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Direttiva rimpatri – Comunicato stampa del Parlamento Europeo

Approvando con 369 voti favorevoli, 197 contrari e 106 astensioni la relazione di Manfred WEBER (PPE/DE, DE) che accoglie il compromesso negoziato con il Consiglio, il Parlamento ha adottato definitivamente la direttiva che stabilisce norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi in posizione irregolare, nel rispetto dei diritti fondamentali e del diritto internazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di diritti umani. Con 114 voti favorevoli, 538 contrari e 11 astensioni, il Parlamento non ha accolto la proposta di Verdi e GUE/NGL di respingere in toto la proposta di direttiva. Ha inoltre respinto gli emendamenti di questi gruppi e del PSE, volti a rendere il testo più favorevole alle persone interessate da una decisione di rimpatrio.

La direttiva incoraggia il ritorno «volontario», stabilisce la durata massima di detenzione e definisce degli standard minimi da garantire per le condizioni di vita nei centri di accoglienza. Il testo prevede inoltre talune garanzie e la possibilità di ricorso a favore delle persone espulse. Queste, inoltre, potrebbero vedersi imporre un periodo di “divieto di reingresso” durante il quale non potranno accedere nuovamente nel territorio dell’UE. La direttiva impone agli Stati membri il divieto di introdurre norme meno favorevoli, lasciandoli liberi tuttavia di applicarne di più favorevoli e affida loro la responsabilità di regolarizzare o meno gli immigrati illegali. Sottolinea peraltro la necessità di accordi comunitari e bilaterali di riammissione con i paesi terzi. Gli Stati membri dovranno attuare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva entro 24 mesi dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Campo d’applicazione

La direttiva si applica ai cittadini di paesi terzi in posizione irregolare nel territorio di uno Stato membro, il quale può però decidere di escluderne i cittadini di paesi terzi sottoposti a respingimento alla frontiera, ovvero fermati o scoperti dalle competenti autorità in relazione all’attraversamento irregolare della frontiera esterna di uno Stato membro, e che non hanno successivamente ottenuto un’autorizzazione o un diritto di soggiorno. Come pure a quelli sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità con la legislazione nazionale, o sottoposti a procedure di estradizione. Non si applica, comunque, alle persone beneficiarie del diritto comunitario alla libera circolazione.

Il testo precisa d’altra parte che, in conformità dei principi generali del diritto comunitario, le decisioni adottate in base alla direttiva «dovrebbero essere applicate caso per caso e tenendo conto di criteri obiettivi, non limitandosi quindi a prendere in considerazione il semplice fatto del soggiorno irregolare».

Disposizioni più favorevoli e principio di “non refoulement”

La direttiva, inoltre, lascia impregiudicate le disposizioni più favorevoli vigenti in forza di accordi bilaterali o multilaterali tra la Comunità, o la Comunità e i suoi Stati membri, e uno o più paesi terzi, nonché di accordi bilaterali o multilaterali tra uno o più Stati membri e uno o più paesi terzi. Non inficia, poi, le disposizioni più favorevoli ai cittadini di paesi terzi previste dall’acquis comunitario in materia di immigrazione e di asilo, né la facoltà degli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni nazionali più favorevoli, purché siano «compatibili con le norme» stabilite dalla direttiva.

Quando applicano la direttiva, è anche precisato, gli Stati membri devono tenere nella dovuta considerazione l’interesse superiore del minore, la vita familiare, le condizioni di salute del cittadino di un paese terzo interessato, e devono rispettare il principio di “non-refoulement”.

Partenza volontaria

In base al compromesso, una decisione di rimpatrio deve anzitutto fissare «un periodo congruo» per la partenza volontaria che abbia una durata compresa tra sette giorni e trenta giorni e, se la legislazione nazionale prevede che tale periodo sia concesso unicamente su richiesta, devono informare gli interessati di questa possibilità. Il periodo previsto, comunque, non esclude la possibilità di partire prima. E’ inoltre possibile prorogare tale periodo per tenere conto delle circostanze specifiche del singolo caso, quali «la durata del soggiorno, l’esistenza di figli che frequentano la scuola e l’esistenza di altri legami familiari e sociali».

