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Ancora il 26 dicembre: undici anni dopo il naufragio di Porto Palo

Riflessioni a margine e un vecchio articolo di Dino Frisullo

(a cura di Alessandra Sciurba, Melting Pot)

Undici anni. Un nuovo anniversario da ricordare fuggevolmente su questo sito e in pochi altri luoghi, un evento tragico da ripercorrere col pensiero per alcune decine, forse poche centinaia di persone che quella storia l’hanno raccontata, ascoltata, preservata, salvata dal silenzio.

La storia della nave fantasma e del naufragio di Porto Palo, la storia del coraggioso pescatore Salvo Lupo e dell’efferato comandante El Hallal, la storia dei corpi che riemergono e dei “tonni” del Mediterraneo, ribattezzati così dai pescatori siciliani che hanno paura e li ributtano a mare. La storia dei sopravvissuti che raccontano e delle famiglie dei fantasmi che non si arrendono nonostante tutte le umiliazioni che sono state costrette a subire.

La storia di un processo che è sempre andato a rilento, istruito grazie alla tenacia di pochi, osteggiato in ogni modo possibile da troppi altri.
La storia di mille bugie: “non è mai successo niente”, andate avanti per troppi anni, e poi la storia di mille promesse, quando la verità era diventata innegabile: “recupereremo il relitto e quei poveri corpi”.

La storia di Ampalagan Ganeshu, ragazzino fantasma tra i fantasmi, e della sua foto sul documento di identità.
La storia dello spettacolo teatrale della Nave fantasma portato in giro per l’Italia perché almeno qualcuno imparasse a credere e poi a ricordare.

Undici anni da quel 26 dicembre del 1996.
Un processo ancora in corso, un’assoluzione vergognosa, un relitto che rimane in fondo al mare.
Le famiglie ancora senza ossa da seppellire e sulle quali portare fiori e parole.

E se qualcuno oggi si commuove raccontando o ascoltando questa storia può farlo solo con la mente che declina i tempi al presente perché non è mai finita.
Altri naufragi, altri morti, altri pescatori perseguitati per avere difeso la vita e la dignità di persone sconosciute, altro silenzio, ancora indifferenza, e di più: nuove armi per la guerra contro i viaggiatori non autorizzati, non importa a prezzo di quante vite.
Frontex e i pattugliamenti congiunti, la detenzione esportata, le deportazioni legittimate e incoraggiate, le frontiere mortifere moltiplicate, scomposte e ricreate intorno ad ogni singolo corpo per condizionarne la mobilità, per impedirne la libertà, per intralciarne la soggettività e i sogni.
E, a causa di tutto questo, viaggi che si allungano, che diventano sempre più pericolosi, mezzi di trasporto sempre più invisibili, donne incinte, sempre di più, che scelgono per tentare la sorte l’unico momento in cui il loro corpo può forse valere qualcosa per le leggi dell’occidente.
Ma quanti chilometri può percorrere una barchetta di carta prima di scomparire tra le onde?
La forza dei desideri a volte non basta.

Per ricordare il naufragio della Nave Fantasma 11 anni dopo scegliamo allora di pubblicare un articolo che Dino Frisullo scrisse nel 2001.
A chi legge resta il compito di interrogarsi su cosa sia cambiato da allora.

Articolo di Dino Frisullo pubblicato su Il Manifesto, mercoledì 20 giugno 2001

Loro malgrado, quei miseri naufraghi hanno scritto una pagina di storia. Storia minore, scomoda e rimossa.
Storia che rischia di scivolare via sull’onda dello scoop giornalistico, che rivestirà quei corpi di effimera carta nella doppia sepoltura del mare e del cinismo.

Vorrei raccontarla, quella storia, per chi non considera la memoria un lusso.

In quell’inverno del ’96 gli amici e i parenti dei naufraghi, anch’essi clandestini, erano in sciopero della fame “per il diritto di esistere” in piazza Colonna.
La notizia del naufragio rimbalzò in un attimo fra due continenti a partire dalle frasi smozzicate dei superstiti, detenuti dai trafficanti in un’isola greca.
Nella comunità pakistana, a cui apparteneva la maggioranza delle vittime, andarono in corto circuito i mille fili di complice omertà che coprono chi specula sul proibizionismo di stato. Le famiglie si organizzarono. Il loro rappresentante, l’anziano Zabiullah che aveva perso un figlio su quella nave, a rischio della vita ricostruì insieme a noi, in Grecia e poi in Italia, la catena del traffico, fino alle squadre che in Italia recludono gli immigrati per ottenere sin l’ultimo spicciolo pattuito.
Ne emerse (e fu pubblicata anche su Narcomafie) la prima fotografia della catena imprenditorialcriminale, con testa turca, armatori greci e tentacoli protesi dai villaggi del Kurdistan e del subcontinente indiano fino alle coste italiane, che mercifica i fuggitivi dalla miseria dell’India e del Pakistan e dalle guerre del Kurdistan, dello Sri Lanka, del Kashmir.
Quei nomi, quelle mappe, insieme al rosario amoroso delle foto dei naufraghi, giunsero nelle mani del giudice Billet a Reggio Calabria, dov’era sotto sequestro (c’è ancora) la nave assassina Yohan, tornata come nulla fosse con un altro carico umano.

