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Sentenza della Corte Costituzionale n. 78 del 16 marzo 2007

Clandestinità - Divieto di concessione di misure alternative - Illegittimità costituzionale

Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), ove interpretati nel senso che allo straniero extracomunitario entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative da essi previste. La questione era stata sollevata in sede di giudizio di rinvio a seguito di annullamento, ad opera della Corte di cassazione, del provvedimento di concessione della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale ad un cittadino extracomunitario privo del permesso di soggiorno. Il principio di diritto enunciato nella occasione dal giudice di legittimità, che la Corte costituzionale ha ritenuto in contrasto con il precetto costituzionale della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, della Costituzione), era stato già smentito da un diverso indirizzo ermeneutico, confermato dalla stessa Corte di cassazione, a sezioni unite, con la sentenza n. 14500 del 28 marzo 2006 (successiva alla ordinanza di rimessione della questione di legittimità costituzionale), secondo il quale la presenza illegale nel territorio dello Stato, pur esponendo lo straniero alla espulsione amministrativa, da eseguire dopo la espiazione della pena, non osta alla concessione delle misure alternative alla detenzione ove il giudice ravvisi – sia pure in esito ad un vaglio adeguatamente rigoroso, in correlazione alla particolare situazione del richiedente – la sussistenza dei presupposti di accesso a dette misure.

Testo della sentenza

(Presidente F. Bile – Relatore M.R. Saulle)

RITENUTO IN FATTO

1.- Il Tribunale di sorveglianza di Cagliari, con l’ordinanza in epigrafe specificata, ha sollevato, in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché degli artt. 5, 5-bis, 9, 13 e 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).

In punto di fatto, il rimettente osserva che, dopo aver concesso a R. E. O, condannato per il reato di cui agli artt. 73 e 80, comma 2, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, la Corte di cassazione ha annullato con rinvio il suddetto provvedimento sul presupposto che il detenuto, cittadino extracomunitario, era illegalmente presente sul territorio nazionale.

In particolare, la Corte di cassazione, in accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Cagliari, ha ritenuto che la concedibilità delle misure alternative alla detenzione è subordinata – oltre che all’esistenza delle condizioni per ciascuna di esse specificamente previste – al rispetto del limite di legalità estrinseca dell’ordinanza che concede il beneficio, costituito dall’assenza di contrasto con norme imperative. Da ciò consegue che, essendo contra legem la permanenza nello Stato di uno straniero che non ha rinnovato il permesso di soggiorno, l’esecuzione della pena in regime di misura alternativa non potrebbe che avvenire, nel caso di specie, con violazione o, comunque, elusione delle norme che regolano il fenomeno dell’immigrazione.

Il rimettente ritiene che tale interpretazione, vincolante nel giudizio a quo, sia in contrasto con il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena al quale si ispirano i diversi benefici penitenziari extramurari, giustificandosi il trattamento carcerario solo fino al limite del pieno ravvedimento del condannato, limite oltre il quale non è consentita la prosecuzione della detenzione.

Osserva, infatti, il giudice a quo che, secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione, per i detenuti stranieri non appartenenti ad uno Stato aderente all’Unione europea che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, non sarebbe possibile accedere ai suddetti benefici seppure ritenuti, nel caso concreto, più idonei a soddisfare l’esigenza rieducativa del condannato, in tal modo creandosi un regime penitenziario speciale per tali soggetti, individuati non già alla stregua di indici rivelatori di una particolare pericolosità, quanto piuttosto di un dato del tutto estrinseco e formale, oltre che tendenzialmente immodificabile, quale la loro presenza irregolare nel territorio nazionale.

Tale disciplina, sempre secondo il rimettente, si porrebbe in contrasto con il principio affermato da questa Corte secondo cui ogni misura incidente in senso sfavorevole sul regime penitenziario del detenuto, come la revoca di un beneficio, deve conseguire ad una condotta addebitabile al condannato, in quanto la finalità rieducativa della pena, seppure non può ritenersi in senso assoluto prevalente su ogni altro valore costituzionale, non può, comunque, essere compressa fino al punto di venire del tutto cancellata da altri valori di rango costituzionale come, nel caso di specie, la disciplina dei flussi dei fenomeni migratori.

