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da La Repubblica del 17 giugno 2008

Quel cimitero nel canale di Sicilia

"Diecimila annegati in 10 anni"

di Giovanni Maria Bellu

Quella di ieri non è “l’ultima strage”. La verità è che “l’ultima strage” non esiste. Ogni tanto accade che muoiano più persone tutte assieme. Ma la morte nel Mediterraneo è un fatto quotidiano, di routine. L’ennesimo SOS è arrivato poche ore fa agli uffici dell’Acnur, l’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati. C’era una barca in difficoltà in qualche punto del Mediterraneo. Uno dei passeggeri, un somalo, ha telefonato a un parente residente in Italia. E il parente ha chiamato l’Alto commissariato che, come sempre, ha girato la segnalazione alle autorità marittime. “Succede molto spesso”, dice la portavoce Laura Boldrini.

Se si aggiungono le segnalazioni che arrivano direttamente alle Capitanerie di porto – anche i “clandestini”, infatti, hanno i satellitari e un’agenda coi numeri di emergenza – si comprende perché gli addetti ai lavori non sono rimasti affatto sorpresi. Quanto è accaduto il 7 giugno scorso ai 150 partiti dal porto libico di Zuwarah, nel dicembre del 1996 era successo ai 283 indiani, pakistani e tamil dello Sri Lanka annegati davanti a Portopalo di Capo Passero; il 19 marzo era capitato a una quarantina dei 380 tunisini che si erano imbarcati a Zawia e che, dopo nove ore di navigazione verso l’Italia, si sono trovati in difficoltà, hanno invertito la rotta, sono tornati in prossimità della costa e sono stati accolti a fucilate dalla polizia di Gheddafi.

Le stime più prudenti parlano di diecimila morti annegati negli ultimi dieci anni sulle rotte tra l’Africa e le nostre coste meridionali. Se si considera che ogni anno arrivano via mare circa ventimila migranti, si ha un’idea di quanto sia alta la possibilità di morire nel mare nostrum: per ogni cento “clandestini” che arrivano, cinque annegano. E si ha anche qualche indicazione sull’efficacia dell’inasprimento delle pene, dell’istituzione del reato di immigrazione clandestina, del prolungamento del periodo di permanenza nei centri di detenzione. Si tratta di sanzioni tutto sommato blande davanti alla pena capitale che il Mediterraneo commina tutti i giorni senza processo, con i criteri delle decimazioni naziste, colpendo indiscriminatamente donne e bambini.

Per questo gli addetti ai lavori sono scettici rispetto all’ipotesi che attribuisce l’aumento delle tragedie del mare alla fretta. La fretta di raggiungere l’Italia prima che la nuova legislazione della cosiddetta “tolleranza zero” entri pienamente in vigore. Quanto sta accadendo in questi giorni non è diverso da quanto è accaduto negli ultimi anni. L’immagine dei disperati che si erano salvati la vita aggrappandosi alla gabbia per la pesca dei tonni – gli “uomini tonno”, come furono chiamati – è apparsa in tutti i giornali del mondo un anno fa. Ha avuto molta meno risonanza una vicenda identica accaduto alla fine del mese scorso. Eppure c’era una novità importante: le “donne tonno”. E sabato scorso si è stati sul punto di avere anche i “bambini-tonno” somali. Purtroppo non ce l’hanno fatta. Sono annegati a largo della Valletta sotto gli occhi dei loro genitori.

“E’ molto difficile – dice Laura Boldrini – individuare delle cause specifiche che spieghino l’andamento delle partenze e degli sbarchi. L’esperienza ci ha insegnato che nemmeno il criterio meteorologico aiuta a capire. A volte c’è tempo bello e le partenze sono contenute. A volte le condizioni del mare sono cattive e gli sbarchi aumentano”.

Tuttavia cinque anni fa si ebbe l’impressione di aver individuato almeno una delle cause del fenomeno. Nel 2003, a giugno, il pure allora premier Berlusconi cominciò a parlare di un accordo tra l’Italia e il governo libico. Prevedeva la realizzazione di pattugliamenti congiunti e, soprattutto, la fornitura di una serie di materiali: gommoni, visori notturni, jeep e anche un migliaio di body bag, sacchi per cadaveri. Di colpo, tra il 20 e il 30 giugno, gli sbarchi s’interruppero. Salvo poi riprendere a luglio, poco prima di una visita a Tripoli del ministro dell’Interno dell’epoca, Giuseppe Pisanu. La trattativa era ripartita e Gheddafi aveva alzato la posta.

Da allora i rapporti con la Libia sono diventati sempre più intensi. Uno degli ultimi atti del governo Prodi è stato il finanziamento, con sei milioni e 243mila euro, di un nuovo patto, siglato il 29 dicembre del 2007, “per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani”.

Salvo qualche sporadica partenza dalla Tunisia e, per la nuova rotta che porta alla coste meridionali della Sardegna, dall’Algeria, i boat people partono dalla terra di Gheddafi. I trafficanti di esseri umani agiscono là. E hanno a disposizione una quantità immensa di materia prima: gli stranieri, per la stragrande maggioranza africani neri provenienti dal Sudan, dal Ciad, dal Niger e dal Corno d’Africa, oltre che dall’Egitto, sono oltre due milioni. Dopo averli accolti negli anni Novanta in nome della “solidarietà panafricana” Gheddafi ha cominciato a respingerli nel deserto da dove erano venuti, con percentuali di mortalità non diverse da quelle del Mediterraneo.

Ma la massa dei disperati è ancora là ed è disposta a tutto pur di raggiungere l’Europa. Ne avrebbe qualche diritto. Secondo i dati dell’Alto commissariato, a un quinto dei migranti che giungono in Italia via mare vengono riconosciuti l’asilo politico o la protezione umanitaria. Cioè non sono “clandestini”. Ma questo lo si scopre nel momento in cui arrivano. Quando i più fortunati possono raccontare la loro storia.