Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Ordinanza n. 310 dd. 29 maggio 2008 del Tribunale di La Spezia

Accesso degli stranieri di paesi non comunitari ai rapporti di impiego nelle imprese del trasporto pubblico urbano

Il giudice civile di La Spezia ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, primo comma n. 1) del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148 , all. A) : “Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione”, nella parte in cui richiede, per l’accesso a tali impieghi, il requisito della cittadinanza italiana.

In sostanza, sarà la Corte Costituzionale a doversi esprimere sulla compatibilità con l’ordinamento costituzionale della norma, risalente alla legge sulle corporazioni, che attualmente impedisce ai cittadini stranieri non comunitari di essere assunti nelle imprese di trasporto pubblico urbano (ad es. in qualità di conducenti o di operai meccanici).

Nell’ordinanza con la quale il giudice del lavoro di La Spezia ha trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale, si sollevano dubbi sulla costituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 4 della Costituzione, rilevando che la clausola di esclusione fondata sulla nazionalità risulterebbe arbitraria in quanto lederebbe i principi di uguaglianza e di ragionevolezza, così come il diritto al lavoro. Ugualmente non si potrebbe invocare la clausola generale di esclusione degli stranieri non comunitari dai rapporti di pubblico impiego, in quanto i rapporti di lavoro nelle imprese del trasporto pubblico locale non sono ad essi assimilabili, ma hanno natura privatistica.

L’ordinanza del giudice del lavoro di La Spezia giunge a seguito di un ricorso presentato ex art. 44 del T.U. immigrazione (azione giudiziaria anti-discriminazione) da un cittadino marocchino assistito dall’avv. Francesca Angelicchio, socia dell’ASGI. Nel corso degli ultimi anni, l’ASGI e l’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni Razziali) erano intervenuti più volte chiedendo la disapplicazione della norma ovvero la sua abolizione nell’ambito di un nuovo contratto collettivo di lavoro del personale autoferrotranviario. Si ritiene, infatti, tale norma contraria non solo ai principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza e di tutela del diritto al lavoro, ma anche incompatibile con il principio di parità di trattamento e di non discriminazione nell’accesso al lavoro dei cui al T.U. immigrazione.

Sul diniego all’accesso degli stranieri non comunitari ai rapporti di impiego nelle imprese del trasporto pubblico locale , si veda la presa di posizione dell’ASGI nella newsletter n. 7 – giugno 2007 del progetto LEADER (Lavoro e Occupazione senza Discriminazioni Etniche e Religiose), nonché il promemoria dell’UNAR (Ufficio Nazionali Anti-Discriminazioni Razziali), pubblicato sulla newsletter n. 11 – novembre 2007 del progetto LEADER.

Di seguito il testo dell’ordinanza del Tribunale di La Spezia

Tribunale di La Spezia, Ordinanza n. 310 del 29 maggio 2008, Giudice del Lavoro: Panico. R.M. – A.T.C. S.p.A..

