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Il “clandestino”. L’invenzione di una nuova “razza”?

Un’altra estate di sbarchi e di tragedie nel Canale di Sicilia. Una strage annunciata fin dall’ingresso dell’Italia nell’area Schengen con il naufragio e le 283 vittime della tragedia di Porto Palo.
Sebbene gli sbarchi, giova ricordarlo, non siano il principale canale di ingresso di migranti in Italia, la stampa dedica sempre molta attenzione alla cosiddetta invasione delle coste italiane.
Il linguaggio dei media mainstream, della televisione soprattutto, è pervaso ormai da un cliché, che, se spicca per la monotonia, merita però una riflessione più attenta, poiché sembra il sintomo di un cambiamento culturale che sta avvenendo nel nostro paese, o che si vuole provocare: la nascita di una nuova razza, il clandestino.

La ripetizione spinge a porsi un interrogativo: quale strategia si cela dietro questa retorica?
L’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea ha posto forti vincoli alle politiche dell’immigrazione e dell’asilo nel nostro paese. I flussi migratori devono essere gestiti e controllati. Possono avere accesso solo un numero prestabilito di individui, utili al sistema produttivo e la cui presenza è strettamente vincolata al lavoro.
Chiunque faccia accesso nella Fortezza Europa privo di un foglio di carta che ne autorizzi la permanenza deve essere respinto o individuato e rispedito al proprio paese.
Chiunque, spinto dal desiderio di condurre una vita migliore, o dalla miseria, o da guerre, o dall’impossibilità di vivere in un paese che non tollera una dissidenza politica o un orientamento sessuale, non ha diritto a rimanere se privo di questo pezzo di carta.
Questa, almeno, è la retorica.
La strategia, come abbiamo scritto più volte su questo sito, è quella di riduzione all’invisibilità e a esistenza precaria da fruttare per il lavoro nero.

Dopo aver sfruttato e colonizzato più dell’80% della superficie del pianeta, l’Europa, i cui cittadini vivono con un livello di benessere e con una speranza di vita che la maggior parte dei territori extra-UE non posseggono e che può mantenere questo divario grazie al fatto che sia un sogno per tutti, che tutto il resto del pianeta coltivi l’illusione che un giorno lo sviluppo arriverà e così una vita degna, si è costruita, prima ancora che su un progetto di cittadinanza e di diritti, prima che intorno a una politica, un’economia, un’istruzione, un sistema di welfare comune, intorno a un divieto: il divieto di attraversarne le frontiere esterne. E se poi, d’altra parte è necessario essere pragmatici, i clandestini ci sono e, sono gli imprenditori a dirlo, non si possono cacciare perché occorrono braccia per i campi, per i cantieri e per curare i nostri vecchi, che stiano, ma privi di diritti e senza potersi lamentare dei salari, delle condizioni di lavoro, dei pericoli che ogni giorno corrono.
Mantenere questo sistema richiede accettare il rischio che vi siano morti.
E morti oltre che in mare ne avvengono anche sul lavoro. Le recenti statistiche dell’INAIL sugli infortuni mostrano, in controtendenza rispetto al dato complessivo, un aumento degli infortuni denunciati per quanto riguarda i lavoratoti extra-comunitari, e un calo degli infortuni mortali che da 150 del 2005 scendono a 140 nel 2006, il 9.7% del totale, una percentuale alta se si considera che gli stranieri (non solo quelli che svolgono attività lavorativa) in Italia sono circa il 4.5% della popolazione. I dati sugli infortuni e sulle morti denunciate, confermano che ai migranti sono destinate le attività lavorative più pericolose.