Conclude il rimettente ritenendo che l’art. 47, della legge n. 354 del 1975, che disciplina l’affidamento in prova, e gli artt. 5, 5-bis, 9, 13, del d.lgs. n. 286 del 1998, che prevedono, in caso di assenza di un titolo abilitativo, l’obbligatoria espulsione dello straniero irregolare, così come interpretati dalla Corte di cassazione, violerebbero l’art. 27, terzo comma, della Costituzione.

Ad analogo esito ricostruttivo si deve pervenire, sempre a parere del giudice a quo, con riferimento alla misura dell’ammissione al regime di semilibertà, misura che il Tribunale rimettente ritiene applicabile nel caso di specie, sia pure in via subordinata, qualora non dovesse concedere l’affidamento. In tal caso, peraltro, il contrasto con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione coinvolge, oltre agli artt. 48 e 50 della legge n. 354 del 1975, anche l’art. 22 del d.lgs. n. 286 del 1998, poiché lo svolgimento dell’attività lavorativa costituisce, a differenza di quanto avviene nel caso dell’affidamento, uno dei presupposti per l’ammissione al regime di semilibertà; per cui l’inderogabilità del divieto penale per il datore di lavoro che impieghi lo straniero irregolare in attività di lavoro subordinato, contenuta nel citato art. 22, configurerebbe un limite alla possibilità di accedere al beneficio in questione per il detenuto.

In punto di rilevanza, il rimettente osserva che la eventuale sanzione di incostituzionalità che dovesse colpire le disposizioni censurate sarebbe suscettibile di riverberarsi sul giudizio principale, potendo in tale caso emettersi un provvedimento che consentirebbe al ricorrente, il quale ha nel frattempo portato avanti la misura in modo del tutto impeccabile, di proseguire nel percorso di reinserimento attraverso l’affidamento o la semilibertà.

2.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile o infondata, senza motivare le suddette richieste.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Il Tribunale di sorveglianza di Cagliari dubita, in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché degli artt. 5, 5-bis, 9, 13 e 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).

Il rimettente, investito del giudizio di rinvio a seguito dell’annullamento, ad opera della Corte di cassazione, del provvedimento con il quale era stato concessa la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale ad un cittadino extracomunitario privo del permesso di soggiorno, assume che il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, cui egli è vincolato, implicherebbe il contrasto delle norme sopra indicate con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione.

Secondo detto principio di diritto, la permanenza nello Stato dello straniero privo di un valido ed efficace permesso di soggiorno non può trovare titolo nella concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale. L’applicazione della suddetta misura comporterebbe, infatti, una deroga al d.lgs. n. 286 del 1998, ponendosi, anzi, in contrasto con l’art. 13 dello stesso decreto che disciplina, limitandone l’estensione e gli effetti, i casi di interferenza dei provvedimenti giurisdizionali sulla posizione dello straniero illegalmente presente nel territorio dello Stato.

A parere del rimettente, il cennato principio di diritto determinerebbe, in violazione del precetto costituzionale della finalità rieducativa della pena, un regime penitenziario speciale e di sfavore nei confronti di un insieme di persone condannate, vale a dire i cittadini stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato, individuati, non già sulla base di indici rivelatori di una particolare pericolosità sociale − secondo modalità già sperimentate nell’ambito dell’ordinamento penitenziario − quanto sulla scorta di un dato «estrinseco e formale», quale il difetto di titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato. In tal modo risulterebbe eluso, sempre a parere del giudice a quo, il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in forza del quale ogni misura incidente in senso sfavorevole sul trattamento penitenziario deve conseguire ad una condotta colpevole addebitabile al condannato, non potendo le esigenze di difesa sociale − ancorché rilevanti sul piano costituzionale, perché sottese alla regolamentazione dei flussi migratori − annullare la finalità rieducativa della pena.