Con ricorso ex art. 44, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e succ. modd. (t.u. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), poi convertito in ricorso ex art. 414, c.p.c., introdotto avanti il Tribunale di La Spezia, giudice monocratico del lavoro, il sig. M. R., residente in Sarzana (SP), ha agito nei confronti della locale azienda municipalizzata di trasporto pubblico A.T.C. S.p.A., deducendo: di essere cittadino marocchino, regolarmente soggiornante in Italia da molti anni; di avere inoltrato domanda per l’acquisizione della cittadinanza italiana in data 26 ottobre 2005, ad oggi non ancora definita; di essere dipendente della ditta Arcadia s.c.r.l., sedente in Arcola (SP), la quale esercita, in regime di appalto, il servizio di trasporto pubblico di persone per conto di A.T.C. S.p.A. su alcune tratte della medesima; di essere in possesso delle prescritte abilitazioni di guida; di aver avanzato domanda di assunzione ad A.T.C. S.p.A. nel maggio-giugno 2006, con esito negativo. Reagiva a ciò, osservando che il diniego era motivato con il difetto del requisito della cittadinanza italiana e che l’A.T.C. S.p.A. aveva effettuato assunzioni nel periodo immediatamente successivo alla sua domanda. Formulava sia domanda di accertamento della discriminazione, con l’adozione di ogni più opportuno provvedimento (compresi l’ordine di assunzione e la liquidazione del danno non patrimoniale), sia, più ampiamente, domanda di risarcimento del danno da perdita di chances relativamente alla mancata assunzione. Prospettava anche questione di illegittimità costituzionale dell’art. 10, r.d. 8 gennaio 1931, n. 148, all. A), nella parte in cui prescriveva, per l’assunzione in prova alle dipendenze delle imprese esercitanti pubblici trasporti in concessione, il requisito della cittadinanza italiana, per contrasto con gli arti. 3, 4 e 10, secondo comma, Cost.
Si costituiva l’A.T.C. S.p.A., in persona del Presidente Enrico Sassi, che contestava in fatto ed in diritto il ricorso avversario e ne chiedeva la reiezione, sia per la parte concernente la discriminazione sia per la parte riguardante la domanda risarcitoria per perdita di chances.
Veniva quindi effettuato il libero interrogatorio delle parti e tentata la conciliazione della causa, con esito negativo.
Quindi, parte ricorrente avanzava istanza di mutamento del rito, dal procedimento ex art. 44, t.u. immigrazione, ad art. 414, c.p.c. ed il convenuto non si opponeva; il giudice, ritenendo la sussistenza dei presupposti, alla luce della domanda di risarcimento del danno da perdita di chances, autorizzava la modifica e disponeva la prosecuzione della causa quale causa ordinaria di lavoro.
In discussione, parte ricorrente insisteva, in via subordinata, sulla prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. n. 148 del 1931, all. A), Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione, per contrasto con gli artt. 3-4, Cost.; le parti hanno ampiamente discusso in merito, con deposito di note.
La questione appare rilevante e non manifestamente infondata nei termini che seguono.
Non è contestato in causa che il ricorrente abbia avanzato domanda di assunzione, quale autista, ad A.T.C. S.p.A.; parimenti, è indubitabile che la sua domanda non è stata presa in considerazione per il difetto del requisito della cittadinanza.
Ciò risulta agevolmente dalla lettera datata «Roma, 15 gennaio 2007» a firma del direttore generale dell’ASSTRA – Associazione Trasporti, prodotta dal ricorrente, sub n. 10) e trasmessa tramite l’A.T.C. S.p.A.
Con tale missiva, infatti, il suddetto direttore significa, al difensore del ricorrente, che osta all’assunzione di cittadini extracomunitari il requisito della cittadinanza italiana; e tale posizione è ripetuta dall’azienda nella propria comparsa di costituzione e risposta.
È certo vero che l’A.T.C. S.p.A. non ha obbligo di dare corso a tutte le domande di assunzione e che, quindi, anche qualora il ricorrente fosse cittadino italiano, non maturerebbe, per ciò solo, il diritto all’assunzione.
Si tratta di circostanza che conduce alla conclusione che, nel caso, il ricorrente non può fondatamente pretendere l’assunzione per via giudiziale.
La questione non può però considerarsi chiusa, poiché il ricorrente avanza anche due domande risarcitorie: una per il ristoro dei danni non patrimoniali, ex art. 44, comma 7, t.u. immigrazione ed una, subordinata, per perdita di chances.
Al riguardo, devesi allora rilevare il ben altro fondamento di siffatte domande.
Infatti, l’azienda nell’anno 2006 ha effettuato nove colloqui di assunzione, ha assunto sette persone, tra cui cinque provenienti dalla mobilità e, di costoro, ne ha confermati quattro: si tratta di fatto pacifico in causa, poiché allegato dalla stessa convenuta.
