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Fortress Europe – Pubblicato il rapporto di maggio 2008

Ogni volta che entro in acqua sento l’angoscia salire allo stomaco. E penso che non sia affatto normale. Avanzo con cautela, in una piccola baia di Samos. Sono scalzo. E ho paura di toccare un cadavere sottacqua. Ho in mente le fotografie che mi hanno mostrato una settimana fa a Lesvos, in Grecia, di due bambini ripescati in mare. Ho in mente i racconti dei pescatori e la cronaca dell’ultimo mese, che parla di almeno 112 morti sulle rotte per l’Europa, di cui 102 soltanto nel Canale di Sicilia. Il corpo di una donna ritrovato sulla spiaggia di Maluk, a Lampedusa. Un’altro cadavere a Pozzallo, in provincia di Siracusa. Uno a Castel Vetrano, a Trapani. I 37 morti a Malta e i 50 a Teboulba, inTunisia. Cadaveri che galleggiano sopra questa grande fossa comune che è diventato il Mediterraneo – almeno 12.180 morti negli ultimi 20 anni -, senza che nulla si sappia delle loro imbarcazioni naufragate. Senza che nulla si sappia di quanti altri passeggeri erano a bordo e quanti siano i dispersi in mare. Come i 21 di Samos, lo scorso 16 maggio, di cui non è rimasta alcuna traccia se non una lettera autografata scritta dall’unico superstite.

“Eravamo 22 persone su un gommone… Siamo stati intercettati dalla guardia costiera greca. Hanno legato il nostro gommone alla motovedetta e ci hanno trainato verso la costa turca. Poi ci hanno sequestrato il carburante e ci hanno abbandonato in mezzo al mare. Il tempo è peggiorato e sono salite le onde. L’imbarcazione ha iniziato a ondeggiare. Era il 16 maggio alle due del mattino. Le persone a bordo hanno iniziato a cadere in acqua una dopo l’altra… il gommone si è rovesciato. Ho perso il mio amico. Ho iniziato a nuotare e a combattere contro le onde del mare. Alla fine un pescatore mi ha tratto in salvo e mi ha portato all’ospedale da dove mi hanno trasferito al campo”

Nessun corpo è stato ripescato negli ultimi giorni a Samos. E Yassin, l’autore della lettera, nel frattempo è partito per Atene senza che nessuno abbia i suoi contatti. Nessuno quindi è in grado di dire se i naufraghi siano stati soccorsi dalle autorità turche e se siano tutti annegati. Quel che è certo è che la storia è più che verosimile. Tawfiq ne è convinto. È un ragazzo algerino che vive sull’isola greca. È lui che mi ha tradotto la lettera, scritta in arabo. Nonostante la giovane età, 23 anni, può ben dirsi un veterano tra gli harragas, dato che ha bruciato la frontiera tra Turchia e Grecia per ben sette volte. L’ultima da solo. A bordo di un canotto, armato di remi e coraggio, lungo un tragitto di un paio di miglia. A suo fratello, Sufien, è successo lo stesso. Lo incontro il giorno su una spiaggia dell’isola. Davanti a una birra ghiacciata mi racconta la notte del 2 maggio dello scorso anno. Nessun passeur. Avevano fatto tutto da soli. Conoscevano già la rotta. Lui, un terzo fratello, due cugini e un amico. Tutti algerini. Avevano comprato i remi e un gommone di un paio di metri. Dopo essere salpati da una spiaggia vicino Kusadasi, a metà tragitto vennero fermati dalla marina militare greca. Sufien insiste. La motovedetta era di quelle grigie. I militari si avvicinarono al gommone e tagliarono con un coltello le camere d’aria. Per poi rimanere a guardare mentre i cinque finivano in acqua. Fortunatamente sapevano tutti nuotare e nel giro di cinque ore, stremati, raggiunsero a nuoto la costa turca. Ma cosa sarebbe successo se uno di loro non avesse saputo nuotare? O se fosse accaduto con le temperature invernali? L’affondamento dei gommoni dei migranti è una pratica abituale della guardia costiera e della marina greca, come ampiamente documentato dal rapporto del 2007 di Pro Asyl. Come pure il mancato soccorso. Bilal e gli altri 23 passeggeri del gommone partito il 12 marzo 2008 hanno aspettato invano nove ore l’arrivo dei soccorsi greci. Il passeur turco a Izmir aveva dato loro i numeri della Guardia costiera greca, che avevano chiamato verso le quattro del mattino, quando il motore era andato in panne. Una motovedetta in realtà si era avvicinata, ma soltanto per fare delle foto. Poi si era allontanata. Quando il mare si era fatto grosso, per salvarsi la vita avevano quindi deciso di avvertire la guardia costiera turca, verso le 13.30.

