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Stranieri assolti e non espulsi, nulla di stravagante

di Nicola Canestrini, avvocato, membro dell'Associazione Giuristi Democratici e componente del team del Genoa Legal Forum

Ha fatto scalpore la notizia dell’assoluzione di alcuni extracomunitari perché la trasgressione all’ordine di espulsione (cioè il fatto di essere restati in Italia nonostante avessero ricevuto l’ordine di tornare al loro paese) era dovuta al fatto di non avere i soldi per poter acquistare il biglietto di ritorno.
Si tratta di scalpore giustificato? Ha ragione chi definisce la decisione di assoluzione del tribunale di Trento una «sentenza stravagante»?
Come noto, l’art. 14 comma 5-ter del Testo unico sull’immigrazione stabilisce che viene punito «lo straniero che senza giustificato motivo si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis (…)». Per chi deve applicare la legge si pone dunque il problema di cosa significhi «giustificato motivo».
La Corte Costituzionale, con la sentenza 5/ 2004, ha da tempo stabilito che vi sono alcune situazioni che certamente integrano tale motivo giustificato, quali la necessità di soccorso, la difficoltà nell’ottenimento dei documenti per il viaggio; l’indisponibilità di vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, mancato rilascio, da parte della competente autorità diplomatica o consolare, dei documenti necessari, ma anche – che sorpresa! – anche quando l’inadempienza dipenda dalla condizione di assoluta impossidenza dello straniero, che non gli consenta di recarsi nel termine alla frontiera (in particolare aerea o marittima) e di acquistare il biglietto di viaggio.
La decisione del tribunale trentino è dunque tutt’affatto che «stravagante»: da più di cinque anni la Corte Costituzionale ha affermato tale principio, che trova riconoscimento pressoché quotidiano in tutti i Tribunali e Corti di Appello in tutta Italia, ed è stata ribadita ampiamente anche dalla Cassazione. Innegabile che – come scrisse la stessa Corte Costituzionale più di cinque anni fa – la formula «senza giustificato motivo» riduce notevolmente, in fatto, l’ambito applicativo della norma incriminatrice, anche se nell’ottica (condivisa dal sottoscritto) di «…un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze di tutela sociale» cui è preposto l’Ordine di allontanamento, «… ed i diritti fondamentali dello straniero, garantiti dalle norme costituzionali».
Se l’idea era quella di automatismo fra clandestinità = espulsione, la legge è scritta male, e chi l’ha scritta male sono quei politici che allora come oggi erano in maggioranza. Infatti, come è noto l’articolo in questione è stato inserito nel Testo Unico sull’immigrazione proprio dalla cosiddetta «Bossi-Fini», prendendo dunque nome proprio da quell’Umberto Bossi, ministro senza portafoglio per le Riforme istituzionali e la devoluzione del II governo Berlusconi (2001 – 2004), leader del movimento politico i cui ministri (Maroni) e parlamentari (Fugatti) tanto si lamentano.
Più che della sentenza, si lamentino della loro legge: all’epoca è stata scritta male (da loro), loro nulla hanno fatto per correggerla, ed è troppo facile scaricare ora le colpe su chi quotidianamente la deve applicare. Infatti, nel nostro ordinamento i giudici sono soggetti alla legge: questa soggezione del giudice alla legge, da un lato, comporta il dovere di fedeltà alla norma, anche quando non sia condivisa. È dunque vietato al giudice disapplicare leggi che lui non approva: la legge è legge, e va applicata. Anche quando (si sostiene) è scritta male.
Dall’altro lato, il principio di soggezione alla legge del giudice esalta la sua autonomia, secondo il modello della separazione dei poteri: il legislatore fa le leggi, il potere esecutivo le fa rispettare, il giudice è garante di tale sistema.
Stupisce dunque che dopo 250 anni un parlamentare con il fazzoletto verde (lo stesso testé citato) indignato dichiari che il giudice deve interpretare la volontà popolare: il popolo, semmai, elegge i rappresentanti in parlamento che faranno le leggi che verranno fatte osservare dai giudici.
Il filosofo francese che tradizionalmente viene indicato come padre della separazione dei poteri, Montesquieu, nel 1748 nello «Spirito delle leggi», chiarisce con parole sempre attuali il perché della necessità di separare i tre poteri dello stato: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere».
Non è difficile da capire, mi pare.