Irrigidire il sistema giuridico, militarizzare le frontiere, significa accettare la possibilità che chi cerca comunque di passare naufragi, sia speronato, non sia soccorso, muoia di stenti, sia rispedito in paesi, come la Libia, denunciati per le torture e le violazioni di diritti umani in strutture detentive finanziate dall’Italia.
Tutto questo significa che non dobbiamo rimanere impressionati davanti alle immagini dei cadaveri, oppure quando leggiamo i racconti di chi è arrivato e racconta dell’amico, della moglie, del paesano che non c’è la fatta, che è stato risucchiato dal mare.
Queste persone, che siano uomini o donne o bambini o profughi, per la stampa sono semplicemente clandestini.
Clandestino, secondo il Testo Unico sull’immigrazione è colui che attraversa le frontiere senza un documento che ne autorizzi l’ingresso.
Non potrebbero essere semplicemente persone quando arrivano morte sulle nostre coste, dato che non hanno avuto tempo per oltrepassare alcuna frontiera?

Come ci ricordano gli studi postcoloniali il linguaggio è importante per tracciare categorie, finalizzate a togliere la parola all”altro’ in quanto radicalmente diverso da ‘noi’.
In Europa furono, tra ‘800 e ‘900, organizzate delle esposizioni che, oltre a mettere in mostra animali e piante esotiche, mostravano alle classi popolari esemplari di un’umanità talmente lontana da essere ridotta a pura animalità. Gli zoo umani servivano, in pieno periodo coloniale, a mostrare l’altro come selvaggio, esibito, sezionato, spettacolarizzato a mostrare l’importanza del ruolo civilizzatore dell’occidente. Costituiscono il passaggio fondamentale dal razzismo scientifico al razzismo popolare, alla diffusione di questa categoria inventata che è la razza. L’identità dell’Europa si definisce così in rapporto con un altro disumanizzato e fossilizzato in ‘razza’ in da sfruttare e segregare secondo le necessità produttive dei colonizzatori.
Rappresentano un’operazione culturale che attraverso uno sguardo marca un confine.
Confine che si può, come dimostra la critica letteraria, tracciare anche attraverso le parole.
Il colonizzato era descritto come pigro, aggressivo, violento, avido, propenso alla promiscuità sessuale, alla bestialità, al primitivismo. A ogni epoca i sui stereotipi. Il migrante, italiano negli USA all’inizio del ‘900 o albanese/marocchino/rom in Italia oggi, è delinquente, non disponibile all’integrazione, non propenso ad imparare la lingua, ecc…
Parole diverse per esprimere un fondo comune di senso?

Come ci ricorda Ania Loomba*, “Le relazioni razziali che si sviluppano durante il colonialismo sopravvivono molto a lungo dopo che le strutture economiche che vi soggiacciono sono cambiate. La svalutazione degli schiavi africani ancora perseguita i loro discendenti nelle società metropolitane, le ingiustizie del dominio coloniale ancora strutturano i salari e le possibilità dei migranti delle ex-colonie, gli stereotipi razziali […] circolano ancora e gli squilibri contemporanei globali sono costituiti sulle ineguaglianze che si sono consolidate durante l’era coloniale.” Gli stereotipi attivati funzionavano/funzionano all’ideologia capitalista per giustificare la divisione del lavoro a livello globale. Dove gli eccessi vanno smaltiti o costretti all’immobilità, o nei grandi slums delle metropoli del sud del mondo, o in piccole baraccopoli nelle periferie delle città europee – sotto i ponti o a fianco delle discariche -, nelle zone bandite dove relegare le classi pericolose, o nelle carceri dello stato penale descritto da Wacquant.
In ciascuno di questi casi l’unica forma di governo che conoscono queste persone è quello della gestione militare, o paramilitare, che ne controlla gli sconfinamenti.
Dove la morte, se non è data come nella Spagna di Zapatero, è un sopportabile effetto collaterale.

Non serve dare un nome a queste morti anonime per annullare la barbarie che porta alla morte né servirà l’umanizzazione dei CPT, con la collaborazione di cooperative ed associazioni accorse in aiuto al governo, a nascondere il loro essere parte essenziale di questo sistema di morte.

Elisabetta Ferri, redazione Progetto Melting Pot

*La citazione di Ania Loomba è tratta da Colonialismo/postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000.