2.- In via preliminare, va affermata la rilevanza della questione di costituzionalità sollevata.

La consolidata giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 58 del 1995, n. 257 del 1994, n. 138 del 1993) ha, infatti, statuito la piena legittimazione del giudice di rinvio a sollevare dubbi di costituzionalità concernenti l’interpretazione normativa risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, e ciò in quanto il rimettente deve fare applicazione nel giudizio di rinvio della norma nel significato in tal modo attribuitole e non si è, dunque, al cospetto di rapporti “esauriti”.

Il vincolo di conformazione del giudice di rinvio al principio di diritto, peraltro, non viene meno in caso di successivi mutamenti degli indirizzi interpretativi del medesimo giudice di legittimità, sì da consentire al giudice del rinvio l’adozione di approcci ermeneutici diversi dai contenuti cristallizzati nel principio di diritto ed eventualmente risolutivi del dubbio di costituzionalità (sentenza n. 130 del 1993).

Stante, dunque, l’obbligatoria applicazione delle regulae iuris enunciate all’esito del giudizio rescindente da parte del giudice di rinvio e la facoltà riconosciuta a quest’ultimo di revocare in dubbio, sotto il profilo della legittimità costituzionale dette regole, oggetto dello scrutinio di costituzionalità risulta essere la norma nella “lettura” fornita dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 501 del 2000), essendo ininfluenti, ai fini del presente giudizio, eventuali diverse interpretazioni fornite dal giudice di legittimità delle norme impugnate.

3.- Nel merito, la questione è fondata.

Il dubbio di costituzionalità ha, alla sua radice, il problema ermeneutico legato alla possibile interazione tra le disposizioni della legge n. 354 del 1975, che prevedono le modalità e le condizioni per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, e le regole contenute nel d.lgs. n. 286 del 1998, che disciplinano l’ingresso e la permanenza nel territorio dello Stato dei cittadini extracomunitari.

Al riguardo, si è posto l’interrogativo se le misure alternative − ed, in specie, con riguardo al caso in esame, l’affidamento in prova al servizio sociale o la semilibertà − possano applicarsi al cittadino extracomunitario che sia entrato illegalmente in Italia o sia privo di permesso di soggiorno, cioè ad un soggetto che, se non si trovasse a dover espiare una pena, andrebbe espulso dal territorio nazionale.

Il vaglio interpretativo della Corte di cassazione ha registrato, in proposito, due contrastanti indirizzi.

Per il primo di essi − fatto proprio anche dalla sentenza di annullamento con la quale è stato enunciato il principio di diritto censurato – la condizione di clandestinità o irregolarità dello straniero precluderebbe senz’altro l’accesso alle misure alternative. Ciò in quanto, nel rigore della disciplina dettata dal testo unico in materia di immigrazione, non potrebbe ammettersi che l’esecuzione della pena, nei confronti dello straniero presente contra legem nel territorio dello Stato, abbia luogo con modalità tali da comportare la violazione delle regole che configurano detta condizione di illegalità; senza considerare, poi – si aggiunge – che, con particolare riferimento all’affidamento in prova, risulterebbe impossibile instaurare, proprio a fronte della condizione in discorso, la necessaria interazione tra il condannato e il servizio sociale.

