori immigrati sono anche compromessi quelli dei lavoratori europei. E poi dall’altro lato, come abbiamo già detto, è una necessità anche dei padroni, degli imprenditori, di avere accesso al lavoro degli immigrati.
Questa è una contraddizione e spesso un’ipocrisia del governo e della destra che, da un lato nega i diritti e le possibilità di movimento degli immigrati, e dall’altro è costretto a richiedere o accettare invisibilmente spesso il loro contributo, il loro lavoro. Quindi la doppia lotta di mettere insieme diritti dei lavoratori e diritti degli immigrati mi sembra essenziale.

Mi sembra che il meccanismo che tu stai disvelando sia stato portato alla ribalta in modo eclatante e incredibile durante la grandissima manifestazione americana del latinos, “Un dia sin nosotros”, che ha visto la partecipazione di milioni di persone che per rendersi finalmente visibili si sono sottratte al loro lavoro, hanno scioperato e hanno dimostrato come un paese senza di loro in realtà si fermi.

Certo. Questo credo che sia un buon punto di riferimento perché lì era reso visibile che la questione dei diritti degli immigrati è anche una questione del bisogno per l’economia degli Stai Uniti di avere la loro presenza, che è spesso invisibile. Quindi hai ragione a dire che anche loro in quel momento hanno cercato di condurre questa doppia battaglia su diritti di cittadinanza e diritti in quanto lavoratori, insieme, quel primo maggio, rifiutando di dare il loro lavoro.

Rimanendo negli Stai Uniti, nel tuo paese, possiamo fare un ultimo commento su quelle che sono le politiche migratorie americane in questo momento, che purtroppo sembrano anche ispirare più o meno direttamente quelle che poi a distanza sono le politiche europee, non solo nella guerra ma anche appunto nella gestione delle migrazione che spesso poi sono un altro aspetto della guerra.
L’America sta scegliendo un muro, un muro vero e proprio per separare la zona degli sfruttati da quella degli sfruttatori, potremmo chiamarla così, cosa sta succedendo in questo momento alla frontiera col Messico?

Questa è un’operazione molto contraddittoria perché giusto questo autunno, dopo la lotta degli immigrati e dopo una nuova ondata di repressione e della costruzione del muro eccetera, c’erano tanti imprenditori che hanno protestato col governo perché non hanno abbastanza lavoratori, non hanno abbastanza manodopera perché è stato ridotto il flusso dal Messico negli Stati Uniti.
Quindi nella destra americana è in corso una forte battaglia e una contraddizione tra la necessità imprenditoriale e una specie di repressione morale-politica. È una battaglia dentro la destra. Nella sinistra io direi che le lotte in Italia in particolare e in Europa ingenerale sono più avanzate nel senso che negli Stati Uniti fino ad ora non c’è stata la capacità di legare o di metter insieme i diritti degli immigrati con altre lotte sociali.
La situazione dei latinos è stata fino ad ora molto separata da altre lotte contro ad esempio la precarizzazione del lavoro in generale.
Questa mi sembra un cosa che invece sta succedendo qui, in particolare oggi, e che non siamo ancora riusciti a fare negli Stati Uniti.

Michael, un’ultima battuta sull’idea che ti sei fatto del sistema di detenzione dei migranti qui in Italia, per ritornare un attimo su quello che sta succedendo a Firenze in questo momento: volevo chiederti di commentare qui il sistema dei centri di permanenza temporanea italiano per come tu l’hai conosciuto, e anche di dirci come funziona un po’ questo aspetto negli Stati Uniti, se esiste qualcosa di analogo.

Sì, come spesso in queste cose, negli stati Uniti è in gran parte molto peggio per la quantità dei migranti che sono chiusi in questi centri e anche per la difficoltà di intervenire nel sistema. Devo ammetter che noi non siamo fino ad ora riusciti a costruire una lotta come questa contro i CPT, i campi di detenzione da noi, e tanto meno- cosa che presuppone un livello ancora più avanzato- contro quelli che gestiscono i campi.
Detto questo, i campi di detenzione sono una delle cose più vergognose che si possano immaginare, e attaccarli mi sembra il minimo che si possa fare, dato che si ha la forza di farlo, e questa è una cosa che ammiro nelle lotte e nei movimenti qui in Italia e spero di sviluppare anche da noi prossimamente.

Anche perché sembra che quindi dall’Italia agli Stati Uniti si tratti in realtà di una gestione mondiale, globale delle migrazioni. Si può parlare quasi di un apartheid mondiale, non sono questioni localizzate, ma probabilmente connesse a livello di tutti i paesi del mondo

Sì, è vero che a un certo livello di astrazione, a un livello politico diciamo, questo discorso di sicurezza e anche la gestione della sicurezza è certamente legato, come dici. È vero che bisogna attaccare quelli che gestiscono le cose localmente, ma hai ragione che dobbiamo sempre pensare a quel livello di intercambio globale e spesso di dittatura globale di questa logica di sicurezza e delle sue politiche.