Nella notte tra il 28 ed il 29 dicembre del 1999, al centro di permanenza temporanea Srrraino Vulpitta di Trapani, dopo un tentativo di fuga sedato duramente dalle forze dell’ordine, oltre dieci immigrati vennero rinchiusi in una sola camerata ed uno di loro diede fuoco ai materassi in gommapiuma ed ai lenzuoli di carta che costituivano l’arredo della cella. A seguito del rogo, durato alcune decine di minuti, morirono tre immigrati tunisini mentre altri tre, gravemente ustionati, morirono in ospedale a Palermo nei mesi successivi. Nel mese di gennaio del 2000 venne presentato un esposto alla magistratura in cui si denunciarono le condizioni di sicurezza e la mancanza di scale ed uscite di sicurezza.
L’immigrato che aveva materialmente dato fuoco ai materassi della cella fu rapidamente condannato e in pochi mesi venne espulso dal nostro paese. Nel frattempo l’indagine avviata dalla magistratura comportò la chiusura del centro, in diverse occasioni, per le persistenti carenze strutturali, con la richiesta (e nel gennaio del 2001 il rinvio a giudizio) del prefetto di Trapani del tempo, imputato di omissione di atti d’ufficio, di incendio colposo e di concorso in omicidio colposo plurimo. Nel corso del processo, il centro di detenzione Serraino Vulpitta veniva riaperto e chiuso a più riprese, per disposizione dei magistrati, e poi del Ministero dell’interno, per lavori di ristrutturazione, ma il numero massimo degli immigrati trattenuti non superò più il numero di 57, mentre in precedenza si era arrivati a rinchiudervi oltre 180 persone, e più di cento erano quelli presenti nella tragica notte del rogo.
Nel luglio del 2001 il Tribunale di Trapani su richiesta dell’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) ne ammetteva la costituzione come parte civile, preso atto che “ sussiste l’interesse concreto e diretto in capo all’associazione richiesto, nell’applicazione giurisprudenziale, ai fini della legittimazione di parte civile”. Il processo si è snodato per anni con una lunga serie di udienze, nelle quali sono stati sentiti oltre all’imputato, i testimoni, in gran parte agenti di polizia, quelli presenti nella struttura al momento del rogo, e quelli sopravvenuti, ed i consulenti. Al di fuori del dibattimento erano state raccolte le testimonianze di Dino Frisullo, e di altri esponenti della Rete Antirazzista, che avevano effettuato visite al centro di detenzione Vulpitta a partire dalla sua apertura nel luglio del 1998, dopo un viaggio dell’allora Ministro dell’interno Napolitano a Tunisi, all’indomani dell’ingresso dell’Italia nell’area Schengen.
Nel corso delle udienze, anche per opera della difesa, si è assistito ad un continuo palleggiamento delle responsabilità tra le forze di polizia, mentre sono apparse evidenti sia le contraddizioni presenti nelle deposizioni di alcuni agenti e funzionari della Questura di Trapani, sia l’improvvisazione e le modalità dell’intervento di soccorso. Al di là dei ritardi dei primi interventi e della mancata apertura delle uscite di sicurezza, l’intera struttura appariva inadeguata alla detenzione di un numero così elevato di migranti in attesa di espulsione e risultavano chiare le responsabilità di chi ne aveva disposto l’apertura, stabilendo le modalità del trattenimento. Ma nessun componente della Commissione ministeriale che autorizzava in quel periodo l’apertura dei CPT in Italia è stato mai chiamato in causa nel corso del processo.
I Consulenti tecnici hanno messo in evidenza sia la durata del rogo a causa del quale persero la vita gli immigrati, i primi tre per asfissia all’interno della cella che li “ospitava”, che le caratteristiche strutturali del centro e la mancanza delle minime condizioni di sicurezza richieste dalla legge e dai regolamenti per queste strutture.
Dagli atti citati nell’ordinanza di rinvio a giudizio emergeva peraltro come, già un anno prima del rogo il Ministero dell’interno -con una nota- aveva chiesto al Prefetto “ la segnalazione di tutte le opere che si dovessero rendere necessarie per il rispetto delle indicazioni elaborate” da un gruppo di lavoro ministeriale che indicava “ la necessità che i fabbricati fossero dotati di appositi impianti antincendio nel rispetto della vigente normativa in materia e che fossero installati rilevatori sensibili ai fumi, collegati ad una centralina di allarme acustico ed ottico in caso di incendio.” Dalle deposizioni degli agenti di polizia presenti la sera del rogo emergeva soprattutto l’assoluta carenza di estintori (sembrerebbe soltanto due in funzione al momento del rogo) al punto che numerosi agenti hanno affermato di avere contribuito a spegnere il rogo con gli estintori in dotazione sulle proprie autovetture.