Per contro, alla stregua di altra corrente interpretativa − confortata da una recente pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione, successiva all’ordinanza di rimessione (sentenza n. 14500 del 28 marzo 2006) − la presenza illegale nel territorio dello Stato, pur esponendo lo straniero all’espulsione amministrativa, da eseguire dopo l’espiazione della pena, non osterebbe alla concessione delle misure alternative, quante volte il giudice – sia pure in esito ad un vaglio adeguatamente rigoroso, in correlazione alla particolare situazione del richiedente – ravvisi comunque la sussistenza dei presupposti di accesso alle misure medesime, quali stabiliti dalla legge sull’ordinamento penitenziario. In particolare, secondo tale ultimo orientamento, le misure alternative − che costituiscono altrettante modalità di esecuzione della pena e le cui prescrizioni rivestono, dunque, carattere «sanzionatorio-afflittivo» − mirano ad attuare i «preminenti valori costituzionali della eguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione)», con la conseguenza che la loro applicazione non può essere esclusa a priori ed in ragione di una presunzione assoluta di inidoneità legata alla condizione di clandestinità o irregolarità della presenza sul territorio nazionale del detenuto, dovendosi, per contro, formulare in concreto il richiesto giudizio prognostico attinente alla rieducazione del condannato ed alla prevenzione del pericolo di reiterazione dei reati.

4.- A fronte delle delineate diverse soluzioni interpretative va, preliminarmente, rilevato che, conformemente a quanto sancito dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, la legge n. 354 del 1975, nell’indicare i principi direttivi ai quali deve ispirarsi il trattamento penitenziario, statuisce, per un verso, che nei confronti dei condannati ed internati debba essere attuato, secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti, un trattamento rieducativo che tenda al «reinserimento sociale» degli stessi; e, per altro verso, che il trattamento penitenziario debba essere «improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose» (art. 1).

Questa Corte, nell’ambito di giudizi aventi ad oggetto le disposizioni contenute nella legge n. 354 del 1975, con riferimento alla finalità rieducativa della pena, ha, d’altro canto, costantemente affermato che detta finalità deve contemperarsi con le altre funzioni che la Costituzione assegna alla pena medesima (vale a dire: prevenzione generale, difesa sociale, prevenzione speciale). Tale principio di armonica coesistenza deve ispirare l’esercizio della discrezionalità che in materia compete al legislatore, le cui scelte risulteranno non irragionevoli e rispettose del precetto dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, allorquando, pur privilegiando l’una o l’altra delle suddette finalità, il sacrificio che si arreca ad una di esse risulti assolutamente necessario per il soddisfacimento dell’altra e, comunque, purché nessuna ne risulti obliterata (sentenze n. 257 del 2006 e n. 306 del 1993).

Su siffatte premesse, questa Corte, tenuto conto dei principi di proporzione e individualizzazione della pena propri del trattamento penitenziario, ha ritenuto che contrastano con la finalità rieducativa della stessa quelle norme che precludono l’accesso ai benefici penitenziari in ragione del semplice nomen iuris del reato per il quale è stata pronunciata la condanna (si veda la già citata sentenza n. 306 del 1993). La Corte ha, altresì, statuito l’incompatibilità costituzionale, rispetto all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, della preclusione all’ottenimento di una nuova liberazione condizionale da parte del condannato all’ergastolo, cui tale misura sia stata in precedenza revocata in conseguenza della commissione di un delitto o di una contravvenzione della stessa indole o della trasgressione degli obblighi inerenti alla libertà vigilata; e ciò anche quando sussista il presupposto del sicuro ravvedimento (sentenza n. 161 del 1997, che ha dichiarato, di conseguenza, costituzionalmente illegittimo l’art. 177, comma 1, ultimo periodo, del codice penale). Una simile preclusione, per il suo carattere assoluto ed automatico, avrebbe, infatti, escluso il condannato in modo permanente e definitivo dal processo rieducativo e di reinserimento sociale.

Tali principi risultano pienamente conferenti in relazione all’odierno scrutinio di costituzionalità.

Invero, l’incompatibilità rispetto all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che attinge le norme censurate in esito al vincolante principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione, deriva dal fatto che quest’ultimo si risolve nella radicale esclusione dalle misure alternative alla detenzione di un’intera categoria di soggetti, individuata sulla base di un indice – la qualità di cittadino extracomunitario presente irregolarmente sul territorio dello Stato – privo di univoco significato rispetto ai valori rilevanti ai fini considerati.

