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da Ponte di mezzo

Storia di un viaggio verso l’Italia

Da Addis Abeba a Siracusa, un tragitto durato due anni

F.* ha 28 anni, è di nazionalità etiope e proviene da Addis Abeba e come molti suoi connazionali e immigrati dal corno d’Africa e da paesi in fuga da guerre e persecuzioni, ha affrontato il tormentato viaggio per l’Italia con le così dette “carrette del mare”, di cui la cronaca quotidiana continua a parlare, specialmente a seguito degli ultimi innumerevoli sbarchi estivi.
F. è una testimone diretta di un fenomeno che tramite i media spesso non riusciamo a comprendere.
Il suo lungo racconto segue le rotte di un percorso lento, pericoloso e molto dispendioso, fatto di tappe, attese e respingimenti, d’estenuanti ore di macchina passate sotto il sole del deserto libico e sudanese. Solo pochi sono i migranti che riescono ad arrivare alla destinazione finale; di molti altri non ne rimane voce né traccia.

Quando sei partita per l’Italia?
Due anni fa, sono partita nell’estate del 2005 e sono arrivata in Italia nell’estate del 2007.

Da dove esattamente?
Da Addis Abeba, Etiopia. Nel mio paese mi avevano fermato per le mie idee politiche […] , a seguito del mio arresto temevo per la mia famiglia e per quello che poteva subire se rimanevo lì, una volta rilasciata non sono rientrata a casa. Ho deciso di partire immediatamente.

Qual è stato il tuo percorso?
La prima destinazione è stata il Sudan, più precisamente la città di Khartoum, si attraversa la Libia, passando per Cufra e da lì a Tripoli, la capitale, dove inizia l’attesa per l’imbarco verso l’Italia.

Su quali mezzi di trasporto avete affrontato il viaggio?
Sono diversi, si cambiano spesso in base ai posti. Di solito su piccoli camion o pulmini.
Nel primo camion siamo partiti in una trentina di persone, eravamo strettissimi e ammassati senza coperture.
L’attraversamento della prima frontiera per lasciare l’Etiopia è stata molto pericolosa: la presenza di militari sul confine ci ha obbligati a scendere dal mezzo e percorrere il tratto a piedi per centinaia di metri cercando di passare inosservati, senza fare rumore.
Sono tanti i problemi se ti arrestano, se possono non solo ti riportano indietro ma ti trattengono per lunghi giorni e la violenza è tanta. Tutti avevamo una grande paura e non solo noi donne.
Tutto andò bene e non ci controllarono. Cambiammo poi mezzo e procedemmo verso nord per Khartoum. Il tratto fino a Cufra si percorre in tanti giorni, noi ne abbiamo impiegati ventidue.

Ma questa è una zona desertica?

Dal Sudan alla Libia Il deserto diventa infinito e se succede qualcosa non riesci più a proseguire. Così i primi giorni, il mezzo che ci trasportava non ha avuto problemi, ma poi si è fermato. Per 16 lunghi giorni siamo rimasti fermi per un guasto meccanico e senza benzina, il nostro autista non aveva nulla con sé e continuava a litigare al telefono, noi inizialmente non capivamo. Ci siamo dovuti fermare, costretti a dormire per terra nella sabbia.
La notte faceva freddissimo e i raggi del sole del giorno non bastavano a scaldarti le ossa per il freddo che sopportavamo la notte.
Una volta arrivato qualcuno ad aiutarci, con i rifornimenti di benzina, abbiamo proseguito.

Vi siete ritrovati davanti un’altra frontiera, quella per arrivare in Libia?
Sì, era l’altro grande problema, questa si attraversa solo di notte a piedi, quando i controlli diminuiscono e per arrivarci si è costretti a fare di tutto, di solito si striscia per terra per centinaia di metri.

E una volta arrivati a Cufra?

Rimanere a Cufra è stato molto duro, le razioni d’acqua sono state minime e il riso, unico alimento, scarsissimo. Qui sono rimasta senza soldi poiché avevo speso tutto.
Eravamo nascosti in una casa dove abbiamo aspettato per giorni, ci avevano detto che per andare avanti dovevamo pagare ancora, per evitare controlli da parte della polizia.
Così ho richiamato la mia famiglia e una volta arrivati i soldi, all’incirca 200-300 dollari, è stato possibile proseguire per Tripoli.

Quanto ti è costato il viaggio fino a qui?
In totale da Addis Abeba a Tripoli il viaggio mi è costato 1000 dollari. In questa cifra avrebbe dovuto esser compreso tutto il pagamento di chi ci ha organizzato il viaggio.

A Tripoli invece…
Una volta a Tripoli, in questa grande città, sono cominciati di nuovo i problemi, avevo speso tutto. Per due mesi ho accettato, pur di sopravvivere, di prostituirmi, ma non riuscivo a fare quella vita.
Ho fatto il possibile per cercare un altro lavoro, ho trovato qualcosa come inserviente, poi come baby-Sitter per quattro mesi, ma sei sempre all’erta con tutto addosso perché hai paura che la polizia venga a prenderti in ogni momento.
Ho vissuto sempre nella paura.

Quanto sei rimasta in Libia?
Un anno e sei mesi circa.