Fu individuato con una certa precisione, con la deposizione del giovane superstite Shaqur, il luogo in cui oggi è sceso il batiscafo di Repubblica.
Prese avvio l’inchiesta, passata poi a Siracusa quando scovammo, in un angolo di cronaca nera, la notizia di un cadavere ripescato presso Gela. La nostra ricostruzione coincideva con quella fatta da Livio Quagliata sul Manifesto, anche lui in base ai resoconti della comunità srilankese a Milano.
L’ambasciata pakistana si mosse; quelle dell’India e dello Srilanka no, o almeno non subito, perché quei morti erano rispettivamente sikh e tamil, concittadini scomodi. Profughi, che avrebbero avuto diritto all’asilo – se esistesse in Italia una legge decente sull’asilo.

Alcuni dei naufraghi, come i due parenti del leader pakistano a Roma Shabir Khan, avevano in tasca la ricevuta della richiesta di soggiorno in base al “decreto Dini”, la semi-sanatoria di quegli anni.
Stanchi di attendere, colpiti da lutti familiari, erano andati a casa e rifacevano il viaggio della speranza. Déja-vu, nevvero? penso ai trentamila che da tre anni ancora attendono il soggiorno, negato dall’ultimo governo di centrosinistra…

Fu alla porta del primo centrosinistra, in quell’inverno del ’97, che bussammo insieme a Zabiullah, a Shabir Khan e ai tamil giunti da Palermo. Forse ingenui (gli immigrati non avevano festeggiato anche loro, danzando in piazza Venezia, la fine del governo Berlusconi-Gasparri?), chiedevamo il recupero della nave e del suo carico umano, ma anche un ripensamento delle politiche di chiusura.
Restammo di sasso. Dal Viminale alla Farnesina, ad eccezione di pochi singoli parlamentari, trovammo una totale assenza non dico di solidarietà, ma di umana pietà.
Ammettere la strage equivaleva a rimettere in discussione la linea della fermezza, che di lì a poco avrebbe colpito e affondato la Kater-i- Radesh.

Data da allora il disamore per l’esperienza governativa di centrosinistra, non certo condiviso da tutto quello che allora si definiva movimento antirazzista.
Ci presero per pazzi e “acchiappafantasmi” non solo ministri e sottosegretari, ma anche i rappresentanti dell’associazionismo che affollava le anticamere del “governo amico” di Napolitano e Livia Turco.
Ricordo sorrisi di compatimento anche nel tessuto della grande scommessa di quegli anni, la Rete antirazzista – e forse lì andrebbe ricercata una delle ragioni, poi, della sua crisi.

In quel momento, con i trafficanti messi in mora e denunciati dalle vittime, con un’opinione pubblica non ancora resa xenofoba, con un governo ai primi passi, quei poveri corpi riemergendo avrebbero potuto motivare una scelta coraggiosa: una nuova politica dell’immigrazione e dell’asilo, che sostituisse legalità e certezza del diritto all’illegalità, alla soggezione, alla morte.

Non fu così. Furono abbandonati al loro strazio quei corpi ed i loro parenti, come rimasero soli i loro amici appena più fortunati, nel gelo di piazza Colonna e nella marcia di Natale ’96, in diecimila a digiuno fino al Vaticano.
L’inchiesta proseguì stancamente, senza risalire la catena assassina oltre gli ultimi esecutori, senza discendere nel mare di Sicilia.

Ora gli scheletri riemergono. Ciascuno guardi nel suo armadio.
Se quei corpi saranno affidati a coloro che si sono battuti in questi anni per la verità e la giustizia, se si darà la parola a loro e non solo all’effimero sensazionalismo delle immagini, se saremo capaci di memoria e di rispetto – forse il loro sacrificio non sarà stato vano.
Forse siamo in tempo a cambiare strada, ciascuno per la sua parte.
Forse.

Dino Frisullo

Ascolta anche lo Speciale di Melting Pot “A dieci anni dal naufragio della nave fantasma”