Spettava comunque al Prefetto l’ organizzazione della struttura e delle sue dotazioni, oltre che il rispetto delle normative in misura di sicurezza, mentre rientrava nella competenza del Questore e degli agenti di servizio, la gestione del centro, ed il mantenimento dell’ordine all’interno della struttura. Al tempo del rogo non esistevano ancora soggetti privati convenzionati.
Il processo si è poi concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati, confermata successivamente da una sentenza della Corte di Appello di Palermo, quindi alla fine, malgrado l’ingente mole di documentazione consentisse di individuare ritardi ed omissioni gravi che avevano contribuito a determinare il tragico bilancio di morti, nessun colpevole per una strage che è rimasta impunita (gli atti del processo sono consultabili nel sito di Sergio Briguglio). Non restava altro –intanto- che dare voce alle vittime che avevano vissuto la terribile condizione di detenzione all’interno del centro. Nel 2003 veniva presentato, e quindi successivamente aggiornato, un Libro Bianco sul Serraino Vulpitta, nel quale si raccoglievano numerose testimonianze di immigrati che erano stati rinchiusi in quella struttura e lamentavano ogni genere di abusi e di disfunzioni (rinvenibile nel sito www.cestim.it).
La Commissione De Mistura aveva svolto il suo lavoro tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 per verificare quali centri di detenzione andassero immediatamente chiusi in attesa di una nuova legge che abrogasse la Bossi-Fini, senza ritornare alla legge Turco-Napolitano che aveva istituito nel 1998 i centri di permanenza temporanea. In Sicilia si è chiuso il centro di detenzione amministrativa per donne ubicato a Ragusa, ma il Serraino Vulpitta, malgrado i rilievi contenuti nella relazione della Commissione De Mistura, ha continuato a funzionare nella lugubre struttura ancora annerita, in alcune parti, dai precedenti roghi. Adesso probabilmente avranno imbiancato per l’ennesima volta le pareti, e il Vulpitta continuerà ad “ospitare” per chissà quanto tempo ancora immigrati in attesa di espulsione, o semplicemente in attesa che passino i rituali sessanta giorni, prima di essere rimessi in libertà con l’ordine –ineseguibile, per carenza di mezzi e di documenti -di lasciare entro 5 giorni il territorio nazionale. Un passaporto per la clandestinità.
Certo in questi anni le funzioni dei centri di permanenza temporanea sono molto mutate, queste strutture servono più come contenitori di immigrati irregolari presenti da tempo nel nostro paese, una ulteriore occasione di esclusione e di clandestinizzazione, piuttosto che come strutture destinate a contenere l’immigrazione clandestina. Per questo ormai ci sono le pattuglie armate di FRONTEX e i centri di detenzione nei paesi di transito, dal Marocco, all’Algeria, alla Tunisia, alla Libia, all’Egitto. Le procedure di espulsione e di trattenimento sono state esternalizzate, con il contributo finanziario dell’Unione Europea e con i nuovi accordi economici e politici conclusi dai governanti europei con i dittatori nord-africani.
L’umanità che si trova ancora oggi nei centri di detenzione ammnistrativa, malgrado le tante promesse non mantenute del governo Prodi (la funzione dei centri avrebbe dovuto diventare “marginale” dopo l’approvazione della nuova legge Amato-Ferrero, ancora arenata in Parlamento) non è molto diversa dagli uomini e i minori che abbiamo conosciuto tutte le volte che abbiamo potuto visitare i CPT, e poco cambia se la fantasia ministeriale appare inesauribile nel coniare sempre nuove denominazioni (fino al concetto terribile di centro “polifunzionale” (CPT-CID-CPA), coniato dal ministro Pisanu nel 2003 ed ancora oggi in auge, come Pian del lago, a Caltanissetta) per confondere l’opinione pubblica e nascondere quella che è la vera sostanza di queste strutture. Vi sono pure strutture che funzionano di fatto come centri di detenzione senza neppure esserlo, come il centro di accoglienza (tra le sbarre) di Cassibile, vicino Siracusa, anche questo “censito” con rilievi assai critici dalla Commissione De Mistura, ma ancora oggi inspiegabilmente in funzione, malgrado le documentate denunce che si sono accumulate negli anni.
