Oggi il giudice di Agrigento ha convalidato il fermo del
comandante di un peschereccio (italiano) che avrebbe buttato a mare un migrante che aveva raggiunto a nuoto l’imbarcazione, dopo essersi tuffato da un gommone alla deriva, poi soccorso da mezzi della Marina Militare.
L’accusa è quella di omicidiio volontario, ma forse la stessa accusa, con molte aggravanti, andrebbe estesa ai responsabili delle politiche migratorie europee ed italiane.
E’ ormai provato che, dopo l’inasprimento dei controlli a mare, frutto anche degli accordi Italia-Libia, e dopo l’incriminazione di diversi pescatori che avevano
compiuto azioni di salvataggio, chi si trova in prossimità di una imbarcazione carica di migranti finge di non vedere o respinge con la violenza i tentativi di chi -per salvare la propria vita- tenta di arrampicarsi sui battelli da pesca. E casi simili sono stati segnalati anche a ridosso delle piattaforme petrolifere tra la Sicilia e la
Libia.
Non si nasce assassini, lo si diventa quando leggi e prassi amministrative che riducono a niente la vita degli uomini, delle donne,dei minori migranti in mare, stravolgono il senso comune di rispetto della vita umana e della solidarietà a mare.
Per una combinazione degli eventi che non sorprende più di tanto, nella stessa giornata di lunedì 14 gennaio, il Tribunale di Agrigento si è occupato del processo Cap
Anamur, nel quale sono da anni sul banco degli imputati gli autori di un intervento di salvataggio, del processo ai pescatori tunisini, rimessi in libertà a settembre dello scorso anno, mentre i loro pescherecci rimangono sequestrati a Lampedusa, e del caso del capopesca
pugliese che ha gettato a mare il migrante che era riuscito a salire sulla sua imbarcazione per chiedere aiuto.
I processi saranno lunghi,
ma occorre restare vigili fino a quando non venga fatta giustizia, con l’assoluzione definitiva di chi ha salvato vite umane e con la condanna di quanti hanno ucciso con le loro azioni o con i loro comportamenti
omissivi.