Pertanto, è pacifico che, nell’anno 2006, sono state fatte sette assunzioni, di cui cinque dalla mobilità.
Anche il ricorrente, però, era iscritto nelle liste di mobilità ed ha fatto domanda di assunzione ad A.T.C. S.p.A., ma la sua domanda non è stata esaminata per difetto della cittadinanza italiana.
Ne consegue che le domande risarcitorie possono essere accolte – nella misura da quantificare – solo se la norma di cui all’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. n. 148 del 1931, all. A), viene ritenuta costituzionalmente illegittima; in caso contrario, anche tali domande vanno respinte.
In altri termini, il loro accoglimento è legato all’accertamento di un illecito (v. Cass. 13 novembre 2006, n. 24170, in motivaz.), che, nel caso, non può prescindere dal sindacato di legittimità dell’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. n. 148, all. A).
Ed è poi, noto, quanto al danno non patrimoniale, che esso è sganciato da una dimensione economicistico-reddituale: pertanto, ai fini della sua configurabilità, non ha rilevanza il fatto che il ricorrente abbia reperito altra occupazione (nel giugno 2006, il ricorrente è stato assunto come autista da Arcadia s.c.r.l.).
E poi vero che l’art. 10, primo comma, n. 1), in forza del richiamo all’art. 113, quinto comma, r.d. 9 maggio 1912, n. 1147 (che riguarda il settore delle ferrovie concesse all’industria privata, le tranvie a trazione meccanica e gli automobili), ammette una deroga (purché via sia l’approvazione governativa); ma, nel caso di specie, è pacifico che la deroga non sussiste.
Inoltre, non è pregiudiziale la domanda di riconoscimento della cittadinanza italiana: la sua definizione non incide infatti sulla materia del contendere e, segnatamente, sulle domande risarcitorie.
Per tutti questi motivi, la questione è rilevante ed occorre passare alla sua illustrazione.
In prima battuta è necessario ricostruire il quadro normativo.
Ora, l’art. 10, secondo comma, Cost., sancisce che la «condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge».
Per quel che concerne il settore dell’accesso e delle condizioni del lavoro, l’art. 10, legge 10 aprile 1981, n. 158, di ratifica ed esecuzione delle convenzioni numeri 92, 133 e 143 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, afferma che ogni Stato membro, ove è in vigore la convenzione (nel caso, la n. 143), «s’impegna a formulare e ad attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire… la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione… per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio».
L’art. 12, lett. d), impone poi, ad ogni Stato membro, tra l’altro, di «abrogare qualsiasi disposizione legislativa e modificare qualsiasi disposizione o prassi amministrativa incompatibili con la suddetta politica».
Ma tali norme vanno coordinate col successivo art. 14, lett. c), che consente ad ogni Stato membro di «respingere l’accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni, qualora tale restrizione sia necessaria nell’interesse dello Stato».
L’art. 2, t.u. immigrazione, dal canto suo, sancisce che la Repubblica, «in attuazione della convenzione dell’OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani».
A sua volta, il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, di attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, afferma tale principio anche per il settore dell’accesso al lavoro, sia dipendente che autonomo e per quello delle condizioni di lavoro (art. 3, comma 1).
L’art. 27, comma 3, t.u. immigrazione, sancisce, però, che rimangono ferme «le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività».
Quest’ultima disposizione vale anche per il caso di specie, poiché essa configura un’eccezione alla norma generale di cui all’art. 2, comma 3, t.u. e, quindi, il sistema può così compendiarsi: in via generale, il requisito della cittadinanza non deve sussistere per l’accesso agli impieghi, salve le eccezioni previste dalla legge.
Nel nostro caso, la norma eccezionale è data proprio dall’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. n. 148, all. A) esteso al personale delle filovie urbane ed extraurbane e delle autolinee urbane dalla legge 24 maggio 1952, n. 628.