I centri di detenzione amministrativa (comunque li si chiami) sono luoghi che ancora oggi rimangono al di fuori dei principi basilari dello stato di diritto, governati dalla discrezionalità amministrativa con il contorno formale dei giudizi di convalida ancora affidati ai giudici di pace, in aperto contrasto con il carattere eccezionale della detenzione amministrativa stabilito dall’art. 13 della Costituzione. Spesso mancano gli interpreti, gli avvocati faticano persino per la sottoscrizione delle procure, gli agenti consolari vi hanno libero accesso e possono anche intimidire chi vorrebbe proporre una istanza di asilo, le possibilità effettive di una difesa legale indipendente sono ridotte al minimo. E tutto questo, malgrado l’(apparente) apertura ai mezzi di informazione ed il crescente coinvolgimento di organizzazioni non governative che in queste strutture vedono principalmente la possibilità di istituire nuovi posti di lavoro per i propri dipendenti. Altri, che una volta si trovavano dalla parte di chi si batteva contro i centri di detenzione, oggi accettano di convenzionarsi con le Prefetture per offrire quei servizi che poi vengono spacciati come tentativi di “umanizzazione”.
27 dicembre 2007
Fulvio Vassallo Paleologo
Università degli studi di Palermo
(1) Emergenza centri di detenzione amministrativa: che succede a Trapani?
(Documento del 22 dicembre 2005)
La situazione nei centri di detenzione amministrativa in Italia va diventando insostenibile, anche per effetto della condizione di promiscuità delle persone che vengono internate (immigrati provenienti dal carcere o appena sbarcati, richiedenti asilo o residenti in Italia da anni ma irregolari perché hanno perduto il permesso di soggiorno) e per il raddoppio della durata del trattenimento: la violenza dilaga sia tra gli stessi immigrati, che, ed è questo l’aspetto più preoccupante, nei rapporti tra gli agenti di polizia e le persone che vengono rinchiuse in queste strutture. Le misure appena approvate con la legge ex Cirielli, sanzionando aumenti di pena per i recidivi e limitando i benefici della legge Gozzini renderanno ancora più drammatiche le condizioni degli istituti di pena e scaricheranno tensioni ancora più forti sui centri di detenzione amministrativa. L’ideazione dei “centri polifunzionali” (CPT, centri di identificazione e centri di transito), fortemente voluti dal Ministero dell’interno, rende ancora più incerta la condizione giuridica degli immigrati che vi sono rinchiusi e costituisce la premessa per ogni sorta di abusi e violenze.
Ma la situazione all’interno dei CPT è già oggi esplosiva. Le tragedie del passato, come il rogo che nel 1999 costò la vita di sei immigrati rinchiusi nel CPT di Trapani, ed i processi penali in corso, giunti in alcuni casi alla condanna dei gestori di questi centri, sembrano non avere insegnato proprio nulla.
A Trapani, nel centro di detenzione amministrativa Serraino- Vulpitta, come già denunziato in pasato, si sono registrati in diverse occasioni tentativi di fuga e gesti di ribellione, che sono stati “sanzionati” non in base a quanto prescritto dalla legge, con una denuncia penale, nel rispetto comunque della dignità e della integrità fisica delle persone, ma con veri e propri “pestaggi” personalizzati che hanno solo determinato un clima ancora più difficile di tensione. Negli anni scorsi le visite dei parlamentari regionali come l’On. Lillo Miccichè e nazionali come l’On. Graziella Mascia avevano accertato la condizione fisica di immigrati con evidenti segni di ematomi, che sarebbero stati conseguenza, a detta delle forze dell’ordine, di scontri avvenuti durante partite di calcio. Il timore di ritorsioni aveva portato gli stessi immigrati a mezze ammissioni sulla reale causa delle loro ferite.
Il clima di tensione all’interno dei CPT, e di quello di Trapani in particolare, non è mai diminuito e sono ancora costanti i tentativi di autolesionismo, sfociati in qualche caso anche in tentativi di suicidio, le fughe e le ribellioni, sedate con gli strumenti più violenti.
