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Da Carta del 25 aprile 2008

Le difficili vite delle donne globali

Le migrazioni femminili sono indispensabili per le società dei paesi sia di immigrazione sia di emigrazione. Le donne migranti, impiegate prevalentemente nel settore del lavoro domestico, sostengono le carenze dei sistemi di welfare dei paesi di destinazione e garantiscono attraverso le rimesse la riproduzione sociale delle società di origine. Nel nord-est italiano le collaboratrici domestiche e le assistenti domiciliari straniere sono migranti spesso partite sole, provenienti in prevalenza dall’Europa orientale e in misura inferiore dall’America Latina.

In tutta Italia le lavoratrici domestiche regolarmente occupate sono circa 500 mila, ma si stima che il dato reale sia pari ad almeno il doppio. Il lavoro irregolare è infatti la norma per molte collaboratrici domestiche specialmente nei primi anni di immigrazione. E’ pur vero che le migranti sono scarsamente motivate a regolarizzare il proprio rapporto di lavoro date le svantaggiose norme sulla fruizione dei contributi pensionistici o sulle prestazioni previdenziali a sostegno del reddito come l’assegno di disoccupazione. Ma, sicuramente, poche di esse possono scegliere la regolarità della propria occupazione, solitamente nelle mani dei datori di lavoro.

Tra le tre regioni del nord-est il Veneto primeggia con 32 mila collaboratrici domestiche regolari, mentre Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia sono a livello nazionale tra le regioni con il minor numero di occupati in questo settore, rispettivamente 5,5 mila e 6,7 mila. Tali differenze sono forse riconducibili al livello dei servizi sociali, migliori nelle due regioni a Statuto speciale, e a una minore propensione delle famiglie rurali a delegare a degli estranei la cura dei bambini e degli anziani. Un fenomeno quest’ultimo, diffuso anche in altre regioni italiane. Nelle aree rurali e nelle campagne industrializzate nordestine rimane radicata la delega del lavoro di riproduzione alle donne, ricorrendo al lavoro domestico salariato nei casi in cui i carichi di lavoro di cura sono insostenibili per l’estesa rete sociale.

Le migranti, oltre a pulire le abitazioni e accudire i bambini, assistono gli anziani durante gli ultimi anni della loro vita facendosi carico di un impegnativo lavoro di cura ed emotivo scarsamente retribuito e poco riconosciuto socialmente. La mancata redistribuzione del lavoro di cura tra uomini e donne e gli scarsi servizi sociali offerti dallo stato che privilegia i trasferimenti monetari alle famiglie, ha spinto un numero crescente di famiglie a ricorre al welfare privato, reso economicamente accessibile dall’offerta di manodopera straniera a basso salario. Il lavoro domestico e di cura delle immigrate è rimasto a lungo invisibile, relegato all’interno della sfera privata e spesso ignorato dalle pubbliche amministrazioni, alleggerite così dalla assistenza e dalla cura degli anziani. Per le aziende sanitarie, ad esempio, il ricorso delle famiglie alle assistenti familiari in co-abitazione rappresenta un consistente sgravio di spesa: la degenza ospedaliera di un anziano costa più del triplo dell’assunzione regolare di una lavoratrice domestica. Nel nord-est il compenso medio per un servizio in regola in regime di convivenza con una persona non autosufficiente si aggira sugli 850-900 euro mensili. Una somma alla quale occorre aggiungere le spese per i contributi, la liquidazione e il vitto per giungere a circa 1.100-1.200 euro mensili. Ma si tratta di un salario ben misero dal punto di vista delle lavoratrici: considerando che esse sono occupate per 500-550 ore al mese, il salario orario raggiunge 1,5-1,8 euro.

A prescindere dallo schieramento politico, la tendenza delle politiche pubbliche a livello nazionale e locale è di assecondare tale sistema tramite sia la promozione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro domestico e di cura sia il sostegno economico delle famiglie italiane che devono affrontare tale spesa. Si tratta quindi di politiche che permettono la sopravvivenza del welfare low cost all’italiana. In questo senso va la legge regionale “Interventi per la qualificazione e il sostegno dell’attività di assistenza familiare” (n. 043) approvata ormai da qualche anno in Friuli Venezia Giulia, che oltre a prevedere misure di sostegno economico per i datori di lavoro, promuovere la regolarizzazione dei rapporti di lavoro, pianificare interventi di formazione, permette la selezione del personale direttamente nel paese di origine. Progetti simili sono presenti anche in Trentino Alto Adige e in Veneto.