Non pare quindi sostenibile l’interpretazione propugnata in via principale dal ricorrente, per la quale gli artt. 2, comma 3, t.u. immigrazione e l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 215 del 2003, avrebbero implicitamente abrogato l’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. n. 148, all. A).
Infatti, quanto al d.lgs. n. 215, vale il principio che lex posterior generalis non derogat priori speciali.
Invero, è acquisizione giurisprudenziale che il corpus normativo di cui al r.d. n. 148 del 1931 costituisce un sistema chiuso e speciale di norme anche rispetto a quelle comuni del lavoro: per tutte, vale il chiaro insegnamento della cassazione 15 aprile 1997, n. 3210 (già Id. 9 dicembre 1974, n. 4147, più di recente, Id. 18 aprile 2002, n. 5586; v. anche l’approfondita esemplificazione di Trib. Genova, ord. 18 aprile 2007, in atti prodotta).
Pertanto, non può dirsi che i principi, generali, del d.lgs. n. 215 prevalgano sulle norme speciale del r.d. n. 148.
Neppure può dirsi che, nel settore del pubblico trasporto in concessione, vi sia una lacuna normativa, da colmare col ricorso alle norme generali.
Invero, nel caso la norma speciale sussiste e regolamenta i requisiti per l’ammissione in prova al servizio (così la citata Trib. Genova, ord. 18 aprile 2007).
Neppure, a parere del giudice, può ritenersi che l’art. 10, primo comma, n. 1), sia direttamente disapplicabile sul presupposto del contrasto con una norma nazionale superprimaria (il citato art. 2, comma 3, t.u. immigrazione), attuativo di fonti internazionali (nella specie, la convenzione OIL n. 143).
Invero, si osserva che l’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. n. 148, all. A), non è in contrasto con la norma superprimaria, poiché quest’ultima, al suo art. 27, comma 3, fa salve le diverse disposizioni di legge: ed il nostro articolo è una di queste.
Non vi è dunque spazio né per ravvisare una lacuna normativa, né per ritenere l’implicita abrogazione dell’art. 10, primo comma, n. 1), ad opera del d.lgs. n. 215, né per procedere alla sua diretta disapplicazione per contrasto con norma superprimaria (l’art. 2, comma 3, t.u. immigrazione).
Conseguentemente, neppure può ravvisarsi una possibile violazione dell’art. 10, secondo comma, Cost., come invece paventato dal ricorrente.
Va poi aggiunto che l’art. 1, comma 2, legge 12 luglio 1988, n. 270, ha consentito la deroga, tramite la contrattazione collettiva, delle norme di cui al r.d. n. 148 del 1931, all. A); ma, ad oggi, il requisito della cittadinanza non è stato inciso dalla contrattazione.
Pertanto, alla luce di tutto quanto supra, la norma dell’art. 10, primo comma, n. 1), deve considerarsi tutt’ora vigente nel nostro ordinamento.
Appurato ciò, occorre però chiedersi se tale norma conservi un ragionevole fondamento che la giustifichi.
Pare opportuno ricordare, per sommi capi, che l’emanazione del t.u. immigrazione ha dato il via ad un dibattito se il divieto di discriminazione legato alla cittadinanza valga anche per il settore del pubblico impiego.
Qui, infatti, ai sensi dell’art. 2, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e dell’art. 2, comma 1, n. 1), d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, norma «legificata» dall’art. 70, comma 13, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (t.u. sul pubblico impiego), per accedere agli uffici occorre essere cittadini italiani (con le eccezioni che quest’ultima norma fa salve).
Recentemente, con ampia motivazione, la già citata cassazione 13 novembre 2006, n. 24170 ha ritenuto la perdurante vigenza del requisito della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego, ancorché privatizzato; ed ha precisato (in motivaz.) non solo che si esula dall’area dei diritti fondamentali ma anche che «la scelta del legislatore è giustificata dalle stesse norme costituzionali (art. 51, 97 e 98 Cost.)».