Per la durata del periodo in questione, possono essere imposti obblighi diretti a evitare il rischio di fuga, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna dei documenti o l’obbligo di dimorare in un determinato luogo. D’altro canto, se sussiste il rischio di fuga o se una domanda di soggiorno regolare è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta o se l’interessato costituisce un pericolo per la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, gli Stati membri «possono astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria o concederne uno inferiore a sette giorni».

Decisione di rimpatrio e allontanamento

Gli Stati membri dovranno adottare tutte le misure necessarie per eseguire una decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria o per mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio entro il periodo per la partenza volontaria. La direttiva precisa che se gli Stati membri ricorrono – «in ultima istanza» – a misure coercitive per allontanare un cittadino di un paese terzo che oppone resistenza, tali misure dovranno essere «proporzionate», non potranno eccedere «un uso ragionevole della forza» e dovranno essere attuate, conformemente a quanto previsto dalla legislazione nazionale, «in ottemperanza ai diritti fondamentali e nel debito rispetto della dignità e dell’integrità fisica del cittadino».

L’allontanamento, d’altra parte, può essere rinviato per tenere conto delle condizioni fisiche o mentali della persona e delle ragioni tecniche, come l’assenza di mezzi di trasporto o l’assenza di identificazione. Inoltre, prima di adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di un minore non accompagnato, dovrà essere fornita un’assistenza da parte di organismi appropriati tenendo nel debito conto l’interesse superiore del minore. E prima di allontanarlo dal loro territorio, le autorità dello Stato membro dovranno accertarsi che questi «sarà ricondotto ad un membro della sua famiglia, a un tutore designato o presso adeguate strutture di accoglienza nello Stato di ritorno».

Divieto di reingresso per un massimo di cinque anni

La direttiva prevede che provvedimenti di allontanamento comportino un divieto di reingresso per una durata che non può superare cinque anni se non è stato concesso il periodo di ritorno volontario o se l’obbligo di rimpatrio non è stato rispettato. D’altra parte, è prevista la possibilità di prolungare oltre i cinque anni tale divieto se il cittadino in questione «rappresenta una grave minaccia per l’ordine pubblico, per la sicurezza pubblica o per la sicurezza nazionale». Gli Stati membri possono però astenersi dall’imporre un divieto di ingresso, revocarlo o sospenderlo in singoli casi, per motivi umanitari o per altri motivi.

Garanzie procedurali e mezzi di ricorso

La decisione di rimpatrio e – se prese – la decisione di divieto di ingresso e la decisione di allontanamento dovranno essere adottate in forma scritta, dovranno essere motivate e informare sulle modalità di impugnazione disponibili. Se richiesto, gli Stati membri sono anche tenuti a tradurre (per iscritto o oralmente) i principali elementi delle decisioni «in una lingua comprensibile per il cittadino» interessato. A determinate condizioni, sarebbe possibile non procedere di sorta nel caso di persone entrate illegalmente nel territorio di uno Stato membro e che non hanno successivamente ottenuto un’autorizzazione o un diritto di soggiorno in tale Stato.

Alla persona interessata, dovranno essere concessi «mezzi di ricorso effettivo» contro le decisioni connesse al rimpatrio, o per chiederne la revisione dinanzi ad un’autorità giudiziaria o amministrativa competente e indipendente che avrebbero la facoltà di rivedere decisioni, «compresa la possibilità di sospenderne temporaneamente l’esecuzione, a meno che la sospensione temporanea sia già applicabile ai sensi del diritto interno». Il cittadino deve inoltre avere la facoltà di farsi consigliare e rappresentare da un legale e può, se necessario, avvalersi di un’assistenza linguistica. Se non dispone di risorse sufficienti, gli Stati membri, su sua richiesta, devo garantire un’assistenza legale gratuita in base alla pertinente normativa nazionale in materia e alle condizioni fissate dalla direttiva europea sulle procedure in materia di asilo.

Prima del rimpatrio, gli Stati membri devono come regola generale provvedere affinché si tenga conto il più possibile di alcuni principi, quali il mantenimento dell’unità del nucleo familiare per quanto riguarda i membri della famiglia presenti nel territorio, le prestazioni di pronto soccorso e il trattamento essenziale delle malattie, la garanzia di accesso al sistema educativo di base per i minori, «tenuto conto della durata del soggiorno», e la presa in considerazione delle esigenze particolari delle persone vulnerabili.

Permanenza per massimo sei mesi, prolungabile di altri dodici

Salvo se nel caso concreto possano essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive, la direttiva consente agli Stati membri di trattenere il cittadino di un paese terzo sottoposto a procedure di rimpatrio «soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento». In particolare quando sussiste un rischio di fuga o il cittadino del paese terzo evita o ostacola la preparazione del rimpatrio o dell’allontanamento. La direttiva prevede che il trattenimento avvenga di norma in appositi centri di permanenza temporanea ma, qualora ciò non sia possibile e non resta che ricorrere a un istituto penitenziario, «i cittadini di paesi terzi trattenuti sono tenuti separati dai detenuti ordinari».

Tale trattenimento, disposto dalle autorità amministrative o giudiziarie, deve avere una durata «quanto più breve possibile … solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio». Spetta a ciascuno Stato membro stabilire un periodo limitato di trattenimento che, comunque, «non può superare i sei mesi». Il periodo fissato dalla legislazione nazionale, tuttavia, può essere prolungato per un periodo limitato «non superiore ad altri dodici mesi» nei casi in cui, nonostante siano stati compiuti tutti gli sforzi che è lecito aspettarsi, l’operazione di allontanamento rischia di durare più a lungo «a causa della mancata cooperazione da parte del cittadino di un paese terzo o dei ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi».

Anche per la decisione di trattenimento vi deve essere la possibilità di presentare ricorso e, in ogni caso, questa deve essere soggetta a riesame periodico. Il cittadino del paese terzo deve essere liberato immediatamente se non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi e «se il trattenimento non è legittimo».

Condizioni di vita nei centri di permanenza temporanea

I cittadini trattenuti in un centro, su richiesta, devono avere la possibilità di entrare, a tempo debito, in contatto con rappresentanti legali, familiari e autorità consolari competenti. Inoltre, le pertinenti e competenti organizzazioni ed organismi nazionali, internazionali e non governativi devono avere la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea, previa autorizzazione. Particolare attenzione deve essere prestata alla situazione delle persone vulnerabili e vanno assicurati le prestazioni di pronto soccorso e il trattamento essenziale delle malattie.

I minori non accompagnati e le famiglie con minori devono essere trattenuti «solo in mancanza di altra soluzione e per un periodo il più possibile breve in funzione delle circostanze». Le famiglie trattenute devono poter usufruire di una sistemazione separata che assicuri loro «un adeguato rispetto della vita privata». Ai minori, inoltre, deve essere offerta la possibilità «di svolgere attività di tempo libero, compresi il gioco e le attività ricreative, consone alla loro età e, in funzione della durata della permanenza, l’accesso all’istruzione». A quelli non accompagnati, poi, deve essere fornita, per quanto possibile, una sistemazione in istituti dotati di personale e strutture «consoni a soddisfare le esigenze di persone della loro età». In generale, il prevalente interesse del minore «costituisce un criterio fondamentale per il trattenimento dei minori in attesa di allontanamento». L’Aula ha respinto un emendamento del PSE (404 no, 256 sì e 14 astensioni) che intendeva rafforzare ulteriormente le garanzie da assicurare ai minori per il rimpatrio.

Deroghe per le situazioni di emergenza

Come richiesto dal Consiglio, nei casi in cui un numero eccezionalmente elevato di cittadini di paesi terzi da rimpatriare comporta un notevole aggravio imprevisto per la capacità dei centri di permanenza temporanea di uno Stato membro o per il suo personale amministrativo o giudiziario, la direttiva consente, sino a quando persiste la situazione anomala, di accordare per il riesame giudiziario periodi di tempo superiori e prendere di misure urgenti quanto alle condizioni di trattenimento. E’ peraltro precisato che ciò non autorizza gli Stati membri a derogare al loro obbligo generale di adottare «tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva».