Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 10 dicembre 2006

Trecento annegati e due sopravvissuti

A teatro
Gianni Manzella, Roma
La creazione collettiva orchestrata da Giorgio Barberio Corsetti al Romaeuropa festival; Gianfranco Pedullà e i detenuti del carcere di Arezzo; Roberto Del Gaudio a Napoli tra commedia e tragedia sulla crisi degli alloggi «Portopalo» un requiem per le vittime della notte di natale 1996 nelle acque del canale di Sicilia
Certo è un caso che il debutto di Portopalo, la creazione collettiva orchestrata da Giorgio Barberio Corsetti all’Auditorium per Romaeuropa festival, si sia prodotto proprio nelle stesse ore della sfarzosa baracconata della prima alla Scala.
E però qualche domanda spinge a porsela, questa coincidenza, sul senso e sulla forma espressiva che può avere nel presente un teatro musicale che non voglia essere solo operazione colta o peggio, come a Milano, un grande magazzino del kitsch (che poi ai nostri governanti piaccia, e temiamo in maniera sincera, quella roba lì, senza nemmeno interrogarsi sul suo carattere reazionario, è il segno che c’è poco da stare allegri per il futuro della nostra cultura). E ancora sull’immagine che ci rimanda di un «oriente» rimosso a lungo dietro la maschera colorata e non sempre innocente dell’esotismo e ora percepito d’un tratto soprattutto come minaccia.
Non è un caso invece che l’evento sia realizzato a dieci anni dal naufragio della «nave fantasma», come poi era stata scetticamente ribattezzata la sgangherata carretta del mare naufragata al largo della costa siciliana, apparentemente scomparsa nel nulla col suo carico umano.

Dieci anni che hanno sbiadito il ricordo di quella tragedia, da questa parte del mondo. Non così invece per chi l’ha subita dolorosamente in prima persona.
I due sopravvissuti presenti qui, sul palco, con la loro commossa testimonianza e la loro richiesta di giustizia, ma soprattutto col loro corpo che non può non richiamare alla mente quelli dei tanti che potevano essere vivi e non lo sono più. I familiari e gli amici rimasti nei paesi di partenza, in Pakistan, Sri Lanka, Punjab. Le ragazze Tamil, le donne di Tordher, gli uomini di Gujrat, gli occhi dei bambini uguali da ogni parte. O quegli altri che di qua per altre vie ci sono arrivati, e non hanno meraviglie da raccontare, a Roma, a Palermo, dove la piccola comunità cingalese ancora ricorda lo sgomento della notizia.
Morirono quasi in trecento, nella notte di natale 1996, nelle acque del canale di Sicilia, dopo essere stati privati di tutto e per mesi sbattuti da una barca all’altra, con poco cibo e poca acqua. Sul grande schermo che chiude la scena appare un mare agitato, passano ondeggiando una giacchetta rossa e altre povere cose. A lungo i corpi che riemergevano vennero ributtati in mare, per l’ingenua paura che ne avesse danno la pesca. Nomi, su tombe senza corpi dice il sottotitolo. Giacché il tormento maggiore è proprio di non aver avuto indietro nemmeno un corpo su cui piangere o pregare, per i parenti dei naufraghi interrogati dalla videocamera di Paolo Pisanelli.
Creazione collettiva, si è detto. Portopalo intreccia senza soluzione i diversi piani compositivi, il qui e ora della scena e il reportage filmato, le immagini e le voci, la testimonianza giornalistica e la memoria del vissuto, lo sguardo vicino e quello lontano, il piano emotivo e la denuncia della vergogna di quei corpi lasciati ancora in fondo al mare. Così le musiche composte da Riccardo Nova integrano e fanno proprie le sonorità di quei luoghi, le percussioni e la vocalità ipnotica del canto tradizionale pakistano, la sorta di fisarmonica Tamil tenuta in mano come un grande libro da aprire e chiudere, dentro il contrappunto creato da violoncello e tastiere elettroniche.
Ma lo spettacolo non si lascia facilmente imbrigliare dentro la definizione consolatoria di teatro civile. Un requiem, lo definiscono gli artefici, con buone ragioni.
Di un nostos, un viaggio di ritorno, potremmo altrimenti parlare. Un viaggio a ritroso verso paesi che conoscono l’Italia da un mappamondo e dai racconti di chi è partito, e infatti sono quelle immagini e quelle voci di là a parlarci più di tutto. Un mondo che può apparirci dimezzato, per l’assenza dalle strade delle donne.
Che ritroviamo invece forti nel loro dolore, all’interno delle case, anche quando nascoste dietro un velo. Immobili stringono le fotografie dei ragazzi morti. E in quella finale carrellata di volti è racchiuso il sentimento di un’umanità indivisibile.