Detta esclusione assume, cioè, carattere assoluto quanto all’oggetto, abbracciando indistintamente l’intera gamma delle misure alternative alla detenzione e, dunque, un complesso di misure dai connotati profondamente diversificati e dai contenuti estremamente variegati, in quanto espressione dell’esigenza di realizzare una progressione del trattamento. Al tempo stesso, tale preclusione risulta collegata in modo automatico ad una condizione soggettiva – il mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato – che, di per sé, non è univocamente sintomatica né di una particolare pericolosità sociale, incompatibile con il perseguimento di un percorso rieducativo attraverso qualsiasi misura alternativa, né della sicura assenza di un collegamento col territorio, che impedisca la proficua applicazione della misura medesima. In conseguenza di siffatto automatismo, vengono quindi ad essere irragionevolmente accomunate situazioni soggettive assai eterogenee: quali, ad esempio, quella dello straniero entrato clandestinamente nel territorio dello Stato in violazione del divieto di reingresso e detenuto proprio per tale causa, e quella dello straniero che abbia semplicemente omesso di chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno e che sia detenuto per un reato non riguardante la disciplina dell’immigrazione.

Quanto, poi, alla incompatibilità fra la disciplina del testo unico in materia di immigrazione e l’applicazione di misure alternative alla detenzione, pure evocata a fondamento del principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, occorre considerare che, in realtà, è proprio la condizione di persona soggetta all’esecuzione della pena che abilita ex lege – ed anzi costringe – lo straniero a permanere nel territorio dello Stato; e ciò, tanto se l’esecuzione abbia luogo nella forma intramuraria, quanto se abbia luogo, invece – a seguito della eventuale concessione di misure alternative – in forma extramuraria. In altre parole, nel momento stesso in cui prevede che l’esecuzione della pena “prevalga”, sospendendone l’attuazione, sulla espulsione cui il condannato extracomunitario sarebbe soggetto, il legislatore adotta una soluzione che implica l’accettazione della perdurante presenza dello straniero nel territorio nazionale durante il tempo di espiazione della pena stessa. Da ciò consegue l’impossibilità di individuare nella esigenza di rispetto delle regole in materia di ingresso e soggiorno in detto territorio una ragione giustificativa della radicale discriminazione dello straniero sul piano dell’accesso al percorso rieducativo, cui la concessione delle misure alternative è funzionale.

Il legislatore ben può, ovviamente − tenuto conto della particolare situazione del detenuto cittadino extracomunitario che sia entrato illegalmente in Italia o sia privo di permesso di soggiorno − diversificare, in rapporto ad essa, le condizioni di accesso, le modalità esecutive e le categorie di istituti trattamentali fruibili dal condannato o, addirittura, crearne di specifici, senza però potersi spingere fino al punto di sancire un divieto assoluto e generalizzato di accesso alle misure alternative nei termini dinanzi evidenziati. Un simile divieto contrasta con gli stessi principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario che, sulla scorta dei principi costituzionali della uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione), non opera alcuna discriminazione in merito al trattamento sulla base della liceità della presenza del soggetto nel territorio nazionale.

L’assoluta preclusione all’accesso alle misure alternative alla detenzione, nei casi in esame, prescinde, peraltro, dalla valutazione prognostica attinente alla rieducazione, al recupero e al reinserimento sociale del condannato e alla prevenzione del pericolo di reiterazione di reati, cosicché la finalità repressiva finisce per annullare quella rieducativa.

Va, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale delle disposizioni di cui agli artt. 47, 48 e 50 della legge n. 354 del 1975, delle quali il giudice rimettente è chiamato a fare applicazione ai fini della richiesta concessione di misure alternative, ed alle quali va quindi limitata la declaratoria di incostituzionalità, ove interpretate nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative alla detenzione previste dai medesimi articoli. Resta ferma la evidenziata facoltà del legislatore di tenere eventualmente conto – in sede di modifica della disciplina vigente – della particolare situazione dello straniero clandestino o irregolare, nei termini e nei limiti che si sono in precedenza indicati.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte Costituzionale

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), ove interpretati nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative da essi previste.