All’interno del centro di detenzione Serraino Vulpitta, nel piano sottostante alle stanze destinate al “trattenimento” si trova una cella di isolamento nella quale, nei giorni scorsi, è stato rinchiuso un giovane immigrato marocchino Edi Zegayer di appena 19 anni, incensurato, che durante una visita effettuata da una delegazione parlamentare sabato 17 dicembre scorso mostrava (vicino ad un occhio) il segno di una sigaretta spenta sul volto. Il giovane aveva raccontato la sua storia alla senatrice De Zulueta, raccontando di essere stato vittima di un aggressione da parte di un altro immigrato africano, aggiungendo che dopo avere subito i colpi sul volto si era adoperato perché i suoi compagni maghrebini non lo vendicassero. Il suo atteggiamento appariva rassegnato e dimesso. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Dopo la visita della delegazione, ed il successivo ingresso dell’ on. Giovanni Russo Spena, avvenuto in un clima di forte tensione nella giornata di domenica, a seguito di un ennesimo tentativo di fuga, secondo diverse testimonianze, sarebbe scoppiato un contrasto tra Edi Zegayer ed alcuni agenti di polizia che avrebbero condotto l’immigrato prima in Questura (sembrerebbe per due giorni) e poi nella cella di isolamento ubicata al primo piano del CPT Vulpitta. Nella giornata di mercoledì, mentre gli altri trattenuti protestavano per conoscere la sorte del loro compagno, si apprendeva che Edi Z. era di nuovo trattenuto nella cella di sicurezza del Vulpitta, sanguinante, ferito al volto, quasi impossibilitato a stare in piedi, con un cerotto applicato in prossimità degli organi genitali, dove sarebbe stato colpito con calci. Una stanza contigua presentava ancora tracce di sangue sul pavimento. Tutto il contrario dei locali lindi e puliti presentati nei giorni precedenti alle delegazioni parlamentari.
Un altro immigrato proveniente dal carcere che aveva protestato con le stesse delegazioni parlamentari per non avere ricevuto le somme che gli spettavano per il lavoro prestato durante il periodo di detenzione ( aveva ricevuto un assegno “non trasferibile”) risultava “scomparso”, trasferito in un’altra struttura ( forse Caltanissetta) o rimpatriato. Un immigrato rumeno che nel comune di Castellamare del Golfo aveva tentato invano di denunciare il proprio datore di lavoro era stato accompagnato in frontiera con grande sollecitudine, mentre nessuna indagine era stata avviata contro chi aveva sfruttato il suo lavoro in nero.
Durante la visita della delegazione parlamentare avvenuta nella giornata di sabato 17 venivano denunciate a gran voce espressioni minacciose da parte di alcuni agenti di polizia nei confronti di un immigrato che protestava con maggiore vigore per le condizioni di trattenimento e per la impossibilità di fare valere i propri diritti. Le minacce di ritorsioni alimentavano un clima di violenza e di rivalsa tra gli stessi immigrati di cui anche noi eravamo stati testimoni diretti.
Ma l’elenco degli abusi riscontrati durante tre giorni di visite di delegazioni parlamentari e di agenzie umanitarie si allunga ancora di più e si estende a tutta la Sicilia, se si pensa al caso di una ventina di immigrati giunti a Lampedusa il 4 novembre, trasferiti da lì a Caltanissetta, nel centro “polifunzionale” voluto dal ministro Pisanu, dove avevano ricevuto notifica del decreto di respingimento “differito” emesso dal Questore di Agrigento solo in data 3 dicembre, dopo un mese circa di trattenimento arbitrario senza alcun provvedimento formale, con la prospettiva di dovere trascorrere ancora altri sessanta giorni all’interno del CPT Vulpitta in base al decreto di trattenimento emesso dal Questore di Caltanissetta il 13 dicembre u.s., convalidato il 16 dicembre. Evidente lo stato di tensione prodotto dalla prospettiva di dovere aggiungere altri sessanta giorni ai trenta già “scontati” nella “zona contigua” al CPT di Caltanissetta, una zona dove gli immigrati vengono trattenuti giorni e giorni senza ricevere provvedimenti di espulsione o di respingimento, di fatto una limitazione della liberta personale in evidente contrasto con l’art. 13 della Costituzione italiana.
In questo caso, almeno, è stato possibile fare arrivare un avvocato che ha raccolto le procure necessarie per difendere gli immigrati, mentre per Edi Zegayer, come in molti casi precedenti nei quali si erano riscontrate ferite ed ematomi, sono state fortissime le pressioni per costringere la vittima al silenzio e per fare ritrattare le accuse contro gli autori dei pestaggi.
La condizione di isolamento nella quale è stato Edi Z. posto negli ultimi tre giorni non ha consentito neppure l’incontro con un avvocato di fiducia, e sembrerebbe anzi, secondo quanto dichiarato dallo stesso, che lo stesso Edi sia stato sentito da un magistrato senza la presenza di un interprete.
Si apprende intanto che per giovedì mattina è fissata una udienza in cui Edi Z. comparirà davanti al giudice. Probabilmente, dopo le percosse subite, è stato pure denunciato per reati commessi ai danni della struttura e delle forze dell’ordine, nel tentativo di difendersi ai colpi che gli venivano inferti. Potrebbe arrivare una condanna per direttissima. Insomma il sistema CPT sta producendo un altro “criminale” condannato per la vita alla clandestinità!
