Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Le nuove leggi sull’immigrazione in Europa e negli Stati Uniti

Report della giornata di studi organizzata dal Master sull’immigrazione dell’Università di Venezia in data 15 Dicembre 2006

Italia, Francia, Germania, Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti: cosa hanno in comune questi paesi tra loro?
Innanzitutto il fatto di appartenere tutti a quel pezzo di mondo cosiddetto “sviluppato”, economicamente dominante, politicamente autorevole (o autoritario), i cui cittadini, almeno tendenzialmente, godono di cittadinanze privilegiate che garantiscono loro diritti, come quello alla libertà di circolazione, negati invece agli abitanti dell’altra parte del pianeta.
In secondo luogo, proprio in conseguenza delle caratteristiche appena elencate, sono tutti, a diversi livelli, paesi di immigrazione più o meno recente, luoghi in cui i migranti provenienti dai territori delle “cittadinanze deboli” cercano di trovare uno spazio per cambiare la propria vita e quella delle proprie famiglie, e a volte per sfuggire a violenze e persecuzioni.
Inoltre, sono tutti paesi in cui la presenza di questi migranti ha portato negli ultimi decenni un considerevole aumento di ricchezza e produttività in settori centrali, seppure spesso poco visibili, della loro economia.
Infine, nonostante quanto appena detto, sono tutti paesi le cui politiche migratorie vengono da tempo stabilite in base a un vortice di violenza e repressione che sembra crescere ogni giorno di più, indipendentemente dai diversi orientamenti dei governi che di volta in volta si trovano a legiferare su questa materia.

E così la giornata di studi organizzata dal Master sull’immigrazione dell’Università di Venezia si dipana attraverso una serie di interventi distanti tra loro per i contesti geografici che descrivono, ma nella sostanza profondamente connessi:

Un attivista antirazzista di Chicago racconta di come le ultime proposte di legge sull’immigrazione contemplino l’erezione di mura di 700 miglia alla frontiera col Messico (ce n’è già uno di 350), l’inasprimento delle pene per i migranti irregolari e per tutti coloro che in qualche modo li aiutano offrendo lavoro o ospitalità, l’impossibilità sostanziale di accedere alla cittadinanza americana, e la distruzione nei fatti del diritto al ricongiungimento familiare.

Un sindacalista della Cgil italiana denuncia le pratiche introdotte dalla legge Bossi-Fini, e ancor prima dalla Turco-Napolitano, che discriminano i migranti non considerandoli mai come cittadini ma esclusivamente come forza lavoro da mantenere in condizione di inferiorità giuridica e sociale, che scelgono di spendere molto più denaro per la gestione dei Centri di Permanenza Temporanea rispetto a quanto non ne investano per le politiche di integrazione (112.000.000 di euro contro 50.000.000 di euro) e che, soprattutto, si ostinano a trattare i “non-nazionali” come criminali, costringendoli ad esempio a sbrigare tutte le pratiche burocratiche legate al loro status presso le Questure e tramite le forze di polizia, piuttosto che presso gli enti locali come sarebbe più logico oltre che giusto.

Il professore Alain Morice, dell’Università di Paris VII, descrive una situazione francese dominata dal concetto, promosso in modo esplicito dal ministro degli Interni Sarkozy, di un’immigrazione che deve essere “scelta” e non “subita” (ovvero del migrante da usare quando serve e da non considerare mai come soggetto di diritti) e dall’idea di una “integrazione repubblicana” che consiste nel dimostrare una “appropriata formazione civica e linguistica” ai fini di ottenere o rinnovare una carta di soggiorno che non sia del tutto precaria. Morice denuncia così come il significato della stessa parola “integrazione” sia stato ormai stravolto dalla politica francese rispetto a quello originario del termine che Durkheim aveva coniato per definire un processo certamente non univoco e di esclusione, ma “plurale” e di coesione di una società nella sua interezza.

Con parole molto simili il Professore Peter Kammerer racconta come i singoli lander della Germania si siano tutti dilettati nella compilazione di incredibili questionari da sottoporre ai migranti che vorrebbero ottenere un permesso di soggiorno, comprendenti domande relative alle vittorie o alle sconfitte calcistiche della nazionale tedesca negli ultimi 50 anni o l’elenco puntuale di diritti costituzionali di cui loro per certo non godranno mai.

Segue la descrizione, da parte del professore Charles-André Udry, di un panorama politico svizzero in cui sotto il pretesto della guerra agli “abusi” e le frodi a danno del Welfare, si nascondono in realtà pratiche sempre più autoritarie e discriminatorie nei confronti dei migranti, accompagnate spesso da un “ritorno” alla religione che assomiglia più a un “ricorso” strumentale alla religione al fine di giustificare politiche sicuritarie apertamente islamofobiche.