Avevi bisogno di altro denaro?
Dopo un anno mio fratello è riuscito a inviarmi un’altra somma di denaro e con i miei risparmi potevo partire per l’Europa, così ho cercato il modo di arrivare in Italia e ho trovato questa persona di cui tutti parlavano che con una barca organizzava il viaggio, la spesa era di altri 1200 dollari.
Per quindici giorni mi sono fermata a Zuara sulla costa, vicino a Tripoli, per attendere la partenza eravamo divisi per gruppi, noi eravamo in ventisette, dovevamo aspettare il momento giusto per partire, il mare calmo e il tempo più favorevole.

Dove era previsto l’arrivo?
Non ti dicono dove, puoi arrivare ovunque, anche a Malta. Dove arrivi arrivi loro ti dicono “Italia”. E tu sai solo questo.

Che tipo d’imbarcazione si utilizzava per la traversata?
Un gommone doveva partire di notte. Ricordo che quando siamo arrivati in mare era da poco passata la mezzanotte e il tempo era buono, siamo riusciti a trascinare in acqua il gommone e a imbarcarci, ma subito dopo poche ore ci ha sorpreso la polizia.
La nostra guida per paura è fuggita così abbiamo acceso i motori e insieme agli altri abbiamo cercato di proseguire: preferivamo morire piuttosto che tornare in Libia, per cinque ore abbiamo navigato con la polizia che tentava di prenderci per riportarci a riva. Per prenderci hanno iniziato a sparare per bucare il mezzo e alla fine ci siamo trovati tutti in mare, ormai vicino alla costa.
Una volta presi siamo stati tutti arrestati e trattenuti per giorni e giorni in carcere. Non ricordo il tempo passato in quella cella.

Cosa succede a questo punto?
L’arresto nel centro di detenzione dura fino a quando scoppia una rivolta. Per protesta è stata provocato un incendio: in quell’occasione io e altre persone riusciamo a scappare. Tutt’intorno vedevo la gente del posto arrabbiarsi: non vogliono vedere immigrati e c’é odio per la strada verso di noi.
La polizia libica ci riprende e riporta a Cufra. Ricomincia il ricatto. Se paghi sei rilasciato e puoi rientrare a Tripoli. Ma per farlo sono altri 500 dollari!
Ero al punto di prima… la mia famiglia senza soldi… ero disperata!

Da Tripoli si deve ritentare?
Ripagato il viaggio si riprova. Eravamo ancora in una trentina di persone in mare con un’altra imbarcazione e tutto sembrava procedere bene ma una volta al largo rimanemmo senza benzina. Ci informarono che era necessario tornare indietro, ma colui che ci trasportava ci abbandonò gettandosi in mare. Eravamo di nuovo senza guida.
Dopo ore a motore spento al largo nel mare incrociammo una grande imbarcazione che ignorò la nostra richiesta di soccorso.
I trasportatori al momento del pagamento parlarono di una traversata di 17 ore, il nostro viaggio durò giorni. Almeno quattro, fino a quando incontrammo la polizia di Malta che ci rifornì di benzina, acqua e cibo, aiutandoci specialmente con la rotta dato che il nostro navigatore non funzionava.
Seguendo le loro indicazioni, ormai vicino alla costa italiana, incontrammo alla fine una barca americana che ci chiese dove eravamo diretti: noi urlammo “Italia!!” e così decisero di avvisare la guardia costiera italiana: dopo poche ore arrivammo a Siracusa.

Una volta sbarcati a Siracusa cosa accade? Siete stati portati nel Centro di Permanenza temporanea?
Sì, a Siracusa. Eravamo in tanti e lì siamo rimasti per 15 giorni, poi decisero di portarci a Crotone, al centro di Isola Capo Rizzuto dove, ci informarono, si sarebbe effettuata l’identificazione.
Passarono due mesi prima del colloquio. La commissione, ascoltata la mia storia, mi rilasciò il documento, un permesso di soggiorno per protezione umanitaria.
Due erano le possibilità che ci venivano offerte, la possibilità di avere due biglietti per due città diverse.
Io e altri ragazzi etiopi e eritrei decidiamo di andare a Roma, nel quartiere lungo la linea metropolitana Ananigna dove risiede un’importante comunità di connazionali.
E’ lì che abbiamo sentito parlare di un padre a Fidenza che accoglie le donne straniere che come noi provengono dall’Africa, inoltre siamo venuti a conoscenza del fatto che a nord è più facile trovare lavoro e così la decisione di prendere il treno per Fidenza.
Una volta scese dal treno, ci siamo recati nella casa di accoglienza di Don Camillo.

Nel complesso sono passati più di due anni dal giorno in cui hai deciso di partire, pensavi di metterci questo tempo e di spendere così tanto denaro?
No, credevo di impiegare due mesi o poco di più e spendere circa 1000 dollari ma ne ho spesi tanti, troppi! Tre o forse quattro volte di più.

L’intervista si è chiusa con una domanda volta a sapere se, con l’esperienza di poi, rifarebbe tutto da capo, cioè se sarebbe ancora disposta a rischiare vita per arrivare in Italia.
Il suo silenzio sembra dire che a volte le parole non servono per comprendere le ragioni di un viaggio come questo e che tutta l’esistenza di chi rischia così tanto rimane appesa ai fili invisibili di un destino che non possiamo conoscere.

Intervista di Arianna Colaiacovo
Fonte: Ponte di Mezzo
Giornale di comunicazione Interculturale
Prog. Coordinato Provincia di Parma

Note

*F. E’ l’iniziale di un nome scelto per l’ intervista, si è deciso infatti di rispettare l’anonimato della persona interessata per permetterle di raccontare senza inibizioni o paure il suo viaggio verso l’Italia.