Queste iniziative si scontrano con una realtà molto più complessa. Innanzitutto le migranti non amano identificarsi con un’occupazione socialmente svalutata e reputano tale impiego come una fase transitoria della propria vita, dalla quale appena possono si smarcano verso mansioni meno totalizzanti. Per di più, tale occupazione viene banalizzata dalle stesse lavoratrici che ritengono non richieda competenze specifiche, ma piuttosto siano un aspetto innato della femminilità. D’altra parte, è ormai evidente che il ricorso delle famiglie italiane al mercato privato della cura è possibile proprio per i bassi costi di un lavoro banalizzato. La professionalizzazione delle lavoratrici domestiche rema infatti contro il welfare low cost poiché le migranti pretenderebbero retribuzioni più elevate. Per quanto riguarda invece la selezione del personale all’estero tale strumento coinvolge le amministrazioni in dinamiche opache e scarsamente efficaci. Le pratiche dei potenziali migranti viaggiano infatti solitamente sulla base della loro capacità di lubrificare, monetariamente, i diversi meccanismi burocratici.

Le giornate di lavoro di una collaboratrice domestica co-residente sono lunghe, scandite dai ritmi dell’assistito e caratterizzate dalla densità relazionale con il datore di lavoro; si svolgono in gran parte all’interno delle mura domestiche tranne i rari momenti d’aria legati, comunque, ai compiti di cura. La giornata lavorativa ha scarsi confini e gli unici momenti di sospensione reale dal lavoro sono i giorni di riposo, solitamente la domenica e il giovedì pomeriggio, quando attraverso l’allontanamento fisico dalla casa si rompe il vincolo dell’assistenza. In questi interstizi temporali le collaboratrici familiari sviluppano la propria socialità frequentando luoghi di ritrovo “etnicamente” connotati. Parchi, piazze e parcheggi sono infatti suddivisi tra i diversi gruppi nazionali ed è raro che questi si mescolino. Altri luoghi di socialità delle migranti sono le chiese e le associazioni, spesso segregate su base nazionale. Se le istituzioni religiose ostacolano spesso le capacità associative e sindacali delle lavoratrici migranti, d’altra parte le associazioni rispecchiano la rappresentazione etnicizzata e stereotipizzata che la società italiana produce delle lavoratrici straniere, organizzando prevalentemente eventi folkloristici. Sono, infatti, timide le attività associative finalizzate alla rivendicazione di migliori condizioni di vita e di lavoro in Italia, così come lo è la partecipazione alle organizzazioni sindacali.
Per quanto riguarda poi le migranti dell’Europa orientale è ormai noto che buona parte del loro tempo libero è dedicato alle attività che ruotano attorno ai parcheggi dei pulmini che collegano settimanalmente l’Italia ai paesi di provenienza, trasportando persone, merci di vario tipo e denaro. Parcheggi di questo tipo sono diffusi capillarmente anche nel nord-est: Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Belluno, Trento e Udine. Gli anonimi piazzali prendono vita il fine settimana, quando si trasformano in isole di socialità dove è possibile acquistare e consumare prodotti tipici e reperire, a caro prezzo, un impiego. La compravendita del lavoro è infatti diffuso in tutta Italia e le tariffe sono connesse alla tipologia di servizio o di anziano “offerto”. Ma questi luoghi permettono anche di collegarsi, magari solo a livello emotivo, di nuovo con il proprio paese, magari ricevendo e spedendo pacchi, oltre che denaro in patria.

I percorsi migratori delle donne che “viaggiano sole” sono sicuramente caratterizzati da fenomeni di isolamento e di facile etichettamento. Tuttavia, esse ci mostrano anche la necessità di esprimere una propria singolarità attraverso una progressiva emancipazione dal paese di emigrazione così come da quello di immigrazione. Il ringiovanimento, garantito dal percorso migratorio, è così un tentativo di ricostruire su altre basi la propria esistenza.

Francesca Alice Vianello