Non sarebbe la prima volta che di fronte alla volontà espressa da alcuni immigrati che intendono sporgere denuncia per percosse subite si è prospettata la possibilità di una controdenuncia degli stessi, da parte delle forze di polizia. Poi però, una volta sortito l’effetto di far scomparire la volontà di denuncia ( ma non i lividi o la memoria dei fatti), nessuno si è più preoccupato di sporgere la denuncia che era stata minacciata.
Come se il compito della forze di polizia fosse quello di impedire qualunque possibilità di denuncia e non invece quello di applicare la legge ed i regolamenti, che impongono il rispetto della dignità e dell’integrità fisica delle persone trattenute nei CPT (come dei detenuti), ferma restando la possibilità di perseguire penalmente chiunque compie reati trovandosi in stato di detenzione all’interno di un centro che alcuni continuano a chiamare come un centro di “accoglienza”. Questa gestione da “ordine pubblico” all’interno dei centri di detenzione amministrativa non tutela neppure la sicurezza degli operatori della struttura. Nella visita di sabato 17 dicembre la tensione era così alta che la delegazione parlamentare è stata costretta ad effettuare le audizioni degli immigrati nella sala destinata alle forze di polizia piuttosto che nella sala mensa vicino alle stanze adibite al pernottamento.
Quanto avviene all’interno del Serraino Vulpitta di Trapani getta una luce sinistra sulle prospettive che si profilano oggi alla vigilia dell’appalto di una nuova struttura detentiva per migranti, in località Milo, sempre in provincia di Trapani. I lavori saranno come al solito “secretati” e grazie ai decreti del governo che reiterano da anni lo stato di emergenza in materia di immigrazione procederanno con appalti conferiti in base alla “somma urgenza” ed alle procedure accelerate degli interventi della protezione civile (quindi al di fuori di procedure a rilevanza pubblica). I “soliti noti” otterranno l’affidamento della gestione della struttura.
Chiediamo la istituzione di una commissione di indagine sui centri di detenzione aperti in Sicilia, dopo che numerosi parlamentari nazionali e regionali, associazioni ed agenzie umanitarie, hanno effettuato periodiche visite, riscontrando situazioni di totale negazione della dignità umana, dei diritti fondamentali della persona ( a partire dal diritto di difesa e di comprensione linguistica), delle minime condizioni igieniche e sanitarie.
Non si può tollerare ancora che le denunce rigorosamente documentate di Fabrizio Gatti rimangano isolate e che allo stato l’unico indagato sia proprio il coraggioso giornalista. Come non si può tollerare il clima di velata intimidazione nel quale si trovano spesso ad operare i rappresentanti delle associazioni antirazziste. Per non parlare del costante monitoraggio e delle intercettazioni illegali ai danni di tutti coloro che prestano assistenza agli immigrati irregolari. Sarebbe tempo che in questo campo intervenisse il Garante della privacy.
Sarebbe anche tempo che il Parlamento nazionale avvertisse l’esigenza di una indagine complessiva per stabilire cosa avviene dentro i centri di detenzione e quale sorte è riservata ai richiedenti asilo che finiscono in queste strutture. Le risorse destinate agli immigrati non devono esaurirsi nel finanziare gli accompagnamenti coatti in frontiera, o la costruzione di nuove strutture detentive, ma vanno destinate a favorire percorsi di integrazione, di emersione dalla irregolarità e di effettivo riconoscimento normativo ed assistenziale del diritto di asilo riconosciuto dall’art. 10 della nostra Costituzione.
Malgrado gli sforzi dei Prefetti e degli enti di gestione i centri di permanenza temporanea non sono luoghi che possono essere umanizzati e gli abusi riscontrati nelle ultime visite confermano come queste strutture vadano chiuse al più presto. Bisogna rompere il circuito carcere >CPT e abolire il principio incostituzionale della doppia pena, base della legge Bossi-Fini.( detenzione + trattenimento amministrativo) con una diversa e più selettiva disciplina dei casi di respingimento e di espulsione. Gli accordi di riammissione stipulati con i paesi di transito e di provenienza dovranno rispettare le garanzie minime dei diritti della persona umana e vietare le espulsioni collettive, consentendo a tutti il diritto di ricorso e di comprensione linguistica dei provvedimenti di accompagnamento forzato.
Palermo 22 dicembre 2005
Fulvio Vassallo Paleologo