Il numero di arrivi di migranti e rifugiati lungo le rotte dell’Egeo è in continuo aumento negli ultimi anni. A Lesvos ad esempio nei primi cinque mesi del 2008 sono già arrivate 4.320 persone contro le 6.370 di tutto il 2007. Sono soprattutto afgani (3.285 nei primi 10 mesi del 2007). E poi ci sono irakeni, kurdi, palestinesi, somali, sudanesi, mauritani, senegalesi, ivoriani, nigeriani, algerini e marocchini. I flussi sono misti. Migranti economici e rifugiati. Per evitare l’espulsione, parte degli africani si dichiarano somali. E parte degli arabi si dicono palestinesi o irakeni. Ma i rifugiati ci sono davvero. Basta visitare il vecchio campo di detenzione di Samos per capirlo. È un vecchio edificio su due piani, in pieno centro. È stato chiuso alla fine di novembre 2007. In alcune stanze è rimasto tutto come allora. I letti a castello a tre piani hanno ancora le coperte. E il pavimento è coperto di materassini in gommapiuma. I graffiti sulle pareti raccontano la storia del centro e le storie dei rifugiati che ha accolto. Ci sono i ritratti di Yasser Arafat e la bandiera della Palestina, ci sono frasi in amarico e dichiarazioni d’amore alla Somalia e al Sudan, come pure richieste di libertà per il Kurdistan.

Domenica primo giugno vengono rilasciati 35 prigionieri dal nuovo campo di detenzione di Samos. Ne approfitto, accompagnato da Anna, una militante dell’isola, per salire sulla Nissos Mikonos, la nave di linea che li porterà ad Atene. Siedono sul ponte della nave. La polizia ha pagato loro il biglietto. Sono stati rilasciati dopo due tre settimane di detenzione. Ormai nessuno sulle isole greche sconta più i tre mesi di detenzione, come si faceva fino allo scorso anno. Nessuno tranne chi presenta richiesta d’asilo. E infatti nessuno lo fa. Nel 2007 il 96% delle richieste d’asilo sono state fatte ad Atene. Ognuno di loro viene quindi rilasciato con un foglio di via. È scritto solo in. Dice che hanno un mese per lasciare la Grecia. E che è loro vietato recarsi nell’Achaia, la regione dove si trova Patrasso, ovvero la via d’uscita dalla Grecia. Nessuno dei migranti a bordo sa cosa fare nè dove andare una volta ad Atene. Sono abbandonati a se stessi. C’è anche un minorenne, 16 anni, della Guinea. Gli altri sono quasi tutti senegalesi e nigeriani, ma hanno dichiarato di essere somali. La settimana scorsa su un’altra nave a Mitilini, il porto di Lesvos, la scena era la stessa. A bordo c’era un gruppo di una ventina di afgani, tra cui quattro minorenni non accompagnati, e due donne con le proprie bambine di pochi anni. L’unica chance una volta a Piraeus, il porto di Atene, è prendere la metro per Omonia, il quartiere ghetto sotto l’Acropoli.