E infine, rientra perfettamente nel quadro generale il racconto di Orsola Casagrande del Manifesto, che denuncia il triste primato, in ambito di politiche migratorie europee del governo Blair. Specie dopo l’11 Settembre e le bombe a Londra del 7 Luglio, l’Inghilterra ha infatti introdotto nuove leggi “in deroga” alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ad esempio l’incarcerazione senza processo per i sospettati di terrorismo), ha maggiormente inasprito la già aberrante detenzione generalizzata dei richiedenti asilo, uomini, donne e bambini, nei detention centre (come sottolinea la giornalista gli inglesi hanno almeno il pregio di chiamare le cose col loro nome) e ha aumentato le deportazioni verso paesi dove i migranti rischiano di subire ulteriori violenze, torture, stupri e umiliazioni. Un meticoloso lavoro politico e mediatico ha ormai ampiamente affermato l’idea che dietro ogni richiedente asilo si nasconda un “bogus asylum seeker”, qualcuno che, usando strumentalmente il pretesto di aver subito trattamenti inumani e degradanti, cercherebbe soltanto, in realtà, di abusare dell’accoglienza e delle risorse degli inglesi.

Dovunque, nei paesi presi in considerazione, la tutela della vita e dei bisogni delle persone appare così, nei fatti, essere considerato di minor valore rispetto alla necessità del loro sfruttamento economico legato a una riorganizzazione internazionale dei processi di produzione. Secondo lo stesso principio, l’esigenza dei governi di riprodurre e usare strumentalmente ansie securitarie e sentimenti xenofobi relativi alla perdita di una “purezza nazionale” sempre più evanescente, prevale sui dichiarati, antichi valori europei di universalità dei diritti umani, di giustizia, di civiltà.
Chi arriva nei nostri territori come migrante, sembra pertanto condannato a restare migrante per tutta la vita, considerato che il concetto di cittadinanza che si sta affermando tanto nella nuova Unione europea quanto negli Stati Uniti d’America è quello di uno status esclusivo, la cui stessa sostanza e il cui stesso significato riposano sulla non-appartenenza di altri piuttosto che sulla condivisione di qualcosa di comune. Mentre la forza lavoro dei migranti muove l’economia dei paesi che calpestano i loro diritti, la chiusura verso chiunque non appartenga diventa così il surrogato di un’identità perduta che aveva la sua unica possibilità di ri-fondazione proprio nel coraggio, che si è scelto di non avere, di rimetterla in discussione profondamente dalle (fragili) fondamenta.
Ma, per fortuna, come la mondializzazione influisce sull’organizzazione globale delle politiche repressive, agisce anche sulla possibilità di coordinamento delle lotte che ad esse si oppongono. Lo spiraglio, la speranza di un cambiamento possibile, sembra quindi venire da quei movimenti che a diversi livelli e con differenti modalità stanno attraversando tutti i paesi di cui abbiamo parlato. La resistenza dei sans-papier o la Rete di Education Sans Frontières in Francia, schieratasi contro le espulsioni dei minori e dei ragazzi immigrati che frequentano le scuole francesi, hanno ottenuto nella terra della “integrazione repubblicana”, importanti successi. I migranti Latinos che, al fianco di associazioni, sindacati e strutture religiose, hanno dato vita al I maggio di “un dia sin nosotros”, hanno saputo dimostrare a se stessi e all’America intera come fossero in grado, con un solo giorno di sciopero, di paralizzare importanti settori dell’economia degli Stati Uniti. Le lotte contro i Cpt italiani, le azioni di disobbedienza civile, le denunce di chi ha voluto raccontare le deportazioni e le violenze istituzionali contro i migranti, hanno lentamente svelato l’ipocrisia e il sostanziale razzismo delle leggi dei governi di centro-destra e di centro-sinistra in Italia provocando quanto meno profondo imbarazzo e grande difficoltà nel continuare a nascondere le pratiche repressive dietro un aspetto falsamente umanitario.
Non resta allora che impegnarsi affinché questa presa di coscienza, questo coraggio di resitenza e opposizione alla svalutazione della vita umana e all’imposizione di un sistema politico ed economico strutturalmente gerarchizzato e spietato, possano rivelarsi contaminanti e contagiosi, potenti e capaci di determinare sempre più le dinamiche reali delle nostre società.

di Alessandra Sciurba