Pare dunque corretto inferirne che la suprema Corte abbia ritenuto fondata l’esclusione del non cittadino dall’accesso ai pubblici uffici per la particolare posizione e finalità che esprime la pubblica Amministrazione, già in forza dei ricordati principi costituzionali.
Ma, nel caso del trasporto pubblico locale, non pare sostenibile la sua equiparazione al lavoro pubblico, anche privatizzato, di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 e succ. modd. ed integrazioni.
Invero, già la risalente giurisprudenza insegnava che il settore del trasporto pubblico in concessione costituisce un ambito intermedio di lavoro, che presentava tratti ora di quello pubblico ora di quello privato (per tutte, Cass. 11 febbraio 1978, n. 641, Id. 25 febbraio 1982, n. 1216).
In forza di questa impostazione, si potrebbe ancora sostenere la ragionevolezza della regola speciale di cui all’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. n. 148, all. A).
Ma tale impostazione merita, oggi, di essere sottoposta a riesame critico, attesa la sostanziale trasformazione delle aziende municipalizzate, le quali sono venute assumendo la forma di società per azioni.
Sul punto, con condivisibili considerazioni, si è recentemente espresso l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali – UNAR, costituito presso la Presidenza dei ministri, Dipartimento per i diritti e le pari opportunità ex d.lgs. n. 215, con proprio parere e raccomandazione del 26 ottobre 2007.
L’UNAR, nel ricostruire l’evoluzione del pubblico trasporto locale, evidenzia come, a partire dagli Anni Novanta del trascorso Secolo, la maggior parte delle imprese che vi operavano si sia trasformata in società per azioni: e l’A.T.C. S.p.A., odierna convenuta, é tra queste.
È vero che si tratta di società ancora caratterizzate dalla perdurante influenza dei pubblici poteri e che possiedono una rilevanza pubblicistica, gestendo servizi di pubblica utilità con utilizzo di fondi pubblici: per questo motivo – come ricorda l’UNAR con ampia citazione di direttive comunitarie (per tutte, n. 89/440/CEE del 18 luglio 1989) e giurisprudenza nazionale (per tutte, Cass., s.u., 5 febbraio 1999, n. 24, C. Stato, VI, 5 settembre 2002, n. 4711) – può ad esse attagliarsi la definizione di organismi di diritto pubblico.
Non di meno, esse non possono essere qualificate come pubblica Amministrazione, non rinvenendosi la loro menzione nell’elencazione di cui all’art. 1, comma 2, t.u. sul pubblico impiego.
Inoltre, l’evoluzione giurisprudenziale sta superando, quanto all’aspetto del rapporto di lavoro, l’insegnamento più risalente ed afferma ormai la natura privatistica di tale rapporto.
Infatti, si insegna oggi che «tali aziende… integrano strutture con connotati di impresa, autonome rispetto all’organizzazione pubblicistica del comune» (Cass., s.u., 28 giugno 2006, n. 4852, dalla massima).
Ancora, la cassazione a sezioni unite 15 aprile 2005, n. 7799, in motivazione, ha affermato che «la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (comune, provincia, etc.) ne posseggano le azioni, in tutto o in parte, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera “nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico”».
Si tratta di pronunzie rese verso aziende municipalizzate addette alla raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani, ma il principio ivi affermato – per la nettezza degli assunti e l’estensibilità delle ragioni che lo sorreggono – ha portata più ampia.
L’assimilazione del rapporto di lavoro dell’autoferrotranviere a quello del pubblico dipendente non pare quindi fondatamente sostenibile, mentre diventa nettamente preponderante quella con il lavoro privato (sia pure con una certa specialità di disciplina).
Conseguentemente il fondamento dell’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. n. 148, all. A), non si giustifica col richiamo alle norme che regolano l’accesso agli uffici pubblici.