In via Xouthou, dietro la vetrina di un anonimo bar di Atene si trova la sede dell’Associazione dei rifugiati sudanesi. Il presidente, Adams Salih mi accoglie servendomi un chai. È scappato dal Darfur, ed è arrivato nel 2004 a Creta, a bordo di una nave porta container salpata da Port Sudan, nel mar Rosso. Secondo le sue stime, a Omonia vivono almeno 450 sudanesi e altrettanti somali. Potenzialmente sono tutti rifugiati politici. Ma di fatto hanno tutti un foglio di via. Uno di loro, Abdallah, classe 1972, signore distinto, camicia bianca, occhiali da vista e orologio dorato al polso, lo incontro poco dopo al Maqi hotel, un vecchio albergo occupato dai sudanesi in via Satovriandou, dove i nuovi arrivati dormono per tre euro a notte in stanze di dieci persone. È sbarcato a Samos lo scorso 20 aprile. Da dieci giorni è ufficialmente un clandestino. Nessuno gli impedisce di chiedere asilo in Grecia. Ma i tempi di attesa sono in media di tre o quattro anni. Nel frattempo si può lavorare, ma alla fıne dell’ıter, la risposta è quasi sempre negativa. Nel 2007 a fronte di 25.000 domande d’asilo presentate, soltanto 150 persone hanno ricevuto l’asilo o la protezione umanitaria. Così tutti vogliono andarsene. Anche perchè magari hanno parenti in altri Paesi europei. Per lasciare la Grecia basta un passaporto falso o un viaggio nascosti nei camion che ogni giorno si imbarcano a Patrasso per l’Italia. Ma il destino di queste persone è un’elastico appeso alle loro impronte digitali.

Si chiama Convenzione di Dublino e impone al richiedente asilo di chiedere asilo nel primo paese europeo che incontra. E se in Grecia il tasso di riconoscimento dell’asilo è cinquanta volte inferiore a quello dell’Italia o della Svezia poco importa. Se le impronte sono state prese in Grecia, in Grecia sono condannati a restare. Ali, sudanese, era arrivatoin Norvegia un anno fa, ma l’hanno rispedito ad Atene. Lo stesso Siad, dall’Irlanda. Sta qui l’irrazionalità delle politiche greche sull’immigrazione. La Grecia non vuole che restino, tanto che non riconosce l’asilo a nessuno e compie gravi azioni di respingimento in mare verso la Turchia. Ma dalla Grecia non se ne possono andare. Tutto questo mentre nel resto dei Paesi europei le richieste d’asilo sono dimezzate negli ultimi anni. E così aumenta la massa di persone senza documenti nè diritti, sfruttati nei cantieri ad Atene come nella raccolta delle fragole a Olimpya e ın quella delle arance ad Atra. La Grecia è lontana dall’idea che si erano fatti dell’Europa. E allora il viaggio riprende. Da Patrasso. In direzione ostinata e contraria. Verso l’Italia.

Mohamed mi mostra uno dei suoi disegni. C’è un poliziotto che mena in aria un coltello e un ragazzino con la testa insanguinata, in un parcheggio grigio di fronte a un porto. Jaber ci ha tenuto a mostrarmi il disegno fatto un paio di mesi fa da uno dei sei ragazzi con cui divide la baracca. È una prova della storia che mi aveva raccontato il giorno prima, quando ci siamo conosciuti, nella baracca di Jemmah. Jaber, 16 anni, ha assistito alla scena di persona, stavano fuggendo dal parcheggio dei camion, inseguiti dalla polizia. Succede ogni notte a Patrasso. Gruppetti di dieci quindici adolescenti scavalcano la recinzione alta due metri, all’altezza del Gate 7, e corrono verso la seconda rete di filo spinato, che circonda il parcheggio dei camion. Per capire se il camion va in Italia – mi spiega Jemmah – sentono la temperatura delle gomme. Se sono calde vuol dire che è appena arrivato da Atene e che quindi sarà imbarcato l’indomani. Si nascondono insieme alle merci oppure in basso, aggrappati al telaio. Prima che arrivi la polizia che altrimenti sono guai. Jemmah lo sa bene. Due mesi fa l’hanno preso. Al porto. Erano quattro agenti. Un pugno e un calcio nell’orecchio per immobilizzarlo. Poi l’hanno fatto sdraiare per terra con le mani aperte, mentre un agente gli calpestava la schiena con gli stivali. Quindi hanno deciso di divertirsi un pò. Un uomo in divisa gli ha puntato la pistola sulla fronte gridando “I will kill you!”. E ha premuto il grilletto. Il colpo non è mai esploso perchè prima avevano tolto i proiettili. Alla fine, dopo le botte e la finta esecuzione, gli hanno chiesto quanti anni aveva. Quattordici ha risposto. E l’hanno lasciato andare. Una storia come tante la sua. Di abusi e impunità. Di razzismo. Ma come è possibile che un ragazzino di 14 anni si veda puntare una pistola alla tempia da un agente delle forze dell’ordine! E come è possibile che un ragazzino di 14 anni muoia schiacciato sotto un camion, come successo a Forlì a gennaio, perchè non ha nessun altro modo per raggiungere l’Italia.

“La nostra è una generazione nata nella guerra, cresciuta nella guerra e fuggita dalla guerra. Non ho visto altro da quando sono nato, se non distruzione, morte, rapimenti. Abbiamo perso i nostri cari. Abbiamo perso i nostri diritti. Eppure non ci viene riconosciuta nessuna protezione. Quante guerre servono? Quanti morti servono per essere riconosciuto come rifugiato politico?”. Lo chiede a voce alta uno degli afgani intervenuti a un incontro pubblico organizzato dal movimento antirazzista di Patrasso, lo scorso 25 maggio. Per l’occasione sono arrivati alcuni attivisti da Tessalonicco e hanno montato un allaccio abusivo all’acquedotto per portare l’acqua corrente alla baraccopoli degli afgani. Ci vivono 500 afgani, uno su tre ha meno di 18 anni. Il campo esiste dal 1996. All’inizio erano solo kurdi. Alcune baracche hanno allacci abusivi alla corrente elettrica. Ogni notte tentano di passare il confine. La polizia li guarda a vista. Più che un’emergenza abitativa è un nuovo luogo di detenzione. Un ghetto dove centinaia di rifugiati sono concentrati e guardati a vista e a costo zero. Sì perchè anche se non ci sono gabbie, dal campo non si può uscire. Ci sono macchine della polizia ad ogni angolo. Si rischia di essere portati in commissariato e magari detenuti tre mesi nei centri di Evros o di Atene. Dal campo si può solo scappare. Di notte. Tentando di eludere i controlli e le botte degli agenti, delle guardie private delle compagnie di navigazione e dei camionisti. E sperando di non essere riammessi in Grecia una volta arrivati nei porti italiani. Altrimenti ricomincia tutto da capo. “Moriamo ogni momento e continuamo a morire – conclude il ragazzo afgano quasi implorando il pubblico – Ma siamo esseri umani come voi. Noi non siamo animali. Abbiamo gli stessi sentimenti, come voi”

Raccomandiamo ai politici italiani ed europei una visita a Patrasso. Il Parlamento italiano infatti si appresta a discutere l’introduzione del reato di clandestinità e il Governo fa sapere che serviranno 600 milioni di euro per avere un Centro di identificazione ed espulsione (Cie, che sostituiranno gli attuali Centri di permanenza temporanea Cpt) in ogni regione, per i quali sono giàstate identificate 10 caserme dismesse. I migranti senza permesso di soggiorno vi potranno essere detenuti fino a 18 mesi, anticipando così la vergognosa direttiva europea sui rimpatri anch’essa in dirittura d’arrivo. È grave quello che sta succedendo nell’Europa della libera circolazione. Ma in fondo non tutti i viaggiatori appartengono alla stessa classe di umanità. E vale la pena ricordarlo all’inizio della stagione estiva. Anche quest’anno decine di milioni di turisti approderanno alle Canarie, in Andalusia, sulle isole greche, a Malta e in Sicilia, accolti dai sorrisi delle hostess e dei camerieri. Su quelle stesse rotte, alcune decine di migliaia di altri viaggiatori non invitati saranno invece sorvegliati dalle nostre navi da guerra, da aerei senza pilota e satelliti spia, e in fine privati della loro libertà. Su quelle stesse rotte centinaia di uomini, donne e bambini perderanno la vita. Ci penso ogni volta che entro in acqua. E penso che non sia affatto normale.

Gabriele Del Grande
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