A questo punto, potrebbe richiamarsi la motivazione addotta dal citato Tribunale di Genova, ord. 18 aprile 2007, laddove si dice che «l’autista di mezzo pubblico svolge mansioni particolarmente delicate che involgono anche direttamente la pubblica incolumità, l’ordine pubblico e la sicurezza».
Ma tale motivazione, a ben vedere, non convince, poiché appare generica e smentita da una serie di considerazioni.
Intanto, se così fosse, non si vede per qual ragione il legislatore non abbia sentito l’esigenza di imporre anche in altri campi – non necessariamente pubblici -, che coinvolgono la pubblica incolumità o la sicurezza, il requisito della cittadinanza per l’accesso al lavoro.
Inoltre, se così fosse, non si comprende come possa l’azienda di trasporto locale appaltare a ditte terze il servizio su alcune tratte.
Si è così giunti alla singolare situazione che il ricorrente non può essere assunto all’A.T.C. S.p.A. in quanto non in possesso della cittadinanza, ma è stato assunto da altra azienda (la Arcadia s.c.r.l.) la quale esercita, in regime di appalto o subappalto, il pubblico servizio di trasporto su alcune linee di competenza della stessa A.T.C. S.p.A.
Addirittura, il ricorrente svolge, per Arcadia s.c.r.l., le mansioni di autista di mezzi di pubblico trasporto e può condurre vetture (leggasi, autobus) che sono di proprietà dell’A.T.C. S.p.A. e che questa ha dato in comodato ad Arcadia s.c.r.l.
Su questi punti, ha portata confessoria il libero interrogatorio delle parti.
Alla luce di questo e della mutata situazione di fatto e di diritto in cui opera la convenuta A.T.C. S.p.A., non si riesce a ravvedere ed apprezzare quale sia, oggi, l’interesse dello Stato a limitare, nel settore del trasporto pubblico, l’accesso al lavoro al solo cittadino.
Da queste considerazioni discende un sospetto non manifestamente infondato di illegittimità costituzionale dell’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. n. 148, all. A), norma speciale che appare in contrasto con gli artt. 3 e 4, Cost.
Con riguardo all’art. 3, giova richiamare, ex multis, la sentenza 28 novembre 2005, n. 432, di codesta Corte delle leggi, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, l. reg. Lombardia 12 gennaio 2002, n. 1, «nella parte in cui non include gli stranieri residenti nella Regione Lombardia fra gli aventi diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea riconosciuto alle persone totalmente invalide per cause civili» (dal dispositivo).
In quel caso, il parametro costituzionale è stato proprio l’art. 3 e lo scrutinio si è mosso sulla scorta del canone di ragionevolezza, ricercando «nella stessa struttura normativa una specifica, trasparente e razionale “causa giustificatrice”, idonea a “spiegare”, sul piano costituzionale, le “ragioni” poste a base della deroga» per gli stranieri (dalla motivaz.).
Dall’esito negativo di tale ricerca, è scaturito l’accoglimento della questione di costituzionalità.
Ritiene il remittente, per le ragioni dette supra, che a questo caso si attaglino le medesime considerazioni e che ciò rafforzi il sospetto di incostituzionalità.
Anche l’art. 4 pare violato, in quanto si frappone un irragionevole ostacolo all’effettiva attuazione del diritto al lavoro.
Gli atti vanno quindi trasmessi alla Corte costituzionale per l’ulteriore corso; ed il presente giudizio rimane sospeso sino all’esito del procedimento di costituzionalità anzidetto.
P.Q.M.
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, primo comma, n. 1), r.d. 8 gennaio 1931, n. 148, all. A), Regolamento contenente disposizioni
sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione, nella parte in cui richiede, per l’ammissione in prova al servizio, il requisito della cittadinanza italiana, per violazione degli artt. 3 e 4, Cost.;
Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
Sospende il presente giudizio;
Ordina la notificazione della presente ordinanza al Presidente Consiglio dei ministri e la comunicazione della stessa al Presidenti dei due rami del Parlamento;
Manda la cancelleria